Votando il testo Frattini sul conflitto di interesse
Il Senato approva la legge su misura per Berlusconi
Scene disgustose di nazionalismo della destra e della "sinistra'' del regime neofascista. Secondo Violante nel '94 i DS garantirono a Berlusconi che non avrebbero toccato le sue aziende
CIAMPI NON DEVE FIRMARE LO SCANDALOSO PROVVEDIMENTO

Il 4 luglio al Senato, con 143 sì, 110 no e due astensioni, è passata in seconda lettura la cosiddetta legge sul conflitto di interessi, o anche "legge salva Berlusconi'' presentata dal ministro della Funzione pubblica Frattini. Una legge fatta su misura per cancellare anziché risolvere il conflitto di interessi di cui è al centro il neoduce Berlusconi, a cui manca ora solo il sì della Camera per diventare operativa.
Una legge-truffa per un conflitto di interesse gigantesco e sfacciato, che è sotto gli occhi di tutti da anni, in quanto l'attuale presidente del Consiglio è anche proprietario delle tre più grandi reti televisive private, controlla direttamente o indirettamente le tre pubbliche e possiede inoltre un vasto impero economico che controlla case editrici, giornali, compagnie di assicurazioni, società di intermediazione finanziaria e perfino una società calcistica di prima grandezza come il Milan. Si tratta di una situazione di una scandalosità che non ha uguali in nessun paese capitalista al mondo e supera perfino quella degli Usa, dove pure è normale che i grandi magnati, vedi la famiglia di petrolieri Bush, occupino anche le più alte cariche politiche della nazione. Bisogna risalire al ventennio mussoliniano per ritrovare in una sola persona una concentrazione di potere così enorme e incontrastato.

La legge-truffa "salva Berlusconi''
E' così che alla fine il neoduce, come aveva "promesso'' in campagna elettorale per pararsi dalle critiche, ha dovuto presentare una legge sul conflitto di interessi, che però lo risolve a modo suo: facendolo cioè sparire con un giochino di prestigio. Infatti la legge Frattini stabilisce che non c'è conflitto di interessi se il presidente del Consiglio, ministro, viceministro, sottosegretario, commissario governativo, presidente regionale o provinciale, sindaco di città metropolitana, è solo proprietario ma non amministratore di aziende. Il soggetto politico che affida cioè le proprie imprese ad un amministratore non si trova in una situazione di conflitto.
Si tratta della cosiddetta norma "salva Berlusconi'', in base alla quale il neoduce, che ha già provveduto ad affidare l'amministrazione di Mediaset al fedele Confalonieri, risulta già perfettamente in regola e assolto da ogni ulteriore obbligo. L'unica cosa a cui dovrà rinunciare (in favore del figlio Piersilvio) sarà - bontà sua - la presidenza del Milan, pur mantenendone la proprietà.
Ad aggiungere scandalo allo scandalo c'è la questione delle "sanzioni'': nella remota ipotesi in cui, nonostante tutto quanto detto sopra, si dovesse accertare che le sue aziende, ed esclusivamente le sue, hanno conseguito un vantaggio da un suo atto pubblico, quali sarebbero le sanzioni a carico di Berlusconi? Dovrebbe dimettersi dalle sue cariche politiche? Vendere le sue proprietà? Niente di tutto questo. Al massimo le sue aziende illecitamente favorite rischierebbero una sanzione pecuniaria pari all'entità del vantaggio conseguito. Sarebbe come punire un ladro riprendendogli solo il maltolto e mandandolo libero.
E pensare che questa norma indecente è una "modifica'' suggerita da Ciampi (sic.) per rendere meno sconcia la legge che dovrà firmare. Nel testo originario votato il 28 febbraio dalla Camera, infatti, l'amministratore pubblico colto in conflitto di interesse avrebbe rischiato solo il "biasimo morale'' che l'evento avrebbe comportato. Proprio così, al massimo una "censura'' morale. Senza contare che chi dovrebbe accertare i casi di violazione della legge - l'antitrust per le aziende e l'Authority per le telecomunicazioni nel caso dell'informazione - è nominato dal governo, cioè dallo stesso Berlusconi: chi dovrebbe essere controllato è anche quello che sceglie il controllore!

Le responsabilità della "sinistra'' del regime
Di fronte a tanta sfacciataggine e arroganza, anziché abbandonare l'aula come aveva fatto alla Camera, l'Ulivo ha preferito stavolta rimanere e inscenare un'insulsa "protesta'' di stampo nazionalista sventolando fazzoletti tricolore, mentre la Casa del fascio rispondeva berciando l'inno di Mameli. Ne è risultata un'indegna gazzarra patriottarda in diretta televisiva, con la "sinistra'' che sfidava la destra del regime neofascista a sventolare anch'essa il tricolore, e la seconda che derideva la prima perché "finalmente - ironizzava il fascista Nania - dopo 50 anni è arrivata al tricolore dopo aver sventolato di tutto, anche le bandiere rosse''.
La verità è che dietro il tricolore, sventolato anche nell'illusione di smuovere Ciampi a venire in suo soccorso, la "sinistra'' del regime tenta di mascherare il suo fallimento e la sua coscienza sporca nell'aver lasciato che le cose arrivassero fino a questo punto di non ritorno. Del conflitto di interessi di Berlusconi si sapeva già quando decise di "scendere in campo'', eppure egli fu sottovalutato come un fenomeno da baraccone e nessuno si sognò di impedirgli, leggi alla mano, di presentarsi alle elezioni e di diventare presidente del Consiglio. A maggior ragione il problema poteva essere affrontato, ma non fu fatto, nei cinque anni in cui il "centro-sinistra'' è stato al governo, preferendo ricercare accordi di sottobanco con lui, come fece D'Alema nella Bicamerale golpista.
Anche quando Berlusconi ha rivinto le elezioni il 13 maggio dell'anno scorso tutti i leader dell'Ulivo, da D'Alema a Rutelli, da Bassolino a Prodi, gli hanno fatto i complimenti e gli hanno offerto un'"opposizione leale'', e persino collaborazione "biparti-san'', come è avvenuto sulla guerra all'Afghanistan. Nessuno si è sognato di mettere in dubbio la legalità democratica di un'elezione in cui ha pesato in maniera determinante il possesso di tre reti televisive su sei e il controllo di metà di quelle restanti. Persino Bertinotti, come ebbe a dichiarare in una stupefacente dichiarazione a Il Giornale, è contrario a "demonizzare'' Berlusconi.
Dunque di che si lamenta l'opposizione di cartone al governo? Tantopiù che, come scappò di bocca alla Camera al capogruppo DS Violante, nel rispondere alle accuse di voler "espropriare'' il magnate di Arcore col pretesto del conflitto di interessi, già nel '94 i rinnegati della Quercia dettero assicurazioni a Berlusconi che le sue reti tv non sarebbero state toccate: "Lui sa per certo - disse infatti Violante in aula riferito a Berlusconi - che gli è stata data la garanzia piena - non adesso, nel 1994 quando ci fu il cambio del governo (il governo "tecnico'' di Dini, ndr) - che non sarebbero state toccate le televisioni. Lo sa lui e lo sa l'onorevole Letta...durante i governi di centro-sinistra il fatturato di Mediaset è aumentato di 25 volte. Dunque non c'è stata alcuna operazione del genere''.
Una dichiarazione inaspettata, che gettò lo scompiglio nelle stesse file dell'Ulivo, ma che contribuisce efficacemente a chiarire, insieme alla visita che D'Alema fece a Mediaset durante la campagna elettorale del '96, da lui definita "una risorsa per il Paese'', perché negli anni successivi, nonostante le favorevolissime condizioni politiche, il "centro-sinistra'' non fece nulla per limitare il potere di Berlusconi, e anzi permise che crescesse fino alle spropositate dimensioni attuali, come Violante ha imprudentemente rivelato.

Lo sporco ruolo di copertura di Ciampi
Ora la "sinistra'' del regime, che si è cacciata da sola in questo vicolo cieco, non sa a che santo votarsi, e oscilla indecisa tra il raccomandarsi a Ciampi affinché intervenga in qualche modo, magari convincendo lo stesso Berlusconi a emendare la legge rendendola meno oscena (ma non hanno ancora il coraggio di chiedere esplicitamente a Ciampi di non firmarla), e la prospettiva della raccolta delle firme per un referendum abrogativo, a cui però è contraria la maggioranza dei DS, D'Alema in testa.
Da parte sua, però, il capo dello Stato non sembra affatto intenzionato a usare i suoi poteri per bocciare la scandalosa legge, come la Costituzione gli consentirebbe e come gli viene chiesto per ragioni di decenza in Italia e all'estero. Già a febbraio, infatti, anche un giornale come il conservatore Economist ebbe a notare il "silenzio assordante'' di Ciampi sulla questione del conflitto di interessi. Anche il Financial Times esortò Ciampi a non firmare la legge, sottolineando che "la sua credibilità, come quella del premier italiano, è in ribasso''.
Perfino un presidenzialista convinto come il professor Sartori è sbottato contro l'atteggiamento da "struzzo'' di Ciampi, che invece di respingere la legge-truffa ha mobilitato esperti costituzionalisti, come il suo amico Sabino Cassese, per riuscire a farla digerire al parlamento e al Paese: "Il Quirinale non ne ha mai fatto mistero - ha detto Sartori a proposito di questo lavorìo dietro le quinte di Ciampi - appare chiaro che cerca un alibi che giustifichi la promulgazione di questa legge. Un alibi che gli permetta di dire: sono riuscito a migliorarla, è un mio successo. Ma secondo me il testo non è migliorato, e quindi il presidente non può invocare né successo né un merito. La legge nella sostanza resta com'era e per molti aspetti viola i principi della Costituzione''. Quanto a non firmarla, Ciampi, secondo Sartori, "non solo potrebbe, che è ovvio, perché è la Costituzione che lo dice, ma dovrebbe. Almeno si dissoci. Cioè prima di promulgare sospenda la firma, mandi un messaggio alle Camere, dicendo la verità che tutto il mondo sa, che questa legge non risolve il problema del conflitto di interessi''.
Su questo punto siamo d'accordo: Ciampi non deve firmare questa legge-truffa. Se lo farà sarà la prova provata che egli sta a Berlusconi come il re Vittorio Emanuele III stava a Mussolini, cioè che il suo ruolo è quello di reggere il sacco all'uomo che ha restaurato il fascismo sotto nuove forme e nuovi vessilli.

17 giugno 2002