Grave norma anticostituzionale deliberata di soppiatto dal governo Letta-Alfano
Soppressi i tabelloni elettorali per i partiti che non presentano liste
Il PMLI ricorrerà alla magistratura affinché sia riconosciuta l'incostituzionalità dell'atto normativo

Il 1 gennaio 2014 è entrata in vigore la cosiddetta legge di stabilità ovvero quella che in passato si chiamava legge finanziaria, più precisamente la legge 27 dicembre 2013 n.147 che riguarda le “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato”. Si tratta di una legge che scarica i costi della crisi del capitalismo sulle masse popolari e lavoratrici italiane con ulteriori micidiali tagli.
Nascosti tra le pieghe di tale famigerata legge compaiono in particolare quattro commi, dal 398 al 401, che modificano notevolmente le procedure in occasione delle elezioni siano esse europee, politiche, regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali e per gli stessi referendum, restringendo i diritti degli elettori sotto vari aspetti.

Misure fasciste introdotte di soppiatto
Una questione molto grave è l’abolizione dei tabelloni per l’affissione dei manifesti elettorali da parte dei partiti che non presentano liste di candidati e più in generale di tutti coloro che non partecipano direttamente alle elezioni. L'elettorato avrà perciò minore possibilità di venire a conoscenza della propaganda elettorale astensionista tattica del PMLI tramite manifesti.
Pretesto e alibi per la cancellazione o comunque la riduzione delle prerogative degli elettori, è la decisione di diminuire in via permanente a decorrere dal 2014 di 100 milioni di euro il “Fondo da ripartire per fronteggiare le spese derivanti dalle elezioni”, gestito dal Ministero dell’economia e delle finanze e di cui usufruiscono tramite rimborsi i comuni.
Lo stesso pretesto col quale verranno soppresse le province e il “bicameralismo perfetto” e ridotto il numero dei parlamentari secondo il progetto della P2. Meno spazi e diritti politici ed elettorali per le masse, più potere alla classe dominante borghese e ai suoi governi e partiti. La conferma che la democrazia borghese è una democrazia a senso unico, dove a spadroneggiare sono i partiti della borghesia mentre al proletariato e al suo partito si nega qualsiasi spazio. E la conferma che siamo in pieno regime neofascista, dove anche dal punto di vista formale oltreché sostanziale sono cancellati i residui spazi democratici agli oppositori di classe. Precedentemente all’adozione della nuova normativa voluta dal governo Letta-Alfano, approvata sia alla camera che al senato con il voto decisivo del PD di Renzi e promulgata dal nuovo Vittorio Emanuele III, Giorgio Napolitano, vigevano le “Norme per la disciplina della propaganda elettorale” della Legge 4 aprile 1956 n. 212, ora in parte abrogate, in base alle quali, riguardo al diritto di affissione gratuita a propria cura di manifesti sui tabelloni elettorali, c’era una formale parità sui tabelloni tra i partiti che partecipavano alla competizione elettorale e quelli invece che non presentavano proprie liste.
Mentre il primo comma dell’art. 1 di tale legge tratta dei partiti o gruppi politici partecipanti con candidati alle elezioni, il secondo comma soppresso affermava che “L’affissione di stampati, giornali murali od altri e manifesti, inerenti direttamente o indirettamente alla campagna elettorale, o comunque diretti a determinare la scelta elettorale, da parte di chiunque non partecipi alla competizione elettorale ai sensi del comma precedente, è consentita soltanto in appositi spazi, di numero uguale a quelli riservati ai partiti o gruppi politici o candidati che partecipino alla competizione elettorale”.

Calpestato l'art. 21 della Costituzione
Questa scelta del legislatore teneva conto del fatto che doveva essere rispettato l’art. 21 primo comma della Costituzione il quale afferma che “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. La Corte costituzionale (sentenza n.48/1964) sottolineò che tali norme “tendono a porre tutti in condizione di parità: ad assicurare, cioè, che in uno dei momenti essenziali per lo svolgimento della vita democratica, questa non sia di fatto ostacolata da situazioni economiche di svantaggio o politiche di minoranza”. Ed è esattamente questo il punto, che fine fa il diritto democratico di affissione elettorale dei partiti, associazioni , organismi vari e “di chiunque non partecipi alla competizione elettorale” una volta abrogata la norma che lo tutelava “in condizioni di parità” e senza discriminazioni legate “a situazioni economiche di svantaggio”?
Se ovviamente non si può supporre, ci mancherebbe altro, che automaticamente tale diritto venga interamente cancellato e dal momento che la stessa Corte costituzionale (sentenza n. 1/1956) conferma che “le affissioni non possono farsi fuori dai luoghi destinati dall’autorità competente” e quindi non altrove, l’unica possibilità rimane quella, sia pure non esplicitata dalla nuova normativa, di ricorre al servizio delle pubbliche affissioni organizzato dall’amministrazione comunale. Già ma tale servizio comporta il pagamento dei relativi diritti ed è quindi pesantemente oneroso e non gratuito e perciò non sussistono né le “condizioni di parità” né quelle che impediscono che vi siano “situazioni economiche di svantaggio” rispetto ai partiti che si presentano con candidati alle elezioni. Non solo, ma una fondamentale manifestazione democratica del “proprio pensiero” su un tema rilevante come quello elettorale attraverso manifesti finisce mescolata e in concorrenza per gli spazi con i manifesti della pubblicità commerciale.
Mentre sempre la Corte costituzionale (sentenza n. 48/1964) rilevava che la legge del 1956 sulla propaganda elettorale “prescrive in genere, tutte le modalità di applicazione della disposta disciplina, senza lasciare alla Giunta comunale il minimo potere discrezionale. E ciò è a dirsi anche per la concreta assegnazione degli spazi, giacché questa avviene (…) per quanto riguarda gli altri soggetti che non partecipano direttamente alla campagna elettorale, in base a semplice domanda, che non ha altra funzione che quella di render noto il proposito di procedere all’affissione e che determina ipso iure l’obbligo dell’Amministrazione di assegnare gli spazi secondo modalità anch’esse rigidamente stabilite dalla legge”. Nel caso delle pubbliche affissioni, in base all’esperienza concreta per l’affissione di manifesti non elettorali, ci si trova notoriamente a subire il “potere discrezionale” dell’ufficio preposto che mercanteggia sul numero dei manifesti che afferma sia possibile affiggere e sul periodo in cui possono stare affissi.

Il PMLI ricorrerà per manifesta anticostituzionalità
Inoltre mentre sui tabelloni elettorali gratuiti si possono affiggere dei nuovi manifesti al posto di quelli deteriorati o coperti da altri, con le pubbliche affissioni di fatto ciò non è possibile se non sobbarcandosi ulteriori gravose spese di affissione. Inoltre non è detto che le pubbliche affissioni, in base al comportamento fin qui seguito, accettino di affiggere i manifesti elettorali di chi non presenta liste.
Appare evidente che per tutti questi motivi si conferma l’antidemocraticità della norma in questione. In particolare per il trattamento disomogeneo dei vari soggetti coinvolti che determina disparità tra coloro che presentano liste di candidati alle elezioni e chi non intende farlo ma vuole comunque esprimere il proprio pensiero al riguardo ed effettuare al pari dei partiti parlamentari la relativa propaganda tramite l’affissione di manifesti a propria cura e senza alcun onere economico correlato.
Ne deriva pertanto un insanabile contrasto rispetto al dettato costituzionale dell’art. 21, palesemente violato, e non risulta “manifestamente infondata”, anzi il contrario, la tesi del PMLI della illegittimità costituzionale della norma stessa, illegittimità che verrà fatta valere attraverso la prescritta procedura giudiziaria mediante il ricorso alla magistratura ordinaria affinché emerga l’incostituzionalità della norma stessa e il giudice, tramite apposito ricorso, chieda alla Corte costituzionale di pronunciarsi in merito all’abrogazione della norma incriminata.

26 febbraio 2014