Alla conferenza stampa di fine anno logorroica e arrogante
Renzi esalta le controriforme costituzionali, elettorale e del lavoro piduiste e fasciste
Possibili licenziamenti dei lavoratori pubblici per “scarso rendimento”
Per il premier in camicia bianca (nera) “Il 2015 sara' l'anno del ritmo”. che sia pero' il ritmo della lotta di classe a spazzarlo via

Uno show logorroico e arrogante davanti a una platea di giornalisti compiacenti e imbambolati, condotto per due ore e mezzo con un'abile padronanza della diretta televisiva, di cui ha dettato a proprio piacimento i tempi, il carattere e i modi: questa è stata in sostanza la conferenza stampa di fine anno di Matteo Renzi, organizzata come ogni anno dall'ordine dei giornalisti.
Uno show, quello andato in onda il 29 dicembre presso la Camera, che ha premesso anche al nuovo Berlusconi, data la concomitanza con lo svolgersi delle operazioni di soccorso al traghetto Norman Atlantic, di gloriarsi del “lavoro stre-pi-to-so” (sic) dei militari italiani, che - ha aggiunto - “ci fanno sentire orgogliosi del tricolore nel mondo”; trasformando così, a prescindere, quell'evento drammatico in uno spot apologetico nazionalista, quando sono ancora tutte da chiarire le cause e le responsabilità - anche dell'equipaggio italiano e anche riguardo al ritardo nei soccorsi - della tragedia nell'Adriatico.
Ma tutto il suo breve intervento, prima di chiudere con uno sperticato elogio al rinnegato Napolitano e dare il via alle domande, ha avuto lo stesso tono apologetico: per se stesso e il suo governo, ovviamente. “Nel 2014 è avvenuta una rivoluzione copernicana, è cambiato il ritmo della politica”, ha esordito infatti il premier, snocciolando con sussiego le “riforme” e i provvedimenti del suo governo che hanno prodotto un “cambiamento profondo” nel Paese: la “giustizia sociale” (la mancia degli 80 euro in busta paga), la legge elettorale (l'Italicum di ispirazione fascista e puduista), la “riforma costituzionale” (l'abolizione del Senato con l'istituzionalizzazione del premierato di stampo mussoliniano). A cui ha aggiunto fisco, cultura, pubblica amministrazione, scuola, e naturalmente il lavoro, ossia il famigerato Jobs Act che abolisce l'articolo 18 e altri diritti sindacali, istituzionalizzando il precariato e la piena libertà di licenziamento.
“Siamo il governo che ha fatto meno leggi e più riforme”, ha sentenziato Renzi vantandosi di essere il “coach” dell'Italia chiamato non solo a “rimetterla in moto”, cosa che a suo dire avrebbe già fatto, ma “a farla correre”. La sua parola d'ordine per il 2015 quindi è “ritmo”, e “il ritmo è l'hashtag di questa conferenza stampa”, ha ribadito: una parola d'ordine tipica della Leopolda, ma a ben vedere di matrice berlusconiana e, prima ancora, di ispirazione mussoliniana.

Monologhi torrenziali e domande compiacenti
Durante la conferenza stampa vera e propria Renzi ha preso direttamente in mano la regia dello spettacolo, anche in senso letterale, come quando ha avvertito che “alle 13,30 dobbiamo dare la linea al Tg1”; o come quando ha letto sul telefonino un titolo di Sky tg24 a lui non gradito e ha chiesto di cambiare il “sottopancia” della titolazione, cosa che la suddetta rete ha eseguito in tempo reale. E così via, tra citazioni di personaggi del cinema e della televisione, battute, risatine, atteggiamenti goliardici seguiti da repentini ritorni alla serietà e all'arroganza, rivolto apparentemente alla platea che lo seguiva come ipnotizzata, ma sempre diretto in realtà alle telecamere, che ha utilizzato con un'abilità istrionica da far invidia a quella del suo stesso maestro di Mediaset. Al Berlusconi democristiano è arrivato anche l'elogio entusiastico di Radio Vaticana, commentando quasi in diretta che “qualcosa è stato fatto e qualcosa è da fare, ma quello che a Renzi importa è dare questo messaggio di ottimismo che si sta lavorando, si sta andando avanti. Se c'è un merito principale è aver rotto un certo immobilismo, aver cominciato a smuovere le cose”.
Alle domande dei giornalisti, peraltro quasi tutte scandalosamente deferenti e inoffensive, quando non addirittura compiacenti e servili, ha risposto con monologhi torrenziali in cui l'autoesaltazione apologetica del proprio operato si alternava alla derisione e all'arroganza contro tutti i “gufi” e i suoi detrattori, e finanche i semplicemente meno lesti a marciare col suo “ritmo”. A cominciare dagli stessi giornalisti, fatti oggetto della sua derisione per le domande non gradite sulla successione di Napolitano, accusandoli di fargli perdere tempo col “giochino di indovina chi”, a uno come lui che “ha riformato il mondo del lavoro, ha fatto la riforma costituzionale con 40 articoli modificati, una legge elettorale dopo anni di inutili discussioni, un sistema di riforma della scuola, un cambiamento della giustizia che segna uno spartiacque, un decreto sul fisco che è una pietra miliare”. Perfino con l'ordine dei giornalisti, che tradizionalmente ospita la conferenza, è stato strafottente alludendo in più occasioni di volerlo sciogliere insieme a tutti gli altri ordini professionali.

Bacchettate a magistrati e sinistra PD
Molto più duro e strafottente è stato però con la magistratura, di cui ha detto in tono provocatoriamente sarcastico di avere “grande stima”, per bacchettarla subito dopo, sull'esempio di Napolitano, chiedendo che “i giudici parlino solo con le sentenze”. E quanto alle critiche dell'Anm per i provvedimenti giudiziari del governo, “non perdo tempo a commentarle”, tanto “le dichiarazioni dell'Anm sono costanti, quotidiane, ci sono affezionato, perché almeno quando mi criticano so che sono vivi e vegeti e lottano insieme a noi”, ha detto sarcasticamente Renzi. Lo stesso trattamento sferzante che ha riservato ai parlamentari, quando all'osservazione che sulla strada dell'Italicum che dà già per approvata a fine gennaio ci sono 15 mila emendamenti, il premier ha risposto, alludendo al meccanismo taglia emendamenti già sperimentato per imporre la “riforma” del Senato: “Ma noi siamo esperti in canguri, quindi per noi va benissimo”. Del resto lui stesso ha rivendicato la sua arroganza come un merito, sentenziando che “è meglio essere giudicati arroganti che essere giudicati disertori”.
Insomma, lui se ne frega dei magistrati riottosi alla sua controriforma giudiziaria targata Nazareno, e se ne frega pure dei deputati e senatori (specie quelli della sinistra del suo partito), che cercano di fargli lo sgambetto in parlamento sull'Italicum e le “riforme” istituzionali. E magari si illudono di sabotare i suoi piani per imporre d'accordo con Berlusconi un nuovo presidente della Repubblica di loro gradimento. A questi manda a dire che “è del tutto logico e fisiologico” che Berlusconi, in quanto “votato da milioni di italiani”, sia “pienamente legittimato a stare al tavolo di discussione” per la scelta del presidente, e “se c'è chi pensa che possa esistere Forza Italia senza Berlusconi, auguri”.
Quindi il delinquente di Arcore, ancorché ridimensionato e in difficoltà, è sempre il suo principale alleato politico e il patto del Nazareno non si tocca: questo è il quadro di riferimento che Renzi vuole assolutamente preservare e al quale attenersi in ogni frangente. E lo dimostra anche l'ultimissima sconcezza della norma salva Berlusconi (e salva evasori e frodatori fiscali in generale), da lui fatta inserire nel decreto delegato sul fisco, proprio quello che aveva definito “una pietra miliare”.
Il 2015 sarà anche l'anno delle privatizzazioni, che il Berlusconi democristiano vuole “molto ardite”, essendo uno che, come si è vantato, da sindaco di Firenze è stato il primo a privatizzare un'azienda municipalizzata di trasporti. Nella sua agenda ci sono “le Poste e il futuro di Ferrovie”, mentre per Ansaldo-Breda “siamo in chiusura” con i giapponesi o i cinesi, e per Eni “occorre riflettere” in attesa di una congiuntura di mercato più favorevole, essendo il prezzo del petrolio troppo basso.

Licenziamenti estesi anche ai lavoratori pubblici
Ma dove ha mostrato senza vergogna la camicia nera fascista, nascosta sotto quella bianca democristiana che è la sua bandiera ufficiale, è stato sul Jobs Act e la sua “riforma del lavoro”, che si è vantato di aver fatto in dieci mesi mentre se ne discuteva da anni: “Nessuno ci credeva, lo abbiamo fatto in dieci mesi. In dieci mesi abbiamo fatto una riforma più flessibile della Germania”, ha detto in tono trionfale Renzi, rivendicando anche, a precisa domanda, di essere stato lui a far togliere dalla bozza dei decreti delegati la clausola che specificava l'applicabilità del Jobs Act solo ai contratti di lavoro privati.
La cosa era stata citata dall'ex giuslavorista liberista del PD e ora senatore di Scelta civica, Pietro Ichino, a dimostrazione che l'intenzione del governo era proprio quella di tagliare l'articolo 18 anche ai dipendenti pubblici, ed era stata invece smentita dai ministri Poletti (Lavoro) e Madia (Funzione pubblica). Ora Renzi non solo conferma le minacciose anticipazioni di Ichino, ma rincara la dose, cogliendo l'occasione per sferrare uno degli attacchi più velenosi e fascisti che un capo di governo abbia mai sferrato contro i lavoratori pubblici, incluso Berlusconi con il suo rabbiosissimo mastino “antifannulloni”, Brunetta.
Renzi ha detto di aver fatto cancellare la clausola di non estendibilità perché “non c'entrava nulla” col decreto, e che c'è già un provvedimento a firma Madia in parlamento riguardante la “riforma” della pubblica amministrazione (Pa) nell'ambito del quale andranno inserite norme simili al Jobs Act. E intanto ha buttato lì che anche nella Pa va applicato il principio che “chi sbaglia paga”, e si possono introdurre i licenziamenti “per scarso rendimento, così come per i privati”. “Come tutti - ha detto con perfida ipocrisia Renzi - ritengo che chi lavora nella Pa, essendo il 99% delle persone assolutamente perbene, abbia diritto di vedere punito chi sbaglia. Ma se mi chiedete se è giusto che un impiegato pubblico che sbaglia, partendo dai furti e arrivando all'assenteismo a volte vergognoso, paghi, la risposta è sì. Su questo sono pronto al confronto in parlamento”.
“Assenteismo vergognoso”, dice Renzi: è solo un caso che qualche giorno dopo sia scoppiato il caso dei vigili romani denunciato dal sindaco Marino (appena graziato da Renzi riguardo alle dimissioni per lo scandalo di “Mafia Capitale”), ciò che ha permesso al premier di buttarsi subito a pesce sul caso twittando che “cambieremo le regole del pubblico impiego”? Anche dei licenziamenti collettivi, inseriti “a sorpresa” nei decreti delegati, se ne è arrogata la paternità, ribadendo che in ogni caso a decidere sulla loro sorte sarà il governo, non certo il parlamento o altri. Quanto ad un possibile referendum abrogativo sul Jobs Act, lo ha liquidato con aria di sfida contrapponendogli quello confermativo sull'abolizione del Senato: “Quel referendum lì mi appassiona e mi entusiasma, quello sul Jobs Act chi vivrà vedrà”.
Come i suoi maestri Berlusconi, Craxi e Mussolini, il premier in camicia bianca (nera) alza così la posta e sfida i lavoratori e la piazza, raddoppiando la sicumera e l'arroganza e annunciando che quel che ha fatto finora è solo l'inizio. Il nuovo Berlusconi va perciò fermato subito, prima che riesca a cambiare come dice volto all'Italia, cioè a completare il piano della P2: facciamo allora sì che il 2015 sia l'anno del “ritmo”, ma che sia il ritmo crescente e irresistibile della lotta di classe, per spazzarlo via insieme al suo governo antioperaio, antisindacale, piduista e fascista.

8 gennaio 2015