De Magistris condannato: “gravissimo errore giudiziario”
Non deve dimettersi. Dovrebbe farlo per non aver fatto nulla per Napoli, non per una sentenza che lo punisce per aver pestato i piedi a Prodi e Mastella nell'inchiesta “Why Not”

 
Mercoledì 24 settembre il Tribunale monocratico di Roma, presieduto dal giudice Rosanna Ianniello, ha condannato Luigi De Magistris e l’ex poliziotto Giovanni Genchi ad un anno e tre mesi di reclusione ciascuno per il reato di abuso d’ufficio relativamente all’inchiesta “Why Not” condotta dall’ex pubblico ministero (pm) quando ricopriva il ruolo togato a Catanzaro nel 2007. La lettura del dispositivo contiene anche l’ulteriore sanzione accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per un anno e il pagamento di una multa di 20mila euro a testa per le “persone offese” del processo, ossia gli allora parlamentari Romano Prodi, Sandro Gozi, Marco Minniti, Clemente Mastella, Giancarlo Pittelli, Francesco Rutelli e Antonio Gentile, per un totale di ben 140mila euro. La condanna, inoltre, interveniva dopo la richiesta di assoluzione da parte del titolare delle indagini, il pubblico ministero Roberto Felice, dell’attuale sindaco di Napoli, chiedendo la sola reclusione per Genchi di un anno e sei mesi. Duro il primo, immediato commento di De Magistris che la definisce un “inaccettabile e gravissimo errore giudiziario”: “Ho subito la peggiore delle ingiustizie, sono profondamente addolorato per aver ricevuto una condanna per fatti insussistenti, ma rifarei tutto”. Ma cosa è l’inchiesta “Why Not” e in che consiste questa condanna?
 
L'inchiesta “Why Not” del 2007
La cosiddetta inchiesta giudiziaria denominata, "Why Not", fu avviata dall'ex pm Luigi De Magistris il 23 giugno 2007 per fare luce sull'inquietante intreccio politico-mafioso-massonico-imprenditoriale che da almeno 4 anni (2004/2007) si spartiva la montagna di finanziamenti pubblici stanziati dallo Stato e dalla Comunità europea per favorire lo sviluppo della Calabria. Da circa tre anni, infatti, l’allora pubblico ministero di Catanzaro lavorava a tre importanti filoni d'inchiesta denominate "Poseidone", in cui fra gli altri risultava indagato il segretario dell'UDC Lorenzo Cesa, "Why Not" e "toghe lucane". Le inchieste portavano a buon fine e, uno dopo l'altro, decine di esponenti politici locali e nazionali, appartenenti a quasi tutte le cosche parlamentari della destra e della “sinistra” del regime neofascista, finivano nel registro degli indagati, visti gli stretti rapporti d'affari intessuti con alcuni esponenti della massoneria, alti magistrati, uomini dei servizi segreti e delle "forze dell'ordine" e vari boss e imprenditori legati alla 'ndrangheta tutti indagati e/o finiti in galera.
Il 18 giugno 2007, nell'ambito dell'inchiesta “Why Not” (dal nome di un agenzia di lavoro interinale fondata dall'ex presidente della Compagnia delle opere della Calabria, Antonio Saladino, principale indagato in tutte le inchieste), De Magistris ordinò 26 perquisizioni, firmando una raffica di avvisi di garanzia fra cui uno, con l'accusa di abuso d'ufficio, indirizzato anche allora premier Romano Prodi. Inoltre tra i faldoni dell'inchiesta comincia a fare capolino anche il nome dell’ex Guardasigilli, il democristiano Clemente Mastella, in riferimento ad alcune intercettazioni telefoniche con Saladino, con cui Mastella intrattiene stretti rapporti. Colpito nel segno, il boss di Ceppaloni corse subito ai ripari ordinando un'ispezione ministeriale contro De Magistris col chiaro intento di sabotare le indagini prima che il bubbone scoppiasse in tutto il suo fragore. Il 21 settembre 2007, sulla base delle risultanze dell'ispezione ministeriale che avrebbero "rilevato gravi anomalie" nella gestione delle inchieste da parte di De Magistris, accusato fra l'altro di non aver informato degli sviluppi investigativi il suo procuratore capo Mariano Lombardi, Mastella avviò un'azione disciplinare chiedendo il trasferimento d'ufficio del pm. Per niente intimorito dalla pesante spada di Damocle che pendeva sul suo collo, De Magistris continuò a lavorare alacremente sugli sviluppi dell'inchiesta e il 14 ottobre scriveva ufficialmente anche il nome di Mastella nel registro degli indagati con l'accusa di abuso di ufficio e violazione della legge Anselmi sulle associazioni segrete.
Il 20 ottobre De Magistris veniva duramente colpito da quello che noi marxisti-leninisti definimmo una “lupara politico-giudiziaria” proprio nel momento in cui si apprestava a chiudere il cerchio delle indagini su Prodi e Mastella i cui nomi figurano già da tempo nel registro degli indagati dell'inchiesta “Why Not”. Infatti il procuratore generale facente funzioni di Catanzaro, Dolcino Favi, con un decreto di avocazione che richiamava alla memoria i tribunali fascisti di Mussolini, scippava l'inchiesta dalle mani di De Magistris per ragioni di incompatibilità e all'insaputa dello stesso pm nel giro di appena 48 ore trasferisce tutti i faldoni dell'inchiesta "Why Not" al tribunale dei ministri a Roma.
 
L'inchiesta punitiva della procura romana
De Magistris condannò quel decreto di avocazione affermando di indagare “su un sistema di potere, mi hanno spogliato di tutte le inchieste: il segnale che hanno lanciato è molto chiaro: la magistratura non può più indagare in alcune direzioni. Questo è evidente. Poi è anche la conferma di come una parte del potere giudiziario sta dentro il sistema. Una parte della magistratura è funzionale a certi sistemi oggetto di investigazioni, è fondamentale capire questo. Ecco perché si pone in discussione l'agibilità democratica all'interno della magistratura. Da un lato c'è un ritorno alla magistratura degli Anni Trenta, con segni sintomatici di quel periodo del prefascismo e del fascismo. E cioè la possibilità del ministro di trasferire in via cautelare dei magistrati. Si ritorna al periodo in cui il potentino del paese, il signorotto che chiede l'allontanamento del pretore che magari dava fastidio e poi arrivavano gli ispettori e in una settimana quel pretore lo cacciavano via. Si torna alla magistratura ipergerarchizzata, l'avocazione senza alcuna giustificazione, la magistratura in una posizione di avvilimento totale”. Successivamente scattavano le indagini per abuso di ufficio da parte della Procura di Roma su De Magistris e Genchi per aver acquisito, tra il 2006 e il 2007, i tabulati delle utenze dei parlamentari poi costituitisi parti civili al processo davanti al Tribunale monocratico. Dubbi sull’inchiesta e sulla sua apertura fu sollevata per la sua assegnazione al pm Achille Toro, già in rapporti con personaggi coinvolti nell'inchiesta “Why Not”, poi costretto a lasciare la magistratura per lo scandalo che esplose subito dopo. La Procura capitolina, nonostante ciò, continuava l’inchiesta affermando che De Magistris aveva dato carta bianca a Genchi, il cui incarico era finalizzato a portare alla luce il giro di relazioni desumibili dalla rubrica telefonica riconducibile all’imprenditore Antonio Saladino, al centro dell’inchiesta: secondo il pm Felice, De Magistris “si è di fatto consegnato allo stesso Genchi” al punto che il consulente è andato oltre il suo ruolo e si è trasformato in investigatore, disponendo i decreti di acquisizione di atti che l’ex magistrato “firmava con non troppa attenzione”. Per questo motivo lo stesso pubblico ministero chiedeva l’assoluzione per l’attuale sindaco di Napoli, richiesta inascoltata in sentenza dal Tribunale di Roma con la condanna, anche se “addolcita” dalla sospensione condizionale della pena e la non menzione al casellario giudiziale per Genchi e De Magistris.
 
“Un sistema criminale”
Nel 2007, su mandato del pm De Magistris, Genchi acquisì dalle compagnie telefoniche i dati su centinaia di tabulati, incappando – ma questo lo si scoprì solo alla fine – anche in quelli di cellulari in uso a 8 parlamentari (Prodi, Mastella, Rutelli, Pisanu, Gozi, Minniti, Gentile, Pittelli). Di qui l’accusa di averli acquisiti senz’avere prima chiesto al Parlamento il permesso di usarli, violando la legge Boato e l’immunità dei suddetti. Fin da subito Pisanu, persona offesa nel procedimento penale, dichiarò ai pm capitolini che il tabulato non lo riguardava perchè il telefono intercettato era della moglie e dunque l'inchiesta andava chiusa anzitempo per questa posizione. Dubbi furono riportati da più parti in ordine all'incompetenza territoriale della Procura romana, con competenza che andava spostata alla Procura di Salerno ai sensi del codice di procedura penale. Ancora più forti erano i dubbi riguardanti la tenuta del reato di abuso di ufficio, atteso che manca l’ingiusto vantaggio patrimoniale, ma anche quel “danno ingiusto consistente nella conoscibilità di dati esterni di traffico relativi alle loro comunicazioni” contestato il 21 gennaio 2013 con cui il giudice dell’udienza preliminare rinviava a giudizio Genchi e De Magistris. “In Italia – commenta il sindaco di Napoli – non esistono condanne per abuso di ufficio non patrimoniale: sono stato condannato per avere acquisito tabulati di alcuni parlamentari, pur non essendoci alcuna prova che potessi sapere che si trattasse di utenze a loro riconducibili. Prima mi hanno strappato la toga con un processo disciplinare assurdo e clamoroso perché ho fatto esclusivamente il mio dovere ed ora mi condannano, a distanza di anni, - continua De Magistris - per aver svolto indagini doverose su fatti gravissimi riconducibili anche ad esponenti politici”. Più netto e forte il discorso tenuto al consiglio comunale pochi giorni dopo, venerdì 26 settembre, con cui De Magistris respinge tutte le accuse: “non li chiamerò più da oggi in poi poteri forti, ma poteri criminali, sistema criminale. Non ci faremo piegare da questa melassa putrida che mette insieme pezzi di Stato che non hanno il coraggio di dirti in faccia che ti vogliono abbattere ma cercano sempre dietro le quinte di fregarti con procedimenti giudiziari”.
 
Il coro delle dimissioni
Una volta giunta la condanna a De Magistris si è scatenata una vera e propria canea contro il sindaco di Napoli cominciata dagli esponenti della destra del regime neofascista come Stefano Caldoro, Daniela Santanchè e il coordinatore regionale di Forza fascisti Domenico De Siano che hanno chiesto le immediate dimissioni dell’ex pm, passando per il segretario della Lega fascista e razzista, Matteo Salvini. Sulla stessa linea anche i neoliberali del PD che tramite la parlamentare Valeria Valente affermavano che non può esistere una “giustizia sostanziale e personale da porre al di sopra della giustizia e della legalità formale”, quasi paragonando De Magistris a Berlusconi. Paragone che non è mancato a Luigi Di Maio, vicepresidente della Camera in quota M5S, che, dopo aver invitato De Magistris alle dimissioni immediate, affermava: “adesso accusa addirittura i giudici: è il nuovo Berlusconi”. A ciò si aggiunge la posizione vigliacca de “Il Manifesto” che, dopo aver sostenuto De Magistris in tutte le tappe del suo mandato, lo scaricava tramite la penna livorosa di Andrea Fabozzi che il 26 settembre parlava apertamente di dimissioni (“il sindaco farebbe bene a dimettersi”). Non mancavano anche gli interventi di ex pm come Raffaele Cantone e Antonio Ingroia che non solidarizzavano con De Magistris invitandolo a lasciare la poltrona di sindaco, incalzati dalla CGIL campana e dal trotzkista narcisista Nichi Vendola che lo liquidava con “lasci, mi ha deluso”. Il sindaco rispondeva duramente e rispediva al mittente qualsiasi dubbio parlando di “un sistema profondamente marcio e corrotto”, di un governo Renzi che va combattuto perché nella sua agenda politica ha avanzato l’abolizione dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori, di Nicola Mancino che contribuì a “strapparmi la toga 2 che ora deve testimoniare nella trattativa Stato-mafia”
All’indomani della lettura del dispositivo che condannava De Magistris e Genchi, anche il presidente del Senato Grasso ha invitato, con un perentorio “lasci”, il sindaco a dimettersi, incalzato anche della fronda di destra del PD che fa capo alla vecchia destra del PCI revisionista, quella gestita dal nuovo Vittorio Emanuele III, Giorgio Napolitano.
Visto, inoltre, che De Magistris non ha pensato alle dimissioni, come anche parte del suo entourage aveva pensato facesse, subito si è mossa la macchina del governo nero che ha chiamato in causa la legge Severino che, nel 2013, ha istituito la sospensione per le cariche istituzionali che venivano condannate, in qualsiasi grado di giudizio, per i reati contro la pubblica amministrazione. In questo modo, De Magistris verrà defenestrato dal prefetto napoletano Francesco Musolino secondo questa legge voluta da uno – fa notare De Magistris – dei difensori delle controparti al processo romano, ossia quella Severino tornata a fare a tempo pieno l’avvocato penalista. Un provvedimento in perfetto stile neofascista che conferma che col "centro-sinistra" al governo la realizzazione del "Piano di rinascita democratica" della P2 di Gelli che prevedeva l'assoggettamento del potere giudiziario al potere esecutivo, ma anche di tappare la bocca a chiunque osa disturbare questo progetto voluto dall’ex venerabile e portato avanti da Craxi, Berlusconi e oggi da Renzi.
Noi marxisti-leninisti abbiamo duramente e tenacemente contestato le politiche antipopolari della giunta De Magistris. Basti pensare che non ha fatto assolutamente nulla per il lavoro e per le periferie urbane. Ma questo è un altro discorso. Nel caso specifico, riteniamo che lui abbia ragione e i giudici che lo hanno condannato torto. Pertanto lo invitiamo a non dimettersi, occupandosi finalmente dei problemi che affliggono le masse napoletane. La nostra opposizione all’ex pm, però, non ha nulla a che vedere con la giusta e sacrosanta inchiesta avviata da De Magistris nel 2007 che ha scoperchiato l’intreccio politico-mafioso-massonico-imprenditoriale in Calabria, che l’ex magistrato voleva portare a compimento.
 

1 ottobre 2014