Presentando il suo piano fascista, piduista, antisindacale e antiprecari
Discorso mussoliniano di Renzi in parlamento
Come Berlusconi e Craxi attacca i magistrati, sindacati, giornali e la “sinistra più dura”. Il rinnegato Napolitano gli ha dato il pieno appoggio
Fermare il nuovo Berlusconi con lo sciopero generale e la lotta di piazza

Assediato dai dati negativi sull'economia e l'occupazione e dalle inchieste giudiziarie e giornalistiche sui suoi candidati alle primarie in Emilia-Romagna, sulle tangenti Eni e perfino sui maneggi della sua famiglia, attaccato dai magistrati sulla controriforma piduista della giustizia, criticato dai sindacati e dalla minoranza interna del suo stesso partito per le sue minacce di tagliare l'articolo 18 per decreto, Matteo Renzi non se ne dà per inteso, e alla maniera dei suoi maestri Craxi e Berlusconi tira dritto sfidando tutto e tutti con raddoppiata arroganza. Come ha fatto in parlamento con il discorso mussoliniano con cui ha presentato il suo piano fascista, piduista, antisindacale e antiprecari per i prossimi mille giorni del suo governo, al termine dei quali promette che “l'Italia non sarà più quella di oggi”.
È questo il senso politico del suo intervento del 16 settembre alla Camera, poi ripetuto al Senato, e consistente praticamente in un monologo di 45 minuti senza votazione finale, ma seguito solo da brevi dichiarazioni dei capigruppo dei partiti. Un monologo diretto come suo solito più al Paese, tramite la diretta tv, che al parlamento stesso, al quale si è rivolto solo per ricattarlo, minacciarlo e richiamarlo al suo dovere di non ostacolare ma approvare senza troppe storie il suo “programma di riforme”.
Perché i “mille giorni”, ha ammonito Renzi a questo proposito, sono “l'ultima chance per pareggiare i conti e, se perdiamo, non perde il governo, perde l'Italia”. E se per caso Camera e Senato intendessero avvalersi del loro diritto di negare la fiducia al governo, sappiano anche “con grande determinazione e convinzione, che da questa parte del tavolo non abbiamo paura di confrontarci con gli italiani”, ha aggiunto minacciosamente, lasciando intendere di essere pronto ad andare anche alle elezioni anticipate: minaccia rivolta soprattutto ai “gufi” e “frenatori” del suo partito e di sicuro effetto, dato che sarebbe lui a decidere chi inserire o escludere nelle liste elettorali bloccate.
Ma subito dopo il bastone ha mostrato anche la carota, assicurando di voler “fare la legge elettorale subito non per andare alle elezioni, altrimenti smentiremmo il ragionamento dei mille giorni”, ma per “mettere in capo a chi vince le elezioni la certezza della vittoria”, dando al vincitore “un premio di maggioranza proporzionato che lo metta nelle condizioni di poter affrontare il percorso della legislatura”. Perché la legge elettorale di stampo fascista Italicum “è un tema che non può essere da rimandare ai mille giorni, deve essere una priorità” del parlamento. Tradotto: se non la votate al più presto rischiate di perdere la poltrona e lo stipendio subito, se la votate li perderete lo stesso, ma forse riuscirete ad arrivare alla fine della legislatura.

Fuoco su magistrati e giornali non compiacenti
Poi Renzi ha snocciolato una dietro l'altra le altre “riforme” urgenti - oltre alla legge elettorale e quelle istituzionali già in piena corsa - che il parlamento deve assolutamente approvare nei prossimi mille giorni, e che “vanno fatte tutte insieme o non si porta a casa il percorso di cambiamento dell'Italia”. Di alcune si è limitato a più o meno brevi accenni, come sulla “riforma” del fisco, quella della pubblica amministrazione, quella della scuola e quella della Rai. Ma è soprattutto sui temi della giustizia e del lavoro che ha concentrato i suoi attacchi più virulenti.
A cominciare da quelli in difesa della sua controriforma piduista della giustizia col marchio di Alfano e Berlusconi, che hanno suscitato infatti applausi a scena aperta anche dai banchi di Forza Italia. In particolare quando ha ripetuto il suo velenoso attacco ai magistrati con l'argomento demagogico delle ferie troppo lunghe e quindi da tagliare con un atto d'imperio; e quando, con un'evidente sottolineatura della “svolta garantista” del PD renziano, ha proclamato che “questo processo di riforma della giustizia, per noi, deve cancellare il violento scontro ideologico del passato”.
Ma dove ha sferrato un attacco più grave e diretto alla magistratura, e anche ai giornali, per le inchieste sui recenti casi di corruzione politica ed economica, è stato nel passo successivo in cui, tra gli applausi vergognosi del PD (a cui si sono uniti incredibilmente anche i deputati di SEL, ai quali brucia ancora evidentemente l'avviso di garanzia per Vendola su Taranto), ha esclamato: “Rivendico a questo governo di essere il primo governo che è venuto in un'aula del parlamento a dire, a viso aperto, che noi non accettiamo che uno strumento a difesa di un indagato, l'avviso di garanzia, costituisca un vulnus all'esperienza politica o imprenditoriale di una persona”. Un evidente riferimento alle indagini per peculato sui renziani Richetti e Bonaccini e a quella per le tangenti petrolifere in Nigeria a carico dell'amministratore delegato Claudio Descalzi, da lui stesso nominato al vertice dell'Eni.
Come Craxi nel 1981, quando in pieno scandalo P2 tuonò in parlamento contro l'arresto di Calvi per lo scandalo del Banco Ambrosiano, accusando i magistrati di aver provocato un crollo della Borsa di Milano con “azioni giudiziarie che presentano aspetti scriteriati”, anche Renzi si è scagliato contro i magistrati per un'indagine che colpisce “un'azienda che è la prima azienda italiana e la ventiduesima azienda al mondo” (l'Eni), e che mette “in difficoltà o in crisi decine di migliaia di posti di lavoro”. Noi “non consentiamo che avvisi di garanzia più o meno citofonati sui giornali consentano di cambiare la politica aziendale in questo Paese”, ha tuonato infatti il Berlusconi democristiano, prendendosela chiaramente anche con i giornali colpevoli di aver dato risalto all'inchiesta sulle tangenti Eni, e in particolare con Il Fatto Quotidiano, che da qualche tempo lo marca stretto. Forse perché quest'ultimo è stato anche quello che ha riportato per primo, pochi giorni dopo, la notizia dell'avviso di garanzia per bancarotta fraudolenta al padre di Renzi da parte della procura di Genova? É molto probabile, dal momento che poi è risultato che Renzi sapeva già dell'avviso al momento di tenere il discorso in parlamento. E questo spiegherebbe anche meglio l'allusione agli “avvisi citofonati sui giornali” da parte dei magistrati.
Accuse velenosissime, le sue, respinte però con sdegno al mittente da Rodolfo Sabelli, presidente dell'Associazione nazionale magistrati (Anm), che ha dichiarato: “Respingiamo fermamente l'idea che la magistratura intenda interferire nella politica economica di un'azienda. Così come l'idea di una sua responsabilità nell'eventuale strumentalizzazione di atti che sono imposti dalla legge”.
“Se l'avessi detto io sarebbe venuta giù l'aula”, ha commentato sornione Berlusconi a proposito degli attacchi di Renzi alle inchieste che a suo dire danneggerebbero le nostre aziende. E i suoi avvocati Ghedini e Longo hanno rincarato soddisfatti: “Oggi si chiude il ventennio dell'uso politico della giustizia”.

Via l'articolo 18 e lo Statuto dei lavoratori
Non meno arrogante e mussoliniano di quello riservato a magistrati e giornali è stato il suo attacco ai sindacati “conservatori” (leggi Cgil) e a quella che ha definito la “sinistra più dura” (leggi la minoranza interna PD) sul tema del lavoro. Tema reso particolarmente incandescente dalle sue minacce di cancellare per decreto l'articolo 18. A cui ha fatto seguito un emendamento del PD che abolisce il diritto di reintegro del lavoratore licenziato senza giusta causa, sostituendolo con un indennizzo monetario. Emendamento approvato con l'astensione compiacente di Forza Italia, e inserito nella legge delega sul “Jobs Act” renziano che istituzionalizza ed estende il precariato nella forma del “contratto a tutele crescenti”.
“Al termine dei mille giorni il diritto del lavoro non potrà essere quello di oggi”, ha sentenziato non a caso il nuovo Berlusconi, confermando con ciò non solo la volontà di cancellare una volta per tutte l'articolo 18, ma addirittura l'intero Statuto dei lavoratori, sostenendo ipocritamente che questi ultimi baluardi dei diritti dei lavoratori sarebbero essi stessi la causa della disoccupazione, e che una volta rimossi l'occupazione tornerà a crescere come per magia.
E questa rimozione sarà fatta con le buone o con le cattive, vale a dire con la legge delega in parlamento oppure con un decreto ad hoc, come fece Craxi col famigerato decreto di San Valentino che abolì la scala mobile: “Bene, – ha ammonito infatti il nuovo Berlusconi – se noi saremo nelle condizioni di avere dei tempi certi e serrati, noi rispetteremo il lavoro del parlamento e ci attrezzeremo per la delega, altrimenti siamo pronti anche ad intervenire con misure di urgenza, perché sul tema del lavoro non possiamo perdere un secondo di più”.

Appoggio totale di Berlusconi e Napolitano
Anche su questo fronte della “riforma del lavoro” Renzi ha il pieno appoggio di Berlusconi, che vede realizzarsi col leader del PD quello che a lui non riuscì nel 2003. Glielo ha confermato nel nuovo incontro che i due sodali del Nazareno hanno avuto il giorno dopo l'intervento in parlamento, quando il delinquente di Arcore, dopo aver lodato i suoi passaggi sulla giustizia, “soprattutto quelli improntati al garantismo”, ha offerto i suoi voti per far passare la delega sul lavoro nel caso la minoranza del PD si rifiutasse di votarla; e il premier non li ha certo rifiutati, limitandosi anzi a rispondere ambiguamente “non credo servirà”.
Anche Napolitano è intervenuto con tutta la sua supponenza per difendere il “Jobs Act” di Renzi e il suo attacco all'articolo 18 e agli altri diritti dei lavoratori, bacchettando la Cgil, la “sinistra” PD e quanti si attaccano ancora a “conservatorismi e corporativismi”, opponendosi alle “politiche nuove e coraggiose per la crescita e l'occupazione, soprattutto per i giovani”. Un appoggio che ha galvanizzato il Berlusconi democristiano, che da San Francisco ha rincarato la dose proclamando che in Italia “ci sono alcune cose da cambiare in modo quasi violento”.
Che cosa ci vuole ancora perché i vertici sindacali, o quantomeno la Cgil, si decidano a proclamare uno sciopero generale di 8 ore sotto Palazzo Chigi per buttare giù il governo del nuovo Berlusconi? Uno sciopero che avvii un autunno rovente contro la borghesia, il padronato e il loro governo Renzi per fermare la macelleria sociale in corso e il completamento della fase finale della piena realizzazione del piano fascista della P2.
 

24 settembre 2014