Il presidente ucraino Poroshenko rilancia l'offensiva militare
Salta la precaria tregua nelle regioni russofone orientali
L'imperialismo russo vede sfuggire di mano il controllo dell'Ucraina inglobata dalla concorrente Ue imperialista con la firma del trattato di associazione

 
L'Ucraina non prorogherà il cessate il fuoco con i separatisti dell'est del paese, annunciava il 30 giugno il presidente Petro Poroshenko e il giorno successivo l'esercito di Kiev riprendeva in pieno gli attacchi aerei e con l'artiglieria contro le postazioni dei filorussi nelle regioni di Donetsk e Lugansk.
Il ministero degli Esteri di Mosca minacciava le autorità ucraine chiamate a rispondere dei “crimini” commessi contro la popolazione civile nella regione orientale del paese. Ma era il presidente russo Vladimir Putin a attaccare il collega ucraino che “si è assunto la responsabilità non solo militare, ma anche politica di aver scatenato azioni di guerra”.
"Il nostro piano di pace, come la strategia per l'Ucraina e il Donbass, resta in vigore – rispondeva Poroshenko - e noi siamo ugualmente pronti a tornare al regime di cessate il fuoco in qualunque momento. Quando noi vedremo che tutte le parti si attengono ad applicare i punti essenziali di questo piano di pace (...). Che i combattenti liberino gli ostaggi. Che, dall'altra parte della frontiera (quella russa, ndr), si accenda un semaforo rosso per i sabotatori e i fornitori di armi. E che il rispetto delle regole alla frontiera sia sorvegliato dall'Osce".
Il piano di pace era stato presentato da Poroshenko il 20 giugno, dopo un colloquio telefonico con Putin che aveva chiesto la “fine immediata delle operazioni militari” nelle regioni orientali, altrimenti la proposta di tregua assomigliava a un ultimatum non contenendo nemmeno un elemento che Mosca ritiene importante, la partecipazione dei rappresentanti della popolazione russofona ai negoziati.
Qualcosa sembrava muoversi verso quantomeno il raffreddamento della crisi ucraina il 22 giugno quando contatti tra Putin, il presidente francese Francois Hollande e la cancelliera tedesca Angela Merkel portavano alla decisione del Cremlino di proporre al Consiglio della federazione (la camera alta del parlamento russo, ndr) di revocare la concessione per l'uso delle forze armate di Mosca in territorio ucraino al fine di proteggere la popolazione russofona delle regioni orientali del paese, approvata a larghissima maggioranza il primo marzo scorso.
Decisione seguita in ordine di tempo il 23 giugno dall'accettazione del cessate il fuoco da parte delle formazioni separatiste e il 25 giugno dalla revoca del parlamento russo al permesso di intervenire militarmente oltreconfine.
Il 27 giugno il presidente ucraino Poroshenko prorogava la tregua di altri tre giorni, fino al 30 giugno. Ma contemporaneamente andava a Bruxelles a firmare l'accordo di associazione con l'Unione europea, assieme a Georgia e Moldavia.
“È un giorno storico per il mio Paese. Il più importante dall'indipendenza”, affermava il presidente ucraino Poroshenko sottolineando che “anche la Crimea oggi è parte di questo accordo”. La Crimea tornata sotto il controllo di Mosca. Da Mosca la replica era affidata al vice ministro degli Esteri Grigori Karasin: “l'accordo di associazione e libero scambio con l'Ue firmato il 27 giugno a Bruxelles da Ucraina e Moldova avrà gravi conseguenze”.
La sera dello stesso giorno i miliziani separatisti attaccavano e occupavano una base militare della guardia nazionale ucraina a Donetsk, dopo sette ore di combattimento, e un posto di blocco dell'esercito di Kiev vicino a Kramatorsk.
Evidente che un nuovo giro di colloqui telefonici tra Putin, Hollande e Merkel su un prolungamento della tregua, di fatto mai applicata effettivamente, cadeva nel vuoto. La firma dell'associazione dell'Ucraina alla Ue sanciva un passaggio importante della strategia dell'imperialismo europeo di sottrarre il controllo del paese al concorrente imperialismo russo, passaggio avviato dalla fine dello scorso anno con la sponsorizzazione del movimento che ha portato alla caduta del governo filorusso di Kiev e la sua sostituzione con uno filo-occidentale e fascista.
L'1 luglio Putin, dopo il mancato prolungamento del cessate il fuoco e l'annuncio della ripresa delle operazioni militari di Kiev nella parte orientale del paese, alzava il tiro accusando “l'Occidente di utilizzare la crisi ucraina per destabilizzare la regione. Mosca continuerà a proteggere le etnie russe all'estero con mezzi politici, economici e umanitari. (…) Dobbiamo renderci chiaramente conto che questi eventi che si sono verificati in Ucraina sono diventati un'espressione concentrata della famigerata politica di contenimento della Russia". SI lamentava che “i partner europei non sono riusciti a convincere Poroshenko a non intraprendere il cammino della violenza", sottintendendo che il presidente ucraino aveva ascoltato altre voci da oltre Atlantico, dagli Usa; vero, ma non del tutto. E paragonava l'Ucraina a Iraq, Libia e Siria, giunte sull'orlo della "disintegrazione", della "perdita di sovranità" e della "catastrofe nazionale" a causa di un "massiccio intervento dall'esterno". Con altrettanto implicito riferimento agli Usa. Col popolo ucraino che si trova schiacciato tra l'incudine e il martello dei due fronti imperialisti.

2 luglio 2014