Lottiamo e formiamo un grande fronte unito per abolire il precariato

Documento dell'Ufficio politico del PMLI
 
Il PMLI mette al centro della propria piattaforma rivendicativa la richiesta di un lavoro stabile, a salario intero, a tempo pieno e sindacalmente tutelato per tutti, compresi le ragazze e i ragazzi al termine degli studi. Oggi ciò non avviene per via del capitalismo e dei suoi governi che fanno di tutto per farlo uscire dalla sua devastante crisi, producendo, oltre ad una dilagante disoccupazione giovanile, anche il mostro del precariato.
Il precariato è ormai diventato la norma, non l'eccezione. Esso è un enorme bacino da cui il capitale può attingere lavoro a termine, sottopagato, supersfruttato, cancellando d'un colpo le garanzie e le tutele conquistate con anni di dure e sanguinose lotte da parte del movimento operaio, quali la maternità, le ferie pagate, la malattia, la previdenza sociale. La precarietà non interessa soltanto il lavoro ma la vita stessa del lavoratore precario, il quale fatica a mettere su casa, a creare e mantenere una famiglia, finanche pesando su genitori, parenti e talvolta persino amici per un sostegno economico, specie nei periodi di “magra”. Dietro la scusa del “lavoro ai giovani”, del loro “inserimento nel lavoro” e della “flessibilità del mercato”, il precariato ha gettato nella disperazione, nella miseria, nel degrado sociale e nell'incertezza migliaia e migliaia di giovani e meno giovani, ha strappato loro il presente, nei casi più drammatici addirittura portandoli al suicidio, e ha messo seriamente a repentaglio il loro futuro.
E tutto questo per soddisfare l'insaziabile sete di profitto dei capitalisti che calpesta tutto e tutti, a partire dai lavoratori e dai loro diritti. Ciò è stato possibile grazie all'azione dei governi Craxi, Dini, Prodi, D'Alema, Berlusconi, Monti e Letta. Renzi ha già dimostrato nella pratica che non “cambierà verso” a favore dei precari.
Il precariato purtroppo riguarda ormai tutte le fasce d'età, ma è un problema che deve suscitare soprattutto l'attenzione e la mobilitazione dei giovani, poiché è a loro che si prospetta un futuro lavorativo senza diritti né tutele né lavori stabili e ben remunerati. E non parliamo della pensione.
Questo Documento vuole offrire alle masse precarie italiane innanzitutto, ma più in generale a tutte le masse lavoratrici, popolari, giovanili e femminili del nostro Paese, un'analisi di classe del problema del precariato e la relativa piattaforma dei marxisti-leninisti italiani. Si tratta di un primo contributo, altri potranno seguire in base agli avvenimenti, allo sviluppo della lotta di classe, all'innalzamento della coscienza politica delle precarie e dei precari e man mano che essi si avvicineranno alla causa del socialismo e quindi al PMLI.
 
1. IL PRECARIATO OGGI
Quella delle forme di lavoro precarie è una vera e propria giungla. Riassumendo, possiamo stilare una breve lista: apprendistato; stage; contratti a tempo determinato; contratti a progetto (co.co.pro.); lavoro interinale; lavoro accessorio (cioè pagato con i “voucher”); false partite IVA; part-time. Queste le tipologie più usate e abusate, ma ve ne sono ancora altre, dal lavoro a chiamata al job-sharing e così via.
Anche l'apprendistato, difeso a spada tratta dalla “sinistra” borghese e persino dalla CGIL come “gavetta” necessaria per l'inserimento dei giovani al lavoro, è di fatto una forma di lavoro precario perché, oltre a essere sottopagato, non offre nessuna garanzia di assunzione, tanto che durante il periodo di prova l'apprendista può essere addirittura licenziato senza preavviso. Non parliamo poi dei diritti sindacali, dato che il padrone ha tutte le scappatoie legali per lasciare a spasso l'apprendista che osa far valere i propri diritti.
È difficile quantificare i precari, sia per l'altissimo numero di tipologie “atipiche”, sia perché rimbalzano continuamente fra occupazione, disoccupazione e lavoro nero, per non parlare di chi è inghiottito dai “Neet” (acronimo inglese che indica chi non lavora né studia). Inoltre non tutte le ricerche tengono conto dei molteplici e più astrusi aspetti del precariato, tipo le false partite IVA.
Il Rapporto sui diritti globali 2013 promosso dalla CGIL quantifica i precari italiani in 3.315.580, con un guadagno medio di 836 euro al mese (759 per le donne), concentrati per la maggior parte nel Mezzogiorno.
Tuttavia, indagini Istat del luglio 2013 dipingono una situazione ancora peggiore: per l'Istituto di statistica, appena il 53,6% degli occupati lavora “stabilmente e a tempo pieno” .
La loro distribuzione è molto varia. Le grandi imprese e multinazionali ne fanno largo uso, basti citare gli stabilimenti italiani della Coca Cola, McDonald's Italia dove l'80% dei lavoratori è a part-time forzato, o il caso clamoroso della multinazionale livornese MTM, che nel 2009 aveva 400 operai, tutti a termine. Ma non sono da meno i piccoli imprenditori e artigiani, appartenenti alla piccola borghesia impoverita dalla crisi, mentre i governi fanno piovere cascate di denaro pubblico sulle banche e sulle grandi imprese, che poi magari spostano la produzione all'estero. Si va fino alle case editrici, ai giornali e ai call center, vera e propria palude dei co.co.pro.
Il principale motore del precariato è però la pubblica amministrazione, soprattutto per via del taglio degli organici e del blocco del turn-over e dei concorsi, ma anche per l'esplicita volontà dei manager pubblici di tagliare i costi del lavoro. Angelita, del coordinamento precari Istat, nel maggio scorso ha denunciato a “Il Bolscevico” come, sotto la presidenza di Enrico Giovannini, all'Istat “il numero dei precari sia passato (...) da 0 a 400”. Quindi, aggiungeva, “quando lui è arrivato ha trovato una situazione nella norma e si è sentito in dovere di pensare che l'Istat aveva bisogno di reclutare nuova forza lavoro - e su questo nulla da dire, ben venga! - però che questa forza lavoro dovesse essere reclutata in base a contratti di lavoro a tempo determinato per far fronte all'emergenza del censimento, ma in realtà i lavoratori sono impiegati nelle attività ordinarie dell'ente e non solo nelle operazioni censuarie che possiamo pensare essere non continuative” (1). E l'artefice di questo aberrante “capolavoro” è stato ministro del lavoro del governo Letta!
Endemico il precariato della conoscenza, aggravato pesantemente dall'azione dissennata dell'ultimo governo Berlusconi, ben rappresentato dal gerarca Brunetta, che in un'occasione tacciò i precari di essere “l'Italia peggiore”, coprendosi di vergogna. Grazie ai tagli di Tremonti e Gelmini, l'Italia ha infatti il precariato scolastico più alto d'Europa. Il precariato universitario è altissimo e costituito da ricercatori a contratto, professori a contratto, assegnisti, borsisti, tutor, collaboratori di ricerca. Sono i ricercatori a farne maggiormente le spese: la loro situazione è esacerbata dall'abolizione della figura di ricercatore a tempo indeterminato da parte della “riforma” Gelmini del 2010, e dai tagli di Tremonti che nello stesso anno hanno falcidiato gli enti di ricerca.
Fra i precari ci sono molti giovani ma purtroppo anche un esercito sterminato di più anziani, a riprova del fatto che i contratti precari sono stati inventati non per dare lavoro ai giovani, ma per cancellare i diritti e le tutele dei lavoratori. I contratti “atipici” riguardano infatti, per la maggioranza, lavoratori di oltre 30 anni, ma ci sono precari anche di 40, 50 e più anni. Ai giovani che sfuggono al 42% di disoccupazione giovanile è stato riservato soprattutto lo stage.
Le donne sono le più colpite. Più della metà delle giovani lavoratrici ha un contratto precario e il tasso di stabilizzazione è molto inferiore a quello dei giovani lavoratori. Tante e gravi sono le ripercussioni sulla vita di queste ragazze, soprattutto per quanto riguarda la creazione della propria famiglia. Già nel 2003 un rapporto Ires notava che “il limite più sentito è proprio quello di non poter progettare la maternità” .
Un vero e proprio crimine contro un'intera generazione di giovani è che essi rischiano di non vedere uno straccio di pensione né una pur misera pensione, perché i contratti precari prevedono nessuno o pochissimi contributi previdenziali. Da non dimenticare quanto ammise l'allora presidente dell'INPS Mastrapascqua nell'ottobre del 2010: “Se dovessimo dare la simulazione di pensione ai parasubordinati rischieremmo un sommovimento sociale” .
A fronte di questa gravissima situazione, i politicanti borghesi di destra, centro e “sinistra” si riempiono la bocca di belle promesse, salvo poi disattenderle puntualmente.
Lo stesso fa l'Unione europea imperialista: si pensi che almeno una volta l'anno (almeno cinque volte solo nel 2012), il Consiglio, la Commissione o il Parlamento europeo hanno emanato risoluzioni per incentivare l'occupazione giovanile, ma poi non hanno preso nessuna misura pratica, nemmeno per alleviare l'emergenza. Quando l'hanno fatto, è stato a vantaggio dei padroni. Prendiamo ad esempio il documento “Garanzia giovani” del Consiglio europeo del 22 aprile 2013, recepito dal governo italiano a marzo 2014: esso, pur mirando ufficialmente a “garantire che tutti i giovani di età inferiore a 25 anni ricevano un'offerta qualitativamente valida di lavoro, proseguimento degli studi, apprendistato o tirocinio entro un periodo di quattro mesi dall'inizio della disoccupazione o dall'uscita del sistema d'istruzione formale” , nella sua strategia non prevede affatto la lotta al precariato ma “ridurre i costi non salariali della manodopera” , “incoraggiare i datori di lavoro” e “servizi di sostegno all'avviamento” di imprese.
Non stupisce che la cordata di politicanti borghesi al servizio del capitalismo italiano ed europeo non muova un dito. Quello che importa alla borghesia è aver trovato il metodo ideale per continuare a aumentare i propri profitti e dimezzare nettamente i costi sulla pelle delle masse in questa fase di crisi del capitalismo, da una parte. Dall'altra, ha cancellato decenni e decenni di conquiste operaie e sindacali.
 
2. LE TAPPE DEL PRECARIATO IN ITALIA
Non bisogna tralasciare il contesto in cui nacque il precariato. Da un'analisi a grandi tappe della sua storia, infatti, si può dire che il precariato è la tipologia contrattuale e lavorativa tipica della seconda repubblica capitalista, neofascista, presidenzialista, federalista e interventista.
Entrambi sono stati inaugurati dal neoduce Craxi, in un momento molto acuto della lotta di classe in Italia caratterizzato dalla capitolazione della CGIL e del PCI revisionista con il tradimento della gloriosa battaglia operaia alla Fiat del 1980: di lì a poco, entrambi completeranno la loro omologazione al capitalismo, il PCI sciogliendosi nel 1991, la CGIL divenendo compiutamente sindacato di regime con l'accordo del luglio 1992 che sancisce l'abolizione della scala mobile. La disoccupazione specie giovanile vive un'inquietante impennata su scala nazionale. Nel frattempo, a livello internazionale avanza il neoliberismo sulla spinta della Thatcher in Inghilterra, di Reagan negli USA e di Pinochet in Cile (al coretto si aggiungerà presto il rinnegato Gorbaciov). L'introduzione di nuove macchine automatizzate e nuovi mezzi di comunicazione manda in estasi la borghesia e le offre l'occasione per fantasticare su una società senza lotta di classe “nella quale non esiste l'occupazione formale di massa” (2). Di lì a poco inoltre ci sarebbe stato bisogno di affrontare i bassi costi del lavoro nelle emergenti potenze capitaliste, Cina e India in testa.
Il capitalismo insomma, com'è nella sua natura, si riorganizza per poter continuare a massimizzare i profitti scaricando i costi sulla classe operaia e sulle larghe masse lavoratrici, popolari, giovanili e femminili.
 
La legge 836/84
Dopo un primo tentativo da parte del governo Andreotti nel 1977, fallito per via della paura del governo di fronte alle grandi mobilitazioni operaie e studentesche di allora, il precariato fu introdotto dal governo Craxi con la legge 836/84 del 19 dicembre 1984. Essa introdusse il contratto di formazione e lavoro (CFL), rivolto ai giovani dai 16 ai 29 anni (soglia poi elevata a 32 anni), estendibile fino a 24 mesi.
Fra il 1985 e il 1991, furono conclusi ben 2.500.000 CFL ma solo il 55% dei giovani fu assunto. In uno studio del 1993, il Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro notava che “in assenza di limitazioni di natura legislativa, il contratto di formazione lavoro è stato utilizzato in effetti anche come tipo di contratto agevolato” . Ma sarebbe più corretto dire che la generalizzazione e l'estensione del CFL anche oltre i più giovani era alla base della sua introduzione. Basti pensare che fra il 1985 e il 2002, i giovani dai 20 ai 24 anni assunti con CFL passano dal 63% al 32,4%; i 25-28enni passano dal 17,6% al 39,4%; i 29-32enni passano dal 2,6% al 24,4%.
Come se non bastasse, la suddetta legge legalizza il part-time. Fra il 1984 e il 1991 i lavoratori part-time sono 1.281.812, concentrati soprattutto nel commercio e nei servizi; la larga maggioranza (75%) è composta da donne, motivate spesso dalla schiavitù domestica tipica del capitalismo.
 
Il pacchetto Treu
La legge varata da Craxi introdusse quindi le prime forme di precariato e “flessibilità” in Italia, ma per la borghesia non erano sufficienti, specialmente con l'avanzata della “globalizzazione” imperialista e soprattutto con la nascita dell'Unione europea, fondata proprio sulla demolizione dei diritti dei lavoratori. In ossequio ai dettami neoliberisti del trattato di Maastricht, che diede vita all'Unione europea, nel luglio 1993 governo, Confindustria e sindacati di regime firmarono un protocollo che sancisce: “per rendere più efficiente il mercato del lavoro va disciplinato anche nel nostro Paese il lavoro interinale” . Il padronato insomma aveva l'esigenza di ottenere opzioni contrattuali più manovrabili e sfruttabili per lanciarsi nell'orgia delle privatizzazioni degli anni '90.
La conseguenza fu il “pacchetto Treu” (legge 196/97), approvato il 4 giugno 1997 (con il voto del PRC trotzkista) dal 1° governo Prodi, che prende il nome dall'allora ministro del Lavoro. Questo dimostra, come vedremo, che la “sinistra” borghese fece sempre pesanti e gravi concessioni al padronato sul precariato, tradendo le larghe masse che si fidavano di essa per difendere i propri diritti.
Nel merito, il pacchetto Treu disciplinò il lavoro interinale (cioè tramite agenzie terze che “forniscono” lavoratori), che proliferò nell'industria e nelle amministrazioni pubbliche. Due terzi dei lavoratori assunti con questa tipologia nel corso degli anni hanno oltre 25 anni e una massiccia percentuale è costituita da migranti. Gli operai hanno costituito quasi il 60% delle richieste ad agenzie interinali.
La legge introdusse inoltre il contratto di collaborazione coordinata e continuativa (co.co.co.): il lavoratore assunto con questo contratto è ufficialmente “parasubordinato”, cioè non avrebbe un rapporto di subordinazione col padrone, il quale sarebbe solo il suo “committente” per la durata di un progetto o un'attività. La realtà è ben diversa: il co.co.co. divenne subito la scappatoia per assumere lavoratori fissi a basso prezzo. Nel 2002 i co.co.co. erano l'11% degli occupati totali, il 53,2% aveva fra i 30 e i 49 anni e percepiva redditi da fame, dimezzati nel Mezzogiorno.
 
La legge Biagi
Fin dalla sua costituzione, il 2° governo Berlusconi si pose l'obiettivo di completare la precarizzazione del lavoro in Italia. Già nell'ottobre 2001 il governo neofascista, in carica da appena quattro mesi, lo mise in chiaro con il Libro bianco sul mercato del lavoro in Italia , la cui redazione fu diretta dal giuslavorista Marco Biagi, già consigliere di Prodi. Il quale chiedeva ancora più flessibilità dietro il pretesto di combattere la disoccupazione giovanile e il lavoro nero. In realtà era un attacco a tutto campo contro i diritti e le conquiste dei lavoratori, a braccetto con il tentativo di manomettere l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, poi affossato dalla storica manifestazione di 3 milioni di lavoratori, pensionati, disoccupati, giovani e donne del 23 marzo 2002.
Biagi fu assassinato dalle sedicenti “BR”, ma sulla scia del suo Libro bianco il neoduce Berlusconi e il suo ministro fascio-leghista del Lavoro Maroni vararono la legge 30 del 14 febbraio 2003, nota appunto come “legge Biagi”. Salutata trionfalmente da Confindustria come “la più grande riforma del mercato del lavoro mai varata nel nostro Paese” , essa liberalizzò completamente il precariato e moltiplicò le forme di lavoro atipiche.
Nella fattispecie, la legge 30 liberalizza i contratti a tempo determinato, trasforma i co.co.co. in co.co.pro. (contratto di collaborazione a progetto, identici ai precedenti), introduce il contratto a chiamata, la collaborazione occasionale, il lavoro accessorio, il contratto d'inserimento (sostituito nel 2012 dall'“apprendistato professionalizzante”), il contratto a prestazioni ripartite (job-sharing), e facilita il part-time.
Il precariato insomma diviene la regola e il lavoro a tempo indeterminato e tutelato l'eccezione. Dietro il ricatto del licenziamento, vengono colpiti il peso politico, la forza contrattuale e l'unità della classe operaia e delle masse lavoratrici, vengono limitati tutti i diritti a partire da quello di sciopero, vengono legalizzati gli abusi, le paghe da fame e persino le discriminazioni politiche. I lavoratori non hanno nessuna voce in capitolo, le organizzazioni sindacali sono notevolmente indebolite e i padroni sono legittimati a fare il bello e il cattivo tempo.
 
3. LE ATTUALI FORME DI PRECARIATO DOPO LA “RIFORMA” FORNERO E IL “JOBS ACT”
Dopo nove anni, è il governo Monti della grande finanza, dell'Unione europea e della macelleria sociale che torna a legiferare in materia di precariato, non certo per risolvere la piaga ma per adattarla alle nuove esigenze del grande capitale. La palla passa alla Marchionne in gonnella del governo, Elsa Fornero, che si mette subito all'opera sulla controriforma del “mercato del lavoro”.
Il pretesto (di nuovo!) è la lotta alla disoccupazione giovanile e al lavoro nero mediante maggiore flessibilità. Questa volta, però, al danno si aggiunge la beffa, perché oltre a queste scuse trite e ritrite, il governo – bontà sua – ciancia di voler contrastare l'“uso improprio e strumentale” dei contratti atipici. Il lupo perde... la camicia nera ma non il vizio capitalista e liberista!
Si arriva così, grazie all'apporto determinante del PD liberale e liberista che sostiene Fornero, e alla resa del vertice riformista di destra della CGIL di Camusso, alla legge 92 del 28 giugno 2012. La stessa, per intenderci, che cancella l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Appena due anni dopo, il governo del Berlusconi democristiano Renzi, rimandando alle calende greche la tanto vagheggiata riforma degli ammortizzatori sociali, con il “Jobs Act”, approvato nelle sue prime battute il 12 marzo 2014, ha rimesso mano ai contratti precari per finire quanto la “riforma” Fornero aveva iniziato: liberalizzare completamente il contratto a termine e l'apprendistato (quest'ultimo, ormai, divenuto l'ennesimo contratto precario).
Principalmente la legge Fornero agisce sul contratto a tempo determinato, prevedendo un primo contratto acausale (altrimenti è necessario specificare la causa che determina la temporaneità) di 12 mesi. Di fatto così esso diventa il nuovo contratto di prima assunzione poiché è paragonato ad un “periodo di prova”, ma dalla durata nettamente superiore e soprattutto senza i limiti di età che un apprendistato imporrebbe. Aumentano gli intervalli fra la stipula di due contratti a termine consecutivi, vanificati però da una serie di eccezioni, per non parlare dell'esercito di disoccupati in cerca di lavoro. Con il “Jobs Act”, il tempo di “acausalità” dei contratti a termine viene elevato a ben tre anni, lasciando presagire un futuro a fosche tinte nel quale i lavoratori saranno costretti a passare da un impiego triennale a un altro impiego triennale; vero che i dipendenti a termine non dovranno superare il 20% della forza-lavoro totale (prima era il 10-15%), ma la totale vaghezza sull'efficacia dei controlli e i precedenti storici fanno intendere che ai padroni sarà lasciata carta bianca. Perché, come ha detto sbracatamente l'ex ministro berlusconiano del Lavoro Maurizio Sacconi al Sole 24 Ore del 13 marzo: “Il datore di lavoro non deve avere il terrore che un rapporto di lavoro sia per sempre” .
L'altro campo d'intervento principale della legge Fornero è l'apprendistato, rafforzato con l'abrogazione del contratto d'inserimento. La durata minima è elevata a sei mesi, il rapporto apprendisti/lavoratori qualificati passa da 1/1 a 3/2, e la possibilità di stipula è legata alla percentuale di assunti nel precedente triennio (ma con varie eccezioni). La parte “formativa”, già indebolita dalla “riforma” Fornero, viene definitivamente abbandonata dal “Jobs Act”, che addirittura elimina le clausole che impedivano al padrone di assumere nuovi apprendisti se non avesse confermato i precedenti. Insomma tutto per trasformare compiutamente l'apprendistato nell'ennesimo contratto precario rivolto ai giovani, per i quali l'assunzione è sempre più un miraggio.
Uno dei contratti che la Fornero si vanta di avere “liberato” dagli abusi è il contratto a progetto. Sulla base della legge, per stipulare un co.co.pro. occorre infatti indicare uno specifico progetto che non può essere “mera riproposizione dell'oggetto sociale dell'impresa committente” . Apriti cielo! Era quanto prevedeva anche la legge Biagi, ma questo non ha certo riparato il co.co.pro. dagli abusi, grazie anche alla pressoché totale assenza di controlli. Addirittura il “collaboratore” può essere vincolato per contratto a non potersi licenziare prima della realizzazione del “progetto”, per un periodo che può raggiungere otto mesi.
Altro punto saliente della controriforma Fornero sono le false partite IVA, ovvero chi è costretto ad aprire una partita IVA pur avendo di fatto un unico padrone (persino enti pubblici come la Rai ne fanno abbondante uso). La legge definisce falsa partita IVA chi mantiene la stessa “collaborazione” per più di otto mesi, riceve più dell'80% di remunerazione da uno stesso committente, ha una postazione fissa presso un committente. Ma ancora una volta intervengono le eccezioni per chi ha “elevate competenze” , è iscritto a ordini professionali o riceve più di 1.500 euro lordi al mese. Viene così favorita questa pratica criminale, una ghiottissima scappatoia per i padroni che non devono preoccuparsi dei minimi retributivi, dei contributi previdenziali, dei diritti sindacali.
Ha un bel dire Fornero che “Questa riforma non è perfetta, ma è buona soprattutto per chi deve entrare nel mercato del lavoro” . Falso! Nel febbraio 2013, si registravano appena un 5% di contratti stabilizzati e ben 22% di contratti non rinnovati e 27% di contratti peggiorati. A distanza di un anno, il precariato è aumentato e non diminuito. A riprova che questa legge e il “Jobs Act” non risolvono ma aggravano il precariato, specie perché tutti i “buoni propositi” a parole sono furbescamente raggirati nella pratica da una serie sistematica di deroghe ed eccezioni, e soprattutto dalla non volontà dei governi Monti, Letta e Renzi di risolvere veramente il fenomeno. Ma, si sa, per la Marchionne del governo Monti non bisogna essere troppo “choosy” (schizzinosi).
 
4. LO STAGE MANNAIA SUL LAVORO E I DIRITTI DEI GIOVANI
Pur non essendo propriamente un contratto precario, lo stage è lo strumento preferito dal padronato per lo sfruttamento a bassissimo costo dei giovani, specie di chi entra per la prima volta nel mondo del lavoro.
È la legge stessa che è a misura di abuso. Secondo quanto disciplinato dal decreto ministeriale 142/1998, lo stage è finalizzato in teoria all'apprendimento di una professione. Gli stagisti non hanno limite d'età o titolo di studio, non hanno diritto a malattia, ferie, contributi previdenziali, è prevista la possibilità di proroga. Soprattutto, lo stipendio è stato a discrezione del padrone fino a gennaio 2013, quando le nuove “linee guida” hanno previsto una miseria di 300 euro mensili, che alcune regioni devono ancora recepire. Comunque non si applica agli studenti, per i quali è previsto il tirocinio non remunerato.
Approfittando della scarsità di lavoro che costringe i neolaureati e i neodiplomati, nonché gli studenti stessi, a ricorrere agli stage per avere almeno una parvenza di impiego e “fare curriculum”, le imprese con questo strumento sono legittimate ad abbassare il costo del lavoro (fino a zero, prima di gennaio 2013) massimizzando lo sfruttamento. Quindi è un enorme regalo ai padroni, soprattutto alle grandi imprese e alle multinazionali, che ne hanno fatto largamente uso, magari al posto di un più oneroso apprendistato. Si registrano addirittura casi di stagisti assunti per mansioni elementari o per coprire assenze di maternità. Va poi tenuto presente che all'assenza di controlli si sono aggiunti lauti finanziamenti statali per incentivare il ricorso allo stage.
Intanto i giovani si impoveriscono, non percepiscono contributi pur lavorando a pieno titolo, non riescono a rendersi indipendenti dalla famiglia di origine e rischiano di cadere nello sconforto. Molti sono ridotti ad emigrare, ma non di rado nemmeno all'estero trovano l'eldorado fantasticato.
È difficile calcolare il numero degli stagisti in Italia per via della mancanza di dati e inchieste soddisfacenti. L'indagine Almalaurea 2013 sul profilo dei laureati indica che il 56,5% dei neolaureati ha svolto almeno uno stage, ma il Rapporto Excelsior 2012 parla di appena 10,6% assunti al termine.
Negli scorsi anni, la testata online “Repubblica degli stagisti” ha elaborato e proposto alle aziende una Carta dei diritti dello stagista . Pur condividendo molte delle rivendicazioni rivolte a fermare gli abusi, la giudichiamo insufficiente per due motivi: in primo luogo, accetta lo stage come avviamento al lavoro (compreso a tempo determinato, co.co.pro., ecc.); in secondo luogo, chiede retribuzioni troppo basse (250 euro per diplomati e studenti universitari e 500 per i laureati). E soprattutto, è un'illusione velleitaria credere che il cambiamento passi dalle “imprese socialmente responsabili” (sic!) e non dai binari della lotta di classe.
 
5. LA “SINISTRA” BORGHESE HA ABBANDONATO I PRECARI
La “sinistra” borghese, con in testa il PD (e le sue precedenti incarnazioni PDS e DS), ha l'enorme e incancellabile responsabilità storica di non avere mosso un dito per fermare il precariato. Anzi, ha ideato il “pacchetto Treu”, ha accettato (prima con qualche innocuo borbottio, poi sempre più apertamente ed entusiasticamente) la legge Biagi, ha coperto la “riforma” Fornero, insomma ha sempre e comunque avallato e difeso gli interessi della grande borghesia capitalistica, mai delle larghe masse lavoratrici. Il PD afferma di voler “unire le esigenze di flessibilità con la dignità dei lavoratori”, cioè tanto fumo per i lavoratori e molto arrosto per i padroni: queste le parole di Marianna Madìa, responsabile lavoro della segreteria Renzi e oggi ministra del suo governo, in una lettera al Foglio del 7 maggio 2010. La stessa, in un'altra occasione, si scagliò contro “gli apocalittici che vedono il precariato come il male assoluto” (3). Parole che non hanno bisogno di commenti.
Certo, per non perdere completamente la faccia, il PD non si è risparmiato nelle lacrime di coccodrillo, ma le proposte elaborate dai suoi guru liberisti e riformisti Tito Boeri, Pietro Garibaldi e Pietro Ichino (quest'ultimo è poi passato con Monti), pur presentandosi come soluzione del problema, finirebbero tutte per aggravarlo. Sia la proposta Boeri-Garibaldi che la proposta Ichino, con poche e marginali varianti, proponevano un contratto unico senza articolo 18, con scarsissime tutele soprattutto per i giovani, e demolendo i contratti collettivi nazionali.
Entrambe le proposte, mai concretizzatesi benché la stessa Fornero si fosse mostrata interessata, dovevano essere recepite dal “Jobs Act” di Renzi, presentato prima alla Merkel che ai lavoratori italiani con la benedizione del Fondo monetario internazionale.
In realtà, come abbiamo visto, alla fine Renzi non ha introdotto il “contratto unico” ma si è limitato (e non è poco) a liberalizzare il contratto a termine e l'apprendistato, tutto a vantaggio dei padroni e del grande capitale. Delle proposte Boeri-Garibaldi ma soprattutto Ichino ha invece attinto a piene mano per quanto riguarda la cancellazione di ogni restante tutelata, con la possibilità pura e semplice di essere licenziati in qualsiasi momento, non solo durante il periodo di prova iniziale di tre anni (per l'apprendistato), cancellando quel poco che resta del martoriato articolo 18.
Quindi, al posto di garantire a tutti i giovani e tutti i precari un lavoro stabile e ben remunerato, il Berlusconi democristiano Renzi punta a completare la precarizzazione totale del lavoro in Italia. Va da sé che il progetto di “Jobs Act” ha incassato l'approvazione entusiasta della Confindustria e persino del nemico giurato dei precari, il gerarca berlusconiano Renato Brunetta.
È del tutto evidente che i precari, come del resto la classe operaia e le larghe masse dei lavoratori, disoccupati, pensionati, giovani, non devono riporre alcuna illusione sui governi della “sinistra” borghese, oggi rappresentata da Renzi, perché sono al servizio del capitalismo e della borghesia tanto quanto quelli di destra.
Dal canto suo la CGIL, dopo avere accettato supinamente l'introduzione dei contratti atipici e tuttora entusiasta sostenitrice dell'apprendistato, è del tutto insufficiente nelle misure e mobilitazioni a favore delle masse precarie, delle quali infatti non riesce a conquistarsi la fiducia. Le stesse campagne lanciate o patrocinate dalla CGIL, come “Giovani non + disposti a tutto” e “Il nostro tempo è adesso, la vita non aspetta”, si sono arenate. Addirittura il vertice FIOM ha clamorosamente aperto al “Jobs Act”. C'è voluta la batosta della liberalizzazione dei contratti a termine e dell'apprendistato, dell'abolizione della cassa integrazione guadagni in deroga, delle briciole per disoccupazione e dell'esclusione dei pensionati dagli sgravi fiscali per svegliare almeno un po' Camusso che Landini, che noi marxisti-leninisti sproniamo a reagire proclamando lo sciopero generale di otto ore con manifestazione nazionale sotto Palazzo Chigi.
 
6. FORZE E LIMITI DEI MOVIMENTI DEI PRECARI
Accanto alla proliferazione dei contratti “atipici”, si sono moltiplicate anche le associazioni, i coordinamenti metropolitani e di categoria, le organizzazioni, i blog dei precari in lotta per la stabilizzazione e il lavoro, che si sono diffuse a macchia d'olio in tutta Italia per far valere collettivamente i diritti dei precari. Non ha quindi funzionato il ricatto padronale che voleva fiaccare la combattività, la capacità organizzativa e il livello di mobilitazione e protesta dei lavoratori, che anzi sono andati aumentando parallelamente all'estensione dei tentacoli del precariato.
L'assemblea nazionale dei precari della scuola tenutasi a Roma il 19 gennaio 2014 può essere considerata un salto di qualità in questo senso, sia perché ha preso di mira il governo Letta, sia perché ha posto delle basi per un'organizzazione nazionale dei precari ramificata sul territorio, lanciando peraltro il 21 marzo come “giorno della dignità precaria” e l'11 aprile come “primo sciopero precario”.
Certo, pesa la difficoltà di organizzare lotte più dure e incisive per via dell'alta ricattabilità dei precari, ma anche della temporaneità dei contratti che spesso e volentieri impedisce di creare legami più stretti tra i lavoratori e ne indebolisce la combattività. Al contempo non è nemmeno semplice per i precari conquistarsi una degna rappresentanza, anche a causa della suddetta debolezza della CGIL.
Il principale punto di forza dei movimenti dei precari sta proprio nel fatto che hanno consentito ai lavoratori di aggregarsi, di lottare insieme, ma anche di studiare la condizione precaria e come superare problemi specifici, elaborando piattaforme su cui lanciare mobilitazioni. Sicuramente questo punto di forza potrà sprigionare tutte le sue potenzialità rafforzando le forme organizzative nazionali unitarie e sviluppando la massima unità di lotta con tutti i movimenti di lotta delle masse, ma anche andando a fondo nello studio della condizione precaria per identificare nel capitalismo la sua causa genitrice.
Generalmente sul piano rivendicativo si riscontra però la tendenza a limitarsi alla stabilizzazione dei precari di un determinato settore o il rafforzamento degli “ammortizzatori sociali”, senza però chiedere l'abolizione totale del precariato.
Spesso inoltre, specie da certe organizzazioni, viene sottovalutata l'importanza delle alleanze con il resto delle masse lavoratrici in lotta. In ciò è complice la sfiducia verso la CGIL, che si potrebbe superare dando forza alla proposta del PMLI di costruire dal basso un Sindacato delle lavoratrici e dei lavoratori, delle pensionate e dei pensionati (SLLPP) fondato sulla democrazia diretta, nel quale dovranno trovare posto in prima fila proprio i precari, con diritti (a partire da quello di rappresentanza) uguali a quelli degli altri lavoratori.
Sempre più organizzazioni, a partire dalla rete “San Precario” che ne fa da sempre il proprio cavallo di battaglia, puntano molto sul reddito di cittadinanza; addirittura Andrea Fumagalli, movimentista e sostenitore di lunga data del reddito di cittadinanza, l'ha definito “unico ammortizzatore sociale” , “discrimine del conflitto precario” , “crinale su cui si può pensare un processo costituente sociale ed economico” (4). La panacea di tutti i mali! Quando in realtà il reddito di cittadinanza (ben diverso dal salario minimo) in fondo è la rinuncia alla lotta per la piena occupazione, addirittura la rinuncia alla lotta per abolire il precariato, in cambio di poche briciole. Tale proposta si porta dietro la cancellazione dei contratti collettivi nazionali, da sempre nell'obiettivo di chi ha demolito i diritti sul lavoro negli ultimi anni, e pesanti concessioni sui diritti sociali e previdenziali. Questo comunque non significa assolutamente tralasciare la lotta per rafforzare ed estendere gli “ammortizzatori sociali” e altre misure a favore dei redditi più bassi.
Occorre precisare che l'elaborazione teorica, ideologica e politica dei movimenti dei precari è prevalentemente di matrice piccolo-borghese. Se è vero come è vero che in una società divisa in classi tutto porta un'impronta di classe, questo significa che le idee maggiormente di moda fra i movimenti dei precari riflettono essenzialmente e oggettivamente le posizioni ideologiche e di classe della piccola borghesia, la quale, impoverita dalla crisi, si avvicina alle posizioni del proletariato, con l'obiettivo di "aggiustare" e "riformare" il capitalismo.
Innanzitutto non è affatto vero, come dice l'intellettuale riformista Luciano Gallino, che il precariato è “rimercificazione del lavoro” (5), alludendo che è possibile “emancipare” il lavoro come “bene comune” dalla sua condizione di merce eliminando il precariato. Finché vige il capitalismo, il lavoro sarà salariato e sfruttato, solo abbattendo il capitalismo sarà possibile emanciparlo.
Ugualmente falsa e fuorviante è la teoria dello “scontro generazionale”, più pericolosa perché più penetrata a livello di massa. Questo mostriciattolo teorico generalista e qualunquista, che ha origine negli economisti della “sinistra” borghese con una vasta eco mediatica, fingendo che i problemi delle attuali generazioni di lavoratori siano colpa di una presunta "sregolatezza" delle generazioni dei loro genitori e nonni, e facendo credere che la contraddizione principale sia fra anziani "garantiti" e giovani "non garantiti" anziché fra capitale e lavoro, spera di sostituire la lotta di classe con la “lotta generazionale”, confonde cause ed effetti e impedisce l'unità di classe e di lotta contro il vero responsabile, che è il sistema capitalista. Emergono in realtà lo sconforto e la rabbia della nuova generazione impoverita della piccola borghesia nei confronti della vecchia generazione arricchitasi prima della crisi del capitalismo, che ha ristretto sempre più la platea di ricchi e allargato la massa dei poveri. Non tiene assolutamente conto che i proletari più anziani, al pari dei giovani proletari, devono barcamenarsi con tutta una serie di problemi gravissimi che vanno dalle pensioni misere, al calo degli stipendi, alla cassa integrazione, alla disoccupazione, al problema degli esodati.
Legata a questa stramba teoria vi è l'altrettanto assurda tendenza a criticare il precariato pur senza metterlo in discussione sul piano legislativo, arrendendosi di fatto ad esso. Basta leggere l'autrice de La Repubblica degli stagisti e direttrice dell'omonima testata online, Eleonora Voltolina: “Paradossalmente quelli più attivi e 'arrabbiati' prendono a prestito la terminologia dei loro nonni, tornano a parlare di proletariato, di classi sociali, come se davvero la situazione potesse essere compresa e pure risolta con gli strumenti di analisi e di politica del secolo scorso. (...) Quel che hanno avuto le generazioni precedenti non tornerà, i contratti a tempo indeterminato, il posto fisso dalla culla alla bara, gli scatti di anzianità garantiti” (6).
Rimane sulla carta, senza alcuna presa fra le masse precarie, la teoria intellettualistica di destra che vuole dare una visione addirittura positiva e intraprendente dei precari, i quali sarebbero “manager di se stessi”.
Questo significa forse che tutta l'elaborazione teorico-politica dei movimenti dei precari è da buttare? Niente affatto. Significa però che i movimenti dei precari (compreso lo strato inferiore della piccola borghesia che anela al vero cambiamento), grazie alla loro sempre maggiore coscienza politica e allo sviluppo della lotta di classe nel nostro Paese, dovranno distinguere fra quelle idee veramente utili alla loro emancipazione, e quelle che invece, pur spacciandosi come tali, oggettivamente finiscono per mettersi di traverso, ritardando il loro orientamento anticapitalista per il socialismo.
 
7. LA VISIONE MARXISTA-LENINISTA DEL PROBLEMA DEL PRECARIATO
Il precariato si inserisce perfettamente nel modo di produzione capitalistico fondato sullo sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Marx ha spiegato che il lavoro sotto il capitalismo significa sfruttamento e oppressione perché il lavoratore è costretto a vendere la propria forza-lavoro per sopravvivere e riceve in cambio quanto è necessario al suo sostentamento, mentre il capitalista si appropria del plusvalore, che consiste, come precisa appunto Marx, “nell'eccedenza della somma complessiva di lavoro incorporata nella merce rispetto alla quantità di lavoro pagato che la merce contiene” (7). In altre parole, il capitalista non corrisponde al lavoratore un salario che ha lo stesso valore della merce prodotta (dove starebbe, altrimenti, il profitto?), bensì una parte minore, appropriandosi della parte in più che resta: il plusvalore, appunto. Principalmente in questo consiste lo sfruttamento della forza-lavoro. Marx aggiunge: “Il capitale è lavoro morto, che si ravviva, come un vampiro, soltanto succhiando lavoro vivo e più vive quanto più ne succhia. Il tempo durante il quale l'operaio lavora è il tempo durante il quale il capitalista consuma la forza-lavoro che ha comprato. Se l'operaio consuma per se stesso il proprio tempo disponibile, egli deruba il capitalista” (8).
Mai come nel precariato il plusvalore è tanto ingigantito e sfacciato. Il frutto del lavoro va tutto a vantaggio del capitalista, mentre al lavoratore non resta pressoché nulla, nemmeno il posto stesso.
Marx sottolinea inoltre che i disoccupati servono al capitalismo come “esercito di riserva” di aspiranti lavoratori disposti giocoforza a vendere la propria forza-lavoro a prezzi più convenienti per il capitale. Grazie allo spettro della disoccupazione, sono più ricattabili e costretti ad accettare condizioni di lavoro altrimenti intollerabili. Con il precariato, la borghesia ha trovato la via anche legale per poter pescare, ributtare e ripescare a proprio piacimento da questo bacino sempre più vasto.
La “flessibilità” è stato del resto il mantra dietro cui è stato giustificato il precariato, tant'è che è dagli anni '90 che l'OCSE punta il dito contro la “rigidità” del mercato del lavoro. A febbraio 2014 il FMI ha nuovamente chiesto più flessibilità nei contratti.
Scrivono Garibaldi e Boeri: “Con flessibilità si intende spesso una situazione in cui un lavoratore non rimane ancorato per tutta la vita al proprio posto di lavoro a tempo indeterminato. Flessibilità significa avere un lavoratore che, imparando mestieri nuovi, cambia capi e scrivanie, accresce le proprie conoscenze, aumenta il proprio stipendio e le opportunità di carriera” (9). Tanta è la sfacciataggine con cui il capitalismo e i suoi teorici mentono! Ma le loro scuse si sciolgono come neve al sole davanti alla tragica realtà: la disoccupazione giovanile è in costante aumento verso il 50%, la flessibilità c'è stata solo per il capitale e il padronato, mentre le masse lavoratrici devono fare i conti con la “rigida” impossibilità di opporsi ai licenziamenti e alle delocalizzazioni, pena la criminalizzazione e il manganello.
In questo quadro hanno fatto la loro comparsa teorici riformisti del calibro dell'economista britannico Guy Standing, il quale, dividendo le classi non in base al loro rapporto con il sistema di produzione ma al loro accesso al reddito e al welfare, colloca il precariato in fondo alla piramide sociale, sotto il proletariato. E ne deduce che “'Classe operaia', 'lavoratori' e 'proletariato' sono (...) oggigiorno (...) antiquate etichette” . “Si può infatti affermare” , aggiunge, “che il precariato non sia già, nel senso marxiano del termine, una classe per sé, ma piuttosto una classe in divenire (10). E, quasi scimmiottando Gallino, aggiunge: “... muoviamoci verso una situazione in cui le persone, in quanto lavoratori, siano demercificate” (11). In Italia gli fa eco testualmente Fumagalli dicendo che: “La condizione precaria non definisce ancora una 'classe in sé', ma piuttosto una 'classe in divenire', che avrà l'opportunità di intervenire sui rapporti di forza (...) solo se sarà capace di dotarsi di strumenti di lotta” (12).
Come ha spiegato Lenin: “Si chiamano classi quei grandi gruppi di persone che si distinguono tra di loro per il posto che occupano in un sistema storicamente determinato di produzione sociale, per il loro rapporto (perlopiù sanzionato e fissato da leggi) con i mezzi di produzione, per la loro funzione nell'organizzazione sociale del lavoro e, quindi, per il modo in cui ottengono e per la dimensione che ha quella parte di ricchezza sociale di cui dispongono” (13). I precari non rientrano in questa categorizzazione, perché il fenomeno della precarizzazione interessa più classi: pensiamo ai precari dell'industria, della conoscenza, del pubblico impiego, ecc. Il precariato è piuttosto, come abbiamo visto fin qui, una condizione creata appositamente dai capitalisti e dai loro governi per aumentare i guadagni e i profitti sulle spalle delle masse lavoratrici, specie giovanili e femminili, dotandosi al contempo di un'ottima arma di ricatto per soffocare contestazioni e lotte sul nascere. Si noti che questa confusione non è puramente teorica ma ha importanti risvolti pratici, perché, se non chiarita, impedisce di stabilire la collocazione di classe, le alleanze e i nemici di classe dei precari, ma anche come organizzarsi e come rapportarsi verso i sindacati e gli altri organismi di massa.
 
8. ABOLIRE IL PRECARIATO
Come hanno ben sintetizzato le Tesi del 5° Congresso nazionale del PMLI: “La sistematica deregolamentazione del 'mercato del lavoro' e la distruzione del collocamento pubblico, lungi dal favorire l'emergere del 'lavoro sommerso', dal contenere la delocalizzazione delle aziende in paesi dove si praticano bassi salari e forti agevolazioni fiscali e lungi dal produrre un aumento strutturale e complessivo del tasso occupazionale, hanno creato una massa sterminata di precari, hanno cancellato diritti sindacali fondamentali delle lavoratrici e dei lavoratori costati decenni e decenni di lotte, hanno rotto e frantumato l'unità delle masse operaie e lavoratrici, riducendo di molto il loro potere contrattuale nei confronti delle controparti e il loro peso politico nella società ”.
Tutto ciò è intollerabile per la classe operaia e le larghe masse lavoratrici e popolari del nostro Paese. La situazione deve essere cambiata radicalmente con la lotta. L'unica via è battersi per abolire il precariato. Una battaglia strategica che deve diventare l'obiettivo e l'orientamento delle lotte immediate delle masse precarie. A sua volta questa lotta sarebbe zoppa senza allearsi alla classe operaia, al resto delle masse lavoratrici, ai disoccupati, ai pensionati, agli studenti, alle organizzazioni delle masse in lotta, come quelle ambientali, per il diritto alla casa ecc., dandosi reciprocamente forza e costruendo l'opposizione di classe e di massa contro il governo Renzi al servizio del capitalismo.
È necessario perciò stabilire strategie e tattiche di lotta a breve, medio e lungo termine. Innanzitutto, opponendosi a tutti i tentativi di riformare da destra il precariato, soprattutto il “contratto unico”. Su ciascuna lotta immediata bisogna ricercare il fronte unito più vasto possibile, anche se su quelle a lungo termine attualmente non ci sono praticamente appoggi nelle forze democratico-borghesi e riformiste, compresi la CGIL e molti movimenti dei precari (con importanti eccezioni, fra cui la Rete 28 aprile), che andranno conquistati via via che si alzerà il tiro della lotta.
Il PMLI propone la seguente piattaforma.
1) Abrogazione della legislazione che ha introdotto e regolamentato i contratti precari, a partire dalle leggi 30 e Treu. A tutti deve essere garantito un lavoro stabile, a salario intero, a tempo pieno e sindacalmente tutelato. Ai giovani deve essere assicurato al termine degli studi.
2) Abolizione dell'apprendistato. Il periodo di inserimento e d'apprendimento deve svolgersi nell'ambito del contratto a tempo indeterminato, a parità di salario e tutele.
3) Abolizione dello stage e introduzione del salario per il tirocinio curriculare. Non c'è ragione per cui un tirocinante che svolge a tutti gli effetti un lavoro pratico non riceva il medesimo salario: i tirocini svolti durante gli studi devono essere regolarmente remunerati tenendo conto del carico di ore svolte.
4) Abrogazione del comma 9 dell'articolo 1 della legge 92/2012 (Fornero) che prevede la “acausalità” del primo contratto a tempo determinato, nonché delle relative disposizioni contenute nel decreto legge sul “Jobs Act”.
5) Abrogazione dell'articolo 32 del “Collegato lavoro” che limita i risarcimenti economici per i lavoratori precari.
6) Ristabilire la centralità del lavoro a tempo indeterminato anche attraverso sanzioni pecuniarie alle banche e alle grandi imprese che ricorrono a qualsiasi forma di precariato.
7) Rafforzamento ed estensione degli “ammortizzatori sociali”, adeguandoli alle condizioni di lavoro precarie.
8) Riconoscere a tutti i disoccupati un'indennità di disoccupazione pari al salario medio degli operai dell'industria che duri un periodo congruo alla ricerca di un nuovo lavoro. Gli attuali requisiti di accesso all'Aspi (aver lavorato 52 settimane, pagato i contributi e ricevuto la lettera di licenziamento) e la distribuzione dell'”assegno di disoccupazione” lanciato da Renzi (proporzionale al precedente impiego) sono iniqui e perciò da rifiutare.
9) Introduzione di una quota minima di salario, pari al salario medio degli operai dell'industria, da corrispondere per legge ai lavoratori precari (compresi co.co.pro., stagisti, voucher, ecc.).
10) Stabilizzare tutti i precari pubblici.
11) Ripristinare la figura del ricercatore a tempo indeterminato e prevedere stipendi adeguati per tutti i collaboratori universitari quali dottorandi, assegnisti, collaboratori di ricerca, ecc.
12) Moratoria sui debiti e gli affitti per chi è disoccupato, ha contratti a termine e/o percepisce redditi bassi.
Noi riteniamo che occorra battersi per strappare quante più conquiste possibili per migliorare le condizioni di vita e di lavoro sotto il capitalismo, ma a benvedere, è probabile che il precariato potrà essere abolito solo con l'abbattimento del capitalismo, in quanto è divenuto la forma prediletta dello sfruttamento del lavoro.
Urge perciò prendere coscienza che questa è la vera faccia del capitalismo in tutta la sua brutalità. È la natura stessa di questo sistema fondato sullo sfruttamento dell'uomo sull'uomo a vantaggio di un piccolo pugno di pescecani capitalisti, i quali detengono tutto il potere economico e quindi politico, a indurli alla ricerca di sempre nuovi metodi per ingrassare i propri profitti e scaricare tutti i costi e le perdite sulle larghe masse lavoratrici e popolari. Sotto il capitalismo, in una forma o nell'altra, il lavoro sarà sempre sfruttato e precario.
Solo conquistando il socialismo, ossia la società dei lavoratori, con la classe operaia al potere e dove i mezzi di produzione non sono più proprietà privata di una cerchia ristretta di capitalisti, sarà finalmente possibile emancipare il lavoro e i lavoratori.
Noi sproniamo le precarie e i precari che hanno maturato questa consapevolezza ad unirsi al PMLI come militanti o simpatizzanti, portando il proprio contributo e la loro esperienza diretta alla causa del socialismo. Siano combattenti d'avanguardia ed elementi avanzati delle masse precarie in lotta, accogliendo l'appello del PMLI “Giovani, date le ali al vostro futuro”: “Quale avvenire si può immaginare senza fare piazza pulita del sistema capitalistico che produce ciclicamente crisi come quella che stiamo vivendo, che si è dimostrato incapace di dare ai giovani lavoro e istruzione pubblica e gratuita, che ha creato il mostro del precariato, che permette ai padroni di chiudere le fabbriche e delocalizzare la produzione, che vorrebbe tagliare fuori dalla vita politica i giovani, che chiude gli occhi di fronte al problema della droga, al lavoro minorile, all'emigrazione giovanile e continua, macelleria sociale dopo macelleria sociale, a rubare il futuro a migliaia di giovani per ingrassare la grande finanza, il grande capitale, gli speculatori e i politicanti borghesi?
(...) La storia dimostra che per rovesciare il vecchio mondo dei padroni e realizzare il nuovo mondo dei lavoratori bisogna armarsi della cultura del proletariato, ossia il marxismo-leninismo-pensiero di Mao, avere un forte e radicato Partito del proletariato e fare la rivoluzione.
“Non dobbiamo permettere al capitalismo di continuare a distruggere il futuro e i diritti dei giovani. È principalmente da voi giovani, soprattutto operaie e operai, che dipende il successo della lotta per il cambiamento sociale, perché il mondo vi appartiene e il futuro è vostro. E allora prendete in mano il vostro futuro, osate ribellarvi contro il capitalismo, i suoi governi, la sua cultura, le sue proposte, le sue idee e i suoi stili di vita, gettatevi nella lotta di classe e battetevi in prima fila per l'Italia unita, rossa e socialista, per realizzare un futuro privo dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo, la disparità tra la donna e l'uomo, le disuguaglianze territoriali, la disoccupazione, il razzismo, la povertà, la guerra imperialista, e per creare le condizioni per l'abolizione delle classi. Non c'è nulla di impossibile al mondo per chi osa scalare le vette più alte” .

Un nuovo mondo ci attende, lottiamo per conquistarlo!
Lottiamo e formiamo un vasto fronte unito per abolire il precariato!
Spazziamo via il governo del Berlusconi democristiano Renzi!
Avanti con forza e fiducia verso l'Italia unita, rossa e socialista!
Con i Maestri e il PMLI vinceremo!
 
L'Ufficio politico del PMLI
14 Marzo 2014, 131° Anniversario della scomparsa di Marx.
 
NOTE
1) Cfr. “Il Bolscevico” n. 21/2013, p. 4.
2) Così si esprime l'economista borghese riformista Jeremy Rifkin, apprezzato in Italia dai milionari qualunquisti di destra Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio e già consigliere di Prodi, nel suo La fine del lavoro. Il declino della forza lavoro globale e l'avvento dell'era del post-mercato , Mondadori, Milano 2002, p. 16.
3) M. Madìa, Precari. Storie di un'Italia che lavora , Rubbettino, 2011, p. 87.
4) A. Fumagalli, Il discrimine del conflitto operaio, oggi , Uninomade 2.0, 19 aprile 2013.
5) L. Gallino, Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità , Edizioni Laterza, p. 63.
6) E. Voltolina, La Repubblica degli stagisti , Edizioni Laterza, Bari 2010, p. 147.
7) K. Marx, Il Capitale , Libro III, Editori Riuniti, Roma 1970, vol. 1, p. 71.
8) K. Marx, Il Capitale , Libro I, Editori Riuniti, Roma 1970, vol. 1, p. 253.
9) T. Boeri-P. Garibaldi, Un nuovo contratto per tutti , Chiarelettere, Milano 2008, p. 56.
10) G. Standing, Precari. La nuova classe esplosiva , Il Mulino, Bologna 2012, p. 22.
11) G. Standing, Workfare: Ed Miliband's Defining Challenge? , New Left Project, 26 gennaio 2011.
12) A. Fumagalli, E a Bologna la piattaforma per i lavoratori del Duemila , “il manifesto”, 25 settembre 2011.
13) V.I. Lenin, La grande iniziativa , in Opere , Ed. Riuniti, Roma 1967, vol. 29, pp. 384-385.