Nuove norme anticorruzione
Sulla corruzione Renzi si muove dopo che i buoi sono scappati. Rimangono comunque intatte le sue responsabilità politiche
Neanche Napolitano e Marino si erano accorti che la mafia aveva in mano Roma

“Il vento è cambiato, chi ruba e chi corrompe sarà perseguito fino all'ultimo giorno e fino all'ultimo centesimo”. Per tirarsi fuori dallo scandalo di “mafia capitale”, in cui il PD da lui guidato è dentro fino al collo, Matteo Renzi è ricorso di nuovo al trucco che gli riesce meglio: quello dello spot mediatico con l'annuncio di misure straordinarie, utile a distrarre l'opinione pubblica e a farlo passare dal banco degli accusati a quello degli accusatori. E così il 9 dicembre, prima di volare in Turchia per una visita di Stato, ha annunciato in video una serie di provvedimenti urgenti anticorruzione che il Consiglio dei ministri avrebbe approvato entro neanche due giorni, tra cui l'aumento delle pene, l'allungamento della prescrizione e la “restituzione del maltolto” da parte dei politici condannati per corruzione, dando quasi ad intendere che lo avrebbe fatto per decreto.
Ma come al solito il roboante annuncio di Renzi si è rivelato un bluff. Intanto il Consiglio dei ministri veniva rimandato di un giorno e mezzo, segno evidente di trattative sottobanco con Alfano (e probabilmente anche con Berlusconi), dopodiché alla fine il 12 dicembre il Consiglio dei ministri approvava un ridicolo disegno di legge (quindi destinato a tempi lunghi) contenente solo un paio di misure “ad integrazione” della “riforma della giustizia” del ministro Orlando ferma in parlamento da agosto: e cioè l'aumento di due anni delle pene (minima e massima) per la sola corruzione propria, con il conseguente aumento di solo due anni della prescrizione, e la confisca dei beni dei corrotti. Niente di più. Nulla contro altri reati come la corruzione giudiziaria o l'induzione illecita, niente sull'estensione delle norme antimafia sulle intercettazioni e sugli sconti di pena ai pentiti per denunciare i corrotti chieste dai magistrati, e niente manco a dirlo sull'urgente problema della mancanza di personale e di mezzi per far funzionare la giustizia e snellire i processi, che però Renzi pretende “rapidissimi” dai magistrati.
Quanto alla prescrizione resta ancora la legge vergogna ex Cirielli, che nel progetto Orlando è appena ritoccata sospendendo il conteggio per due anni dopo la condanna di primo grado e per un anno dopo il secondo grado. Tanto da spingere lo stesso procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, a dichiarare in un'intervista a “Il Messaggero”: “L'intervento che blocca la prescrizione tra un grado e l'altro di giudizio ricalca un progetto del PD su cui sono stato audito. Preferivo il progetto presentato dai Cinque stelle che prevede la cessazione della prescrizione una volta che viene esercitata l'azione penale”. Roberti ha criticato altresì la mancata applicazione alla corruzione “degli stessi strumenti che oggi usiamo per il contrasto alle mafie”, bollando perciò come “troppo timidi” i provvedimenti del governo. Critiche simili sono arrivate anche dai vertici dell'Anm, dal commissario anticorruzione Raffaele Cantone, dal senatore PD ed ex pm Felice Casson e dallo stesso procuratore Pignatone, titolare dell'inchiesta su “mafia capitale”.

La doppia responsabilità di Renzi
Queste critiche hanno mandato Renzi su tutte le furie, il quale ha richiamato stizzosamente i magistrati a “parlare di più con le sentenze e meno con le interviste”. Forse perché colpevoli ai suoi occhi di aver scoperto il suo sporco gioco demagogico mettendo in rilievo con argomenti concreti l'inconsistenza delle sue misure anticorruzione. Del resto, al di là dell'assoluta inconsistenza, il suo provvedimento civetta arriva solo dopo che i buoi sono scappati dalla stalla, e solo perché si è mossa prima la magistratura, scoperchiando la pentola maleodorante della corruzione politico-mafiosa che da anni aveva in mano la capitale, e che aveva al suo centro proprio il partito del nuovo Berlusconi.
Troppo comodo per lui tirarsene fuori ostentando indignazione, sparando qualche dichiarazione demagogica come “sono schifato” e “non lasceremo Roma in mano ai ladri” e annunciando misure straordinarie regolarmente sgonfiate dopo qualche giorno. Egli è doppiamente responsabile, come capo del governo e come leader del PD. Come capo del governo perché è coinvolto direttamente nello scandalo con uno dei suoi principali ministri, il ministro del Lavoro Poletti, che è anzi uno dei suoi più stretti collaboratori e la punta di lancia della sua politica economica filopadronale e antioperaia incarnata dal famigerato Jobs Act. Ministro che come presidente di Legacoop ha offerto copertura alla cooperativa di Buzzi, il quale a sua volta portava voti e soldi al PD, finanziando le campagne elettorali di candidati locali, tra cui quella dello stesso Marino, ma anche il PD nazionale, visto che aveva partecipato di recente alla cena di raccolta fondi di Renzi all'Eur.
E Renzi è responsabile anche come leader del PD, in quanto non poteva non sapere ciò che era risaputo da tutti e da tempo, e cioè che il PD romano è un verminaio di cosche politico-mafiose in lotta per le carriere, il potere e i soldi, come era emerso eloquentemente alle primarie per le ultime elezioni politiche e per le primarie congressuali che hanno portato lo stesso Renzi alla segreteria, nelle quali si è visto di tutto: dai pacchi di tessere in bianco vendute e comprate, ai pacchi di pasta e altri generi alimentari offerti in cambio di voti; dalle file sospette di rom ed extracomunitari ai gazebo del PD, ai pulmini di pensionati prelevati dai centri ricreativi e portati a votare, e così via. Pratiche mafiose che tra l'altro hanno favorito anche e soprattutto i candidati renziani e la stessa vittoria di Renzi.
Perché Renzi, che si vanta di essere il “rottamatore” del vecchio PD, ha aspettato che si muovesse la magistratura facendo scoppiare il bubbone, prima di commissariare il partito a Roma? Ed è incredibile poi che a commissariare e “ripulire” il PD romano sia stato chiamato Matteo Orfini, un voltagabbana ex bersaniano salito sul carro di Renzi, la cui carriera politica si è svolta proprio tra le cosche romane che dovrebbe “moralizzare”.
Il fatto è che da tempo il PD era diventato una cosca borghese votata al potere e ai soldi come tutte le altre del regime neofascista, e con Renzi la metamorfosi si è compiuta definitivamente, sicché oggi non è più un soggetto di seconda fila nel sistema corruttivo come ai tempi di tangentopoli, ma ha assunto un ruolo da protagonista, come allora era stato per la DC e per il PSI di Craxi. Basti pensare anche solo agli scandali immediatamente precedenti a quello di Roma, come l'Expo milanese e il Mose di Venezia, in cui esponenti di peso del PD compaiono in prima fila. Tra l'altro per il Mose sono stati appena indagati due deputati nazionali, come Michele Mognato e il bersaniano ex presidente della Provincia di Venezia, Davide Zoggia.

Corresponsabili anche Napolitano e Marino
Renzi e tutto il PD nazionale hanno perciò delle responsabilità oggettive nello scandalo romano, anche perché stando a Roma sia il governo che la segreteria nazionale non potevano non accorgersi dell'andazzo che si andava svolgendo sotto i loro occhi da anni. Così come ce l'ha anche il neopodestà Ignazio Marino, che dopo un anno e mezzo alla guida del Campidoglio non poteva non essersi accorto di nulla, mentre il presidente del Consiglio comunale, un suo assessore, il suo vicesindaco e il suo capo segreteria trescavano da mesi con la banda di Buzzi e Carminati. Senza contare la storia dei 30 mila euro di finanziamento alla sua campagna elettorale da parte della cooperativa di Buzzi che il sindaco non può far finta di ignorare. Se avesse un minimo di decenza egli dovrebbe dimettersi e il Comune di Roma dovrebbe essere sciolto per mafia, invece di restare abbarbicato alla poltrona.
Neanche Napolitano si era accorto di nulla? Dopo essersene stato in omertoso silenzio per giorni e giorni anche dopo l'esplosione dello scandalo romano, alla fine si è svegliato, ma non per condannare i politici corrotti, bensì per coprire Renzi e Marino attaccando tutti quelli che protestano contro la corruzione politica dilagante, da lui bollati come “faziosi”, “violenti” ed “eversori”: come ha fatto parlando all'Accademia dei Lincei, quando si è scagliato contro la “patologia dell'antipolitica”, che può degenerare – ha tuonato il rinnegato del Quirinale - in forme di “violenza che può destabilizzare, che può creare eversione”, ed evocando “virus pericolosi” che “circolano ancora in certi spezzoni di sinistra estremista o pseudorivoluzionaria, e concorrono ad alimentare la degenerazione del ricorso alla violenza”.
Il nuovo Vittorio Emanuele III, cioè, usa la sua autorità per fare argine attorno al governo, alle corrotte istituzioni borghesi e al marcio sistema capitalista, contro la rabbia e la ribellione che montano nelle masse popolari per il dilagare degli scandali e delle ruberie in cui sono immersi i polticanti borghesi ad ogni livello. Rabbia e ribellione che vanno invece appoggiate e indirizzate coscientemente nella lotta rivoluzionaria per l'abbattimento del capitalismo e la conquista del socialismo, perché occorre comprendere che corruzione e mafie hanno le loro radici nel capitalismo stesso, sono parte integrante del sistema economico e politico della classe dominante borghese e vanno estirpate con esso.

17 dicembre 2014