Il Senato approva una misura che era nel piano della P2
L'abolizione delle Province è un taglio alla democrazia e all'elettoralismo democratici borghesi

Il 26 marzo il Senato ha approvato con il voto di fiducia, il quarto dalla nascita del governo Renzi, il disegno di legge che abolisce le Province, e che ora passa alla Camera per l'approvazione definitiva. In realtà non si tratta ancora dell'abolizione definitiva, perché essendo le Province previste espressamente dalla Costituzione occorre una legge costituzionale per farlo, e sarà fatto con la “riforma” del Senato e del Titolo V della Costituzione che il Consiglio dei ministri ha appena varato e che Renzi si appresta a presentare in parlamento, con l'obiettivo dichiarato di farlo approvare in prima lettura prima delle elezioni del 25 maggio.
Ma intanto il ddl appena approvato che porta la firma del braccio destro di Renzi, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio, e che declassa subito le Province ad “enti territoriali di area vasta”, con ridotte competenze e non più governati da propri organi autonomi ma sostanzialmente dai sindaci, costituisce un passo decisivo verso la loro abolizione definitiva, e soprattutto consente al premier, alla vigilia delle elezioni europee, di vantarsi di aver già abolito 3 mila politici tra consiglieri, assessori e presidenti, con un risparmio per le casse pubbliche di parecchi milioni di euro, tra stipendi e spese elettorali, così da sottrarre a Grillo una delle sue armi propagandistiche preferite: “Siamo consapevoli – ha commentato infatti il Berlusconi democristiano – che alcune Province lavorano bene, ma dobbiamo dare un segnale chiaro, forte e netto, con 3 mila posti per i politici in meno. Questa è la premessa per dare speranza e fiducia ai cittadini e non è un caso che la riduzione dei costi e posti della politica sia la premessa per restituire 80 euro ai cittadini”. Sottolineando anche che questa è solo la premessa ad altre “riforme”, dalla riorganizzazione “radicale” della Pubblica amministrazione alla legge elettorale Italicum, dal tetto agli stipendi dei manager pubblici all'abolizione del Senato.
Il provvedimento Delrio ricalca sostanzialmente il progetto che fu già abbozzato dal governo Berlusconi e ripreso dai governi Monti e Letta-Berlusconi: a governare i nuovi enti territoriali in cui sono state trasformate provvisoriamente le Province saranno dal gennaio 2015 i sindaci dei Comuni che ne facevano parte, che formeranno delle assemblee che sostituiranno i Consigli e ne eleggeranno anche il presidente, senza percepire indennità aggiuntive a quella di sindaco. Intanto non si voterà più a maggio per il rinnovo dei presidenti e dei Consigli provinciali, almeno nelle 52 Provincie che non erano ancora state commissariate tra il 2012 e il 2013. Le relative competenze passano a Regioni e Comuni, ad eccezione di quelle per l'edilizia scolastica, la pianificazione dei trasporti e l'ambiente.
Sempre dal 1° gennaio 2015 vengono istituite 10 Città metropolitane, geograficamente coincidenti con altrettante province capoluogo di regione: Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma capitale, Napoli, Bari e Reggio Calabria. Altre 5 sono istituite nelle regioni a statuto speciale: Palermo, Messina, Catania, Cagliari e Trieste, con la possibilità di crearne anche altre. Tali organismi saranno governati da un sindaco metropolitano e da due assemblee, il Consiglio metropolitano e la Conferenza metropolitana, entrambe presiedute dallo stesso sindaco.
E' previsto anche l'accorpamento e la fusione tra piccoli Comuni “per ottimizzare e semplificare i servizi”, con funzioni svolte, si sottolinea, a titolo gratuito. Ma questa novità prevede che nei comuni sotto 3 mila abitanti il sindaco possa governare per tre mandati anziché due, e prevede anche l'aumento del numero dei consiglieri e degli assessori in proporzione alla popolazione: ben 26 mila per i primi e 5 mila per i secondi.

Una “riforma” già avanzata dalla P2
Questa per sommi capi la “riforma” di Renzi e Delrio, che a ben vedere viene da lontano, ancor più lontano che dagli stessi Letta, Monti e Berlusconi, direttamente cioè dal “Piano di rinascita democratica” di Gelli, che l'aveva inserita tra quelle da realizzare a medio e lungo termine in campo istituzionale, laddove si chiedeva la “riforma della legge comunale e provinciale per sopprimere le Province e ridefinire i i compiti dei Comuni dettando nuove norme sui controlli finanziari”.
Costituendo infatti un ulteriore taglio alla democrazia e all'elettoralismo borghesi, essa è perfettamente funzionale al disegno piduista di seconda repubblica neofascista, presidenzialista e federalista che attende solo di essere completata col programma di “riforme istituzionali e costituzionali” concordato tra Renzi e Berlusconi, basato sulla legge elettorale Italicum “fascistissimum”, peggiore del porcellum e della legge fascista Acerbo, l'abolizione del Senato e del bicameralismo perfetto e la modifica del Titolo V; accordo che non a caso si è ultimamente arricchito di un capitolo in più su cui i due banditi si sono trovati di nuovo in “profonda sintonia”: quel premierato forte che conferisce al presidente del Consiglio poteri di tipo mussoliniano, come il diritto di nominare e revocare i ministri e di avere “corsie preferenziali” e tempi obbligatori per i provvedimenti del governo in parlamento.
L'abolizione delle Province taglia la democrazia e l'elettoralismo borghesi, perché azzerando i rappresentanti di un intero livello amministrativo riduce oggettivamente il diritto di rappresentanza per gli elettori, aumentando invece i poteri dei presidenti di Regione e a dismisura quelli già fortemente autoreferenziali dei neopodestà: in special modo quelli delle grandi città e, in misura ancor maggiore, quelli dei sindaci metropolitani. E non è neanche vero che ridurrebbe i “costi della politica”. Intanto i funzionari provinciali non sono 3 mila, come afferma Renzi, ma poco più della metà, per l'esattezza 1.774. I risparmi teorici sarebbero 111 milioni di stipendi e 318 milioni di spese elettorali ogni cinque anni, circa 60 milioni l'anno. Il risparmio totale sarebbe quindi di circa 170 milioni, non contando però i costi delle città metropolitane. Poi c'è da considerare l'aumento di 26 mila consiglieri e 5 mila assessori comunali, che secondo il governo dovrebbe essere a costo zero, ma chi può credere a una simile balla? Non la Corte dei conti, sembra, visto che su questo e su altri punti del ddl Delrio ha già suonato più di un campanello d'allarme.

Arroganza e presidenzialismo di Renzi
Anche il modo in cui questo provvedimento è stato approvato denuncia i metodi arroganti e il disegno presidenzialista di Renzi. Alla vigilia dell'approvazione il governo era già andato sotto un paio di volte in commissione Affari costituzionali, e una volta anche in aula, su un emendamento che riaffidava alle Province la competenza sull'edilizia scolastica, che il testo originale aveva invece cassato. Ma il vero campanello d'allarme era suonato quando su una pregiudiziale di incostituzionalità sollevata dal M5S il governo se l'era cavata per solo 4 voti di scarto: 115 no contro 112 sì. In particolare erano mancati i voti di alcuni assenti nel Nuovo centro destra di Alfano e quello dell'ex ministro alla Difesa, il trombato Mario Mauro. Tanto che a gettare la ciambella di salvataggio al governo era dovuto intervenire d'ufficio il partito del neoduce (formalmente all'opposizione, e quindi contrario al provvedimento), con una decina di assenze tattiche tra le file dei senatori di Forza Italia.
Ma Renzi non ha affatto abbassato la cresta per lo smacco parlamentare, e per tutta risposta ha convocato il Consiglio dei ministri per farsi approvare formalmente l'apposizione del voto di fiducia sul provvedimento, cosa che poi è avvenuta in aula facendolo passare a forza, sia pure con solo 160 sì, 9 meno di quelli avuti per il voto di fiducia al suo governo. Poi ha riunito il gruppo parlamentare PD, e lo ha strigliato severamente, rispondendo con arroganza a chi mugugnava per la vittoria risicata in parlamento e per la tenuta futura della maggioranza: “Centosessanta voti sono pochi? No, sono quelli che bastano”. Dopodiché ha chiesto e ottenuto obbedienza a scatola chiusa anche sulla “riforma” del Senato e del Titolo V che la Boschi e Delrio stavano ancora finendo di scrivere, ribadendo che lui andrà “fino in fondo”, che è “disposto a rischiare, e se non si supera il Senato smetto di fare politica”, e che il PD “deve essere il primo partito in Italia, il secondo nel PSE”. E a chi gli ricordava l'inaffidabilità di Berlusconi e il fallimento della Bicamerale di D'Alema ha risposto con la consueta sfrontatezza: “Berlusconi non mi farà fare la fine di D'Alema. Perché lui non è più quello di una volta, e perché io non sono D'Alema”.
Dunque il Berlusconi democristiano procede come uno schiacciasassi, asfaltando l'opposizione interna del suo partito ormai completamente spiazzata dal ritmo forsennato che impone all'agenda politica e parlamentare, tanto che mentre i suoi avversari stanno ancora cercando di organizzare una qualche risposta a una sua iniziativa, lui è già oltre e ne presenta continuamente di nuove. Cosicché cuperliani, bersaniani, “giovani turchi” come Fassina, lettiani ecc., ormai non riescono ad emettere più che dei flebili balbettii di malcontento, finendo sempre però per allinearsi regolarmente ai diktat renziani: come è avvenuto appunto in parlamento per il voto di fiducia sull'abolizione delle province, e due giorni dopo anche nella Direzione PD, sull'accelerazione da lui impressa alla “riforma” del Senato e sul Jobs Act. Direzione conclusasi ancora una volta con la sua vittoria a stragrande maggioranza e i soli 12 voti contrari del solito gruppo di Civati.
 

2 aprile 2014