Risoluta protesta delle disoccupate ex Igea del Sulcis
“Rimarremo in miniera finché non avremo la sicurezza del lavoro”
A guidare la lotta ci sono le donne: “noi non abbiamo paura”. “Le nostre famiglie sono alla fame”

Stavolta sono le donne a guidare la lotta. Siamo in Sardegna, e precisamente in una provincia, il Sulcis-Iglesiente, ricca di miniere oggi quasi tutte chiuse dove la crisi ha colpito durissimo. E' una zona che oramai tutti conoscono perché occupa spesso le cronache per le dure lotte sostenute dagli operai e dalla masse sarde contro i licenziamenti, le chiusure e l'impoverimento economico e sociale del territorio.
37 lavoratrici nella notte del 27 novembre sono scese giù nella galleria Villamarina della miniera di Monteponi, alla periferia di Iglesias. Con il casco, i fazzoletti e tanta rabbia ma con la voglia di lottare. Sono lavoratrici dell'ex Igea, la società destinata quasi vent’anni fa a mettere in sicurezza, bonificare e ripristinare le aree minerarie dimesse. Unico azionista la Regione Sardegna che l'ha messa in liquidazione lo scorso 13 maggio, aprendo un periodo di incertezza per 254 lavoratori, che ora vantano 7 mesi di stipendi arretrati e soprattutto guardano con forti timori al loro futuro.
L'assessore regionale all'industria Maria Grazia Piras afferma che l'intenzione è quella di tenere in vita un'azienda tecnicamente morta che aveva accumulato 24 milioni di debiti. Ma il vero obiettivo della nuova giunta guidata dal PD Pigliaru è attuare un progetto di liquidazione totale della società pubblica per affidarla ai privati, come denunciano anche i sindacati. Insomma la solita politica delle privatizzazioni, con la frammentazione delle competenze Igea in tante cooperative con il conseguente aumento del precariato nella migliore delle ipotesi, nella peggiore anche l'aggiunta di una gestione illegale e malavitosa, come dimostra la recente indagine “Mafia Capitale” che coinvolge numerose cooperative romane.
L'occupazione di una miniera da parte di un gruppo formato da sole donne rappresenta un caso straordinario che, almeno in Sardegna, non ha precedenti, solitamente non scendevano nemmeno nel sottosuolo e quando vi lavoravano generalmente svolgevano mansioni fuori dalle gallerie. L’umido penetra nelle ossa nonostante calzamaglia, pantaloni, stivali pesanti, due maglioni, giubbotto e sciarpa. Una di loro ogni quattro ore si affaccia al cancello per allattare un bambino di otto mesi. “Non ci sono le condizioni igieniche e ambientali per stare un giorno intero con la mamma”, dice Maria3. Tutte hanno scelto di chiamarsi con lo stesso nome, comune a tante donne sarde.
Nonostante le difficili condizioni le donne sono decise ad andare avanti ad oltranza con l'occupazione se non verranno pagati ai lavoratori gli stipendi arretrati e non sarà assicurato loro il lavoro anche per il futuro con un piano di rilancio dell'Igea. “Noi non abbiamo paura”, ripetono con coraggio. “Chiediamo di sapere quali iniziative a breve termine verranno prese dalla Regione per il rilancio dell’azienda, e chiediamo che ci vengano pagati gli stipendi in arretrato, in un anno abbiamo percepito appena 5 mensilità. Vogliamo esprimere, con questa azione, il disagio che quotidianamente ci troviamo ad affrontare come madri, compagne, mogli e lavoratrici. Sfatiamo il luogo comune secondo il cui alle donne era precluso l’accesso al sottosuolo”
Mentre le combattive donne occupavano la miniera una decina di loro compagni hanno preso possesso delle pompe d’acqua che evitano l’allagamento delle gallerie e allo stesso tempo riforniscono di acqua la città di Iglesias. Intanto è scattata la gara di solidarietà da parte della popolazione, specialmente donne, che portano ai cancelli della miniera il cibo e l'acqua necessari. Anche la chiesa locale sostiene le lavoratrici; il vescovo d'Iglesias è andato a trovarle. A loro va l'incondizionato e militante sostegno del PMLI.
Una vicenda che rivela la gravità della situazione economica e occupazionale di questa regione, che ha raggiunto livelli drammatici. La forza-lavoro in Sardegna è di 650 mila unità, oltre 150 mila sono costretti a vivere di ammortizzatori sociali, con ritardi nell’erogazione delle indennità che hanno superato i due anni. Coloro che in Sardegna nel 2004 si trovavano al di sotto della soglia di povertà erano 292 mila, oggi, nel 2014 dieci anni dopo, sono 420 mila, in una regione che conta 1.639.362 abitanti.
La zona di Carbonia, Iglesias e tutto il Sulcis hanno il più alto tasso di disoccupazione dell'isola e la crisi del settore minerario, concentrato sopratutto a Portovesme, ha messo in ginocchio la popolazione. La Rockwoll (lana di roccia) ha chiuso i battenti, L'Alcoa (alluminio) sta licenziando 800 lavoratori, l'Eurallumina momentaneamente ferma, alla Portovesme srl (piombo e zinco) cassa integrazione, mentre la Carbosulcis, unica miniera ancora pienamente attiva, verrà chiusa nel 2017.
Questa occupazione da una parte mostra a che punto è arrivata la disperazione delle donne sarde e del Sud in genere che urlano: “le nostre famiglie sono alla fame”. Però evidenzia anche la voglia di lottare e di non rassegnarsi a subire le angherie del sistema capitalistico, emergono la combattività e il coraggio delle lavoratrici e delle masse popolari che anche in Sardegna si sono mobilitate contro il governo nazionale e quello regionale per difendere il diritto ad avere una vita dignitosa. Intanto una piccola vittoria è stata ottenuta: la Regione ha deliberato a favore del pagamento delle spettanze ai lavoratori ex Ila, a dimostrazione che la lotta paga.
 
 

10 dicembre 2014