Con un nuovo voto di fiducia alla Camera
Approvata definitivamente la controriforma pensionistica. Drastico taglio alla pensione pubblica. Scippate le liquidazioni
Cancellata la pensione di anzianità. Elevata l'età pensionabile. Una beffa la deroga alle donne. Penalizzati i giovani. Sconveniente l'incentivo per rinviare il pensionamento. Favorite le pensioni private
E' ora che i sindacati proclamino lo sciopero generale

Sulle pensioni, il governo del neoduce Berlusconi e la sua maggioranza di "centro-destra" hanno ripetuto pari pari il golpe messo in atto in Senato il 13 maggio scorso. Il 28 luglio, infatti, hanno imposto di nuovo la fiducia, questa volta alla Camera, approvando definitivamente la controriforma di stampo fascista e liberista della previdenza pubblica. E lo hanno fatto, per giunta, vigliaccamente, a fabbriche e scuole chiuse per ferie. Su 481 deputati presenti, 333 hanno votato a favore e 148 contro.
Come la volta precedente il nuovo Mussolini e la sua casa del fascio se ne sono fregati della piazza e della lotta che milioni di pensionati, di lavoratori e di anziani hanno condotto negli ultimi tre anni contro la legge delega sulle pensioni, hanno ignorato l'opposizione di tutt'e tre le confederazioni sindacali Cgil, Cisl e Uil e gli scioperi generali che nel tempo unitariamente hanno indetto, hanno sbeffeggiato lo stesso parlamento, impedendogli di svolgere alcuna funzione dibattimentale ed emendatrice. E questo nonostante che il "centro-destra" disponga, rispetto al "centro-sinistra", di una maggioranza preponderante. Nessun governo del passato, dal dopoguerra, aveva mostrato tanta arroganza e aveva calpestato in modo così plateale le regole democratico-borghesi.
Chi, come i leader dell'Ulivo (Fassino, D'Alema, Rutelli, Castagnetti, Boselli) contavano sulle contraddizioni emerse tra AN e l'UDC da un lato e FI e Lega dall'altro, hanno sbagliato ancora i calcoli. Chi, come i vertici sindacali, tempestivamente e con forza dovevano rimettere in moto la lotta nei mesi di giugno e luglio contro la prima approvazione della controriforma e non l'hanno fatto, portano delle responsabilità pesanti.
Il testo blindato, passato alla Camera senza nessuna modifica, è pertanto lo stesso che abbiamo già criticato (vedi il n.20/2004 de "Il Bolscevico"). Se è vero che rispetto alla delega originaria del 2001 è stata accantonata la decontribuzione di 3-5 punti degli oneri sociali per i neo assunti a beneficio delle aziende, che avrebbe portato alla bancarotta le casse dell'Inps, se è vero che è stato cancellato l'obbligo del trasferimento del TFR (ovvero le liquidazioni dei lavoratori) sui fondi di pensione integrativi, sostituendolo con il meccanismo del silenzio-assenso, la struttura portante della controriforma è rimasta intatta e i provvedimenti in essa contenuti penalizzano tutti i soggetti interessati, non risparmia nessuno: giovani, donne, anziani.

Gli obiettivi
Tagliare drasticamente e in modo strutturale la spesa pensionistica, oltre a quanto realizzato nelle precedenti "riforme" dei governi di "centro-sinistra" (Amato '92, Dini '95, Prodi '97) pari a 200 mila miliardi di lire, peggiorare ulteriormente e pesantemente i trattamenti del sistema pensionistico pubblico, specie per i giovani che al termine della loro vita lavorativa avranno una pensione inferiore al 50% della retribuzione percepita, favorire l'affermazione e l'espansione dei fondi pensione privati, non solo di tipo contrattuale ma anche quelli promossi dalle società finanziarie e assicurative che gestiscono le polizze individuali: sono le finalità economiche e sociali della controriforma.
Finalità che si concreteranno con: la definitiva cancellazione della pensione di anzianità; l'elevamento dell'età pensionabile per donne e uomini; la riduzione delle "finestre" annuali, da quattro a due, per lasciare il lavoro una volta maturati i requisiti pensionistici; un finto e non conveniente "incentivo" per indurre i lavoratori a rinviare il pensionamento; lo scippo delle liquidazioni a favore delle pensioni private; l'equiparazione legislativa e fiscale dei fondi pensione. Finalità che si concreteranno, infine, con l'entrata in vigore del metodo di calcolo contributivo in luogo di quello più vantaggioso retributivo. I giovani di ambo i sessi che sono stati assunti dal 1° gennaio '96 in poi avranno la pensione interamente calcolata sulla base dei contributi effettivamente versati, con importo conclusivo pressoché dimezzato.
Nonostante che le richieste di pensionamento anticipato siano calate sensibilmente, nonostante che i conti previdenziali siano in linea con i programmi stabiliti e dunque non ci sia nessuna emergenza in questo senso, con i provvedimenti varati il governo conta di ridurre la spesa pensionistica dello 0,7 del pil (prodotto interno lordo) pari a 17 mila miliardi di lire.

Età pensionabile
La controriforma berlusconiana peggiora notevolmente le norme per andare in pensione e le rende più rigide, senza tenere minimamente in conto le diversità di vita lavorativa, senza considerare i lavori usuranti. Elimina i requisiti più "flessibili" della vecchia "riforma" Dini che permettevano di andare in pensione con 35 anni di contributi e 57 di età, oppure di rimanere fino a un massimo di 65 anni per incrementare l'importo della pensione spettante. Dal 1° gennaio 2008 i nuovi requisiti stabiliscono invece che per andare in pensione occorrerà aver 60 anni per le donne e 65 per gli uomini. In alternativa si dovrà aver maturato 40 anni effettivi di versamenti contributivi. Altro che liberalizzazione dell'età pensionabile come vanno propagandando gli artefici della controriforma!
Da notare che per i dipendenti pubblici l'età pensionabile può essere prolungata fino a 70 anni, come previsto nella conversione in legge attuata il 27 luglio scorso del decreto legge n.136/2004.
La possibilità di andare in pensione anticipata con 35 anni di contributi rimane ma più in modo formale che reale. In quanto è necessario avere, contemporaneamente, 60 anni di età per i lavoratori dipendenti e 61 per quelli autonomi. Che saliranno a 61 anni per i primi e 62 anni per i secondi nel periodo 2010-2013; e ancora a 62 anni per i dipendenti e 63 anni per gli autonomi nel 2014. Sono requisiti difficili se non impossibili da maturare se si tiene conto della difficoltà che hanno i giovani oggi a realizzare una vita lavorativa continuativa, se si considera che molti di loro passano da un lavoro precario all'altro.
Sono misure, queste, chiaramente finalizzate a ritardare il momento del pensionamento dei lavoratori di tre anni almeno come minimo. Ma anche di più se a ciò si aggiunge la riduzione delle "finestre" per andare in pensione, una volta maturati i contributi e l'età necessaria, da quattro a due l'anno. Questo può voler dire, se le date non corrispondono perfettamente, rinviare ancora di un anno la risoluzione del rapporto di lavoro.
Particolarmente ingiusta e inaccettabile appare la diversità di trattamento tra coloro che andranno in pensione da qui al 31 dicembre 2007, godendo delle vecchie e migliori norme e coloro e sono tanti che, maturando i requisiti richiesti il 1° gennaio 2008, e quindi con un solo giorno di differenza, saranno costretti a rinviare il pensionamento di diversi anni, essendo entrate in vigore le nuove regole le quali, tra l'altro, non prevedono nessun meccanismo di gradualità.

Le deroghe
La deroga per le lavoratrici dipendenti che permette loro di conservare il dispositivo di 35 anni di contributi e 57 anni di età (58 le lavoratrici autonome) in via sperimentale fino al 2015 è solo una presa di giro atroce. Visto che, in questo caso, il calcolo della pensione avverrebbe esclusivamente con il calcolo contributivo che, denunciano le responsabili donne Cgil, Cisl e Uil, comporterebbe "un trattamento economico ridotto del 40-50%".
Nella legge c'è un'altra deroga per coloro che sono in mobilità con accordi stipulati prima del 1° marzo 2004 che potranno andare in pensione con le regole attuali anche dopo il 2008. Ma questa possibilità è limitata a un massimo di 10 mila lavoratori. E gli altri? E quelli che sono andati in mobilità dopo quella data? Anche in questo caso siamo in presenza di un atto discriminatorio e iniquo inaccettabile, sospetto di incostituzionalità.
Un'altra deroga ancora, che giudichiamo un privilegio ingiustificato e incomprensibile, riguarda le Forze armate, la Polizia e i Vigili del fuoco che conservano la normativa speciale attualmente in vigore.

Il bluff dell'incentivo
Un'altra presa di giro grossa tanto propagandata dal ministro del welfare, il leghista Roberto Maroni, concerne l'"incentivo" per posticipare il pensionamento valevole per il periodo 2004-2007. Un "incentivo" consistente nel rinunciare all'accredito contributivo del 32,70% (di cui 8,89% a carico del lavoratore e 23,81% del datore di lavoro) per avere tale quota, esente da Irpef, direttamente in busta paga. Ebbene, questo "incentivo", secondo i calcoli fatti dai sindacati non è conveniente per quei lavoratori che decidessero di rimanere al lavoro. Non c'è convenienza tra i soldi presi in "più" in busta paga nel periodo di permanenza al lavoro e il mancato incremento della pensione a causa dell'interruzione dei versamenti contributivi.
Il suddetto "incentivo" contiene inoltre, una discriminazione grave tra i lavoratori dei settori privati e i pubblici dipendenti, esclusi quest'ultimi da tale "beneficio". E rappresenta anche un invito al lavoro "nero", mascherato e legalizzato, e all'evasione fiscale con pesante danno per le casse della previdenza sociale e per lo Stato.
Per convincere i lavoratori a fare questo passo nella legge viene fatta una promessa che non può essere mantenuta: e cioè che essi conserverebbero il diritto di uscire dal lavoro in qualsiasi momento anche se cambiassero le regole appena approvate. Anche un bambino sa che una nuova normativa assunta sullo stesso argomento sopprime quella precedente.
Questo metodo per rinviare il pensionamento dei lavoratori che lo hanno maturato è destinato in ogni caso al fallimento. Sono per prime le aziende a non volerlo. Già ora tendono a disfarsi dei cinquantenni (figuriamoci i sessantenni) per assumere forza lavoro giovane con contratti precari.

No al Tfr nei fondi privati
Accanto alle misure che mirano a demolire la previdenza pubblica vi sono provvedimenti per favorire l'affermarsi e l'espandersi dei fondi pensione privati. Questo obiettivo di sviluppare le pensioni integrative lo hanno perseguito e lo perseguono tuttora anche i partiti di "centro-sinistra" e i sindacati. Solo che il governo Berlusconi ha varato una legislazione che amplia ulteriormente i soggetti che possono mettere le mani su questo vero e proprio affare finanziario, equiparando i fondi pensione "chiusi" di tipo collettivo e contrattuale e i fondi di pensione aperti operanti prevalentemente tra i lavoratori autonomi e i liberi professionisti con le società finanziarie e assicurative per la stipula di piani individuali pensionistici (pip). E qui il neoduce ha un interesse personale da curare essendo il proprietario di Mediolanum, una società importante che opera nel settore delle assicurazioni.
Ma come nel passato il problema di questi fondi rimane il finanziamento e l'adesione dei lavoratori. Problema che, come chi l'ha preceduto, Berlusconi vorrebbe risolvere scippando le liquidazioni ai lavoratori (Tfr) tanti miliardi di euro che andrebbero nelle disponibilità di questi fondi, senza certezze sulla salvaguardia dei soldi versati e sul loro rendimento. Saltato il passaggio obbligatorio del Tfr nei fondi, rimane il meccanismo del silenzio-assenso che, sia pure in modo subdolo, tende a forzare la volontà dei lavoratori. La norma prevede che entro 6 mesi dall'entrata in vigore del decreto legislativo emanato dal governo il lavoratore interessato espliciti la sua volontà. In caso di silenzio scatta automaticamente la destinazione del suo Tfr ad una delle forme di pensione complementare previste. Per quanto le pressioni ad aderire ai fondi privati siano fortissime noi invitiamo i lavoratori a non dare il loro assenso per il trasferimento del loro TFR alle pensioni integrative.
Per le imprese che finora hanno utilizzato l'accantonamento delle liquidazioni dei lavoratori come una forma di autofinanziamento, la legge stabilisce misure agevolative e compensative. Come a dire, i padroni non devono rimetterci nemmeno un euro.

Decreti e deleghe
La partita sulle pensioni non appare chiusa con i provvedimenti presi. Il governo si è riservato il diritto di varare entro 18 mesi una serie di decreti legislativi applicativi per estendere le nuove norme a tutti i regimi pensionistici, per introdurre regimi speciali a favore delle categorie che svolgono lavori usuranti, potenziare i benefici per le lavoratrici madri, ridefinire la disciplina della totalizzazione dei contributi versati in varie gestioni, casse e fondi ai fini di un unico trattamento pensionistico e altro ancora. Se le premesse sono quelle viste sopra, si può immaginare il seguito.
I segretari di Cgil, Cisl e Uil, Epifani, Pezzotta e Angeletti, hanno espresso verbalmente la loro opposizione alla controriforma berlusconiana. Ma dalle parole si deve passare ai fatti, subito. A loro spetta, senza perdere altro tempo, di promuovere la mobilitazione generale dei lavoratori, di proclamare lo sciopero generale di 8 ore di tutte le categorie. Ciò con la consapevolezza che non c'è solo da respingere con fermezza e determinazione la "riforma" pensionistica di luglio ma da combattere e affossare la legge finanziaria di "lacrime e sangue" che il governo sta preparando, una stangata di 24 miliardi di euro, da rinnovare i contratti per cinque milioni di lavoratori, c'è da rivendicare una politica economica e sociale, una politica fiscale e salariale, una politica assistenziale pubblica che abbia al centro i problemi dei giovani, dei disoccupati e delle masse popolari, specie quelle del Mezzogiorno.
Buttiamo giù il neoduce Berlusconi!

1° settembre 2004