Documento di economia e finanza 2015
I 10 miliardi di tagli alla spesa pubblica li pagheranno le masse
Aumenta anche la pressione fiscale. 2,7 miliardi di tagli alla sanità. Mobilità e blocco dei contratti fino al 2019 per i dipendenti pubblici. Solo rinviati i minacciati tagli a Regioni ed Enti locali. Il Sud colpito il doppio del Centro-Nord
Renzi si inventa un “tesoretto” elettorale di 1,6 miliardi

Il 10 aprile il Consiglio dei ministri ha approvato il Documento di economia e finanza 2015 (Def), il quadro annuale di programmazione economico del governo a valere per i prossimi tre anni. Nel presentarlo alla stampa Renzi, affiancato dal ministro dell'Economia Padoan, smentendo le voci che i 10 miliardi da reperire con la manovra prevista per quest'anno fossero a carico di Regioni ed enti locali, ha annunciato trionfalmente che per la prima volta non contiene “né tagli né aumento delle tasse, e chi dice il contrario dice il falso”. “E' finito il tempo in cui i politici chiedono sacrifici ai cittadini”, ha dichiarato il premier, assicurando che “non ci saranno tagli alle prestazioni ai cittadini”, e che la manovra non toccherà “la carne viva degli italiani, ma gli sprechi nella pubblica amministrazione”.
Ma, come sempre, il Berlusconi democristiano, che supera il suo maestro nell'arte della comunicazione, è molto abile nel confondere le carte e camuffare quella che in realtà è un'altra stangata antipopolare dietro un gioco di prestigio in cui nessuno ci rimette e tutti ci guadagnano. Promettendo la ripresa economica e l'occupazione pur restando all'interno dei rigidi parametri imposti dalla Ue, senza aumentare le tasse e senza tagliare i servizi e lo Stato sociale. E per soprammercato ritagliandosi un “tesoretto” da 1,6 miliardi da utilizzare come mancia elettorale per le prossime elezioni regionali di fine maggio: magari con un decreto giusto alla vigilia delle elezioni, per regalare un'elemosina di 20 euro al mese a quegli elettori che non avevano usufruito della mancia di 80 euro, come gli incapienti e i pensionati.

I numeri truccati di Renzi
In realtà il gioco di prestigio di Renzi sta tutto nel truccare le cifre sfruttando al massimo la congiuntura eccezionalmente favorevole creatasi con le iniezioni monetarie di Draghi, i bassi tassi di interesse dovuti al calo dello spread e il prezzo del petrolio sceso ai minimi storici, così da poter gonfiare le previsioni di crescita del Prodotto interno lordo (Pil) e spostare in avanti di un altro anno (2017) il pareggio di bilancio e la riduzione del debito al 2018. Con questo trucco cosmetico, coperto dal consenso benevolo di Bruxelles che ha tutto l'interesse a tenere in piedi il suo governo, si è creato un margine di “flessibilità” di bilancio per poter cancellare in parte la clausola di salvaguardia dell'aumento dell'Iva e delle accise sulla benzina che sarebbe dovuta scattare quest'anno. Questa valeva un punto percentuale di Pil, circa 16 miliardi, di cui 6 saranno coperti dalla maggiore “crescita” e dalla riduzione degli interessi sul debito, e gli altri 10 dalla Spending review , ossia dai “risparmi” da realizzare sulla spesa pubblica attraverso una sua “razionalizzazione” e la “lotta agli sprechi”. Mentre tra il 2015 e il 2018 si andrà avanti col processo di privatizzazioni, che vale un altro 1,8% di Pil spalmato nel triennio: a breve sarà ultimata la collocazione sul mercato di Enel (5%), Poste italiane (40%), FS (49%) ed Enav (49%), e tra il 2015 e il 2018 sarà attuata la vendita di Grandi stazioni. Tutto questo darebbe al premier il diritto di affermare che non ci sono aumenti di tasse e nemmeno tagli alle prestazioni ai cittadini.
Ma le cose non stanno affatto così. Secondo le previsioni macroeconomiche del Def, che abbiamo riportato nella tabella (1), il Pil nominale dovrebbe aumentare dello 0,7% quest'anno, del 1,4% nel 2016, del 1,5% nel 2017 e del 1,4 nel 2018. Mentre l'indebitamento netto in % sul Pil dovrebbe calare gradualmente dal 2,6 del 2015 fino al pareggio di bilancio nel 2018. Corrispondentemente dovrebbero calare anche il tasso di disoccupazione e il debito pubblico, che quest'anno è cresciuto ancora fino al livello del 132,5% del Pil, e che dovrebbe iniziare a calare dall'anno prossimo per attestarsi sul livello richiesto da Bruxelles nel 2018, al 123,4%. Da queste cifre si possono già trarre alcune conclusioni che non giustificano affatto l'ottimismo sparso a piene mani da Renzi.
Intanto per tutto quest'anno gli indicatori restano tutti negativi: La “ripresa” segna uno stentato 0,7% (appena uno 0,1 in più delle previsioni di ottobre), così come l'occupazione, che resta ferma al palo di oltre il 12% raggiunto l'anno scorso, e il debito pubblico, che è addirittura aumentato, e che proprio in questi giorni Bankitalia ha annunciato aver raggiunto il livello mostruoso di 2.169,2 miliardi. Tutto Il resto è solo una scommessa, e le speranze di ripresa dell'economia e del miglioramento dei conti sono rinviate al 2016, nella speranza che si avveri la previsione di un aumento del Pil del 1,4% che dovrebbe sostenere tutta la precaria impalcatura.

Ci sono anche le tasse
E' pure falso che il Def non contenga un aumento delle tasse. Estrapolando infatti i dati del Pil e delle entrate fiscali previste dal 2014 fino al 2019 e mettendoli in rapporto tra loro, come mostrato nella tabella (2), si vede chiaramente come non solo le entrate fiscali continueranno ad aumentare anno per anno in valore assoluto rispetto al livello raggiunto l'anno scorso (dai 9,5 miliardi del 2015 fino a ben 104,6 miliardi nel 2019, ma anche in percentuale sul Pil (calano un poco solo nel 2019). E soprattutto si vede che la pressione fiscale non diminuisce, ma anzi tende a restare a livelli intorno al 44% del Pil.
Quindi Renzi mente spudoratamente anche sul tema delle tasse, a meno di non dare credito ad un altro suo gioco di prestigio, che contabilizza come riduzione fiscale gli 80 euro di bonus elettorale elargito a 10 milioni di lavoratori per complessivi 10 miliardi e gli 8 miliardi di sconto contributivo regalati alle aziende col Jobs Act: ciò che gli permette di vantarsi di aver ridotto le tasse di 18 miliardi nel 2015. anzi 21, sommando anche i 3 miliardi della “clausola di salvaguardia ereditata e disattivata”. Soldi che a rigor di logica non sono riduzioni di tasse ma aumenti di spesa, reperiti tra l'altro tagliandoli da altri capitoli della spesa pubblica. Oltretutto, tra le misure di Spending review , come riportato nel documento consegnato ai commissari di Bruxelles, sono allo studio anche lo sfoltimento e la riduzione delle detrazioni fiscali per almeno 10 miliardi nel 2016 e altri 5 nel 2017, e anche questo è un aumento delle tasse mascherato, che per di più va a colpire selettivamente gli strati meno abbienti della popolazione.

Tagli alla sanità
E veniamo ai tagli alla spesa, che ci sono eccome, e valgono almeno 10 miliardi per il 2015, e saranno tutti a carico delle masse. Innanzi tutto tagliandoli dalla spesa sanitaria, inclusi i 2,352 miliardi del Fondo sanitario già decisi e accettati dalle Regioni con l'accordo del 26 febbraio scorso, a cui si aggiungono 285 milioni di finanziamenti in meno per l'edilizia ospedaliera. Si va dalla rinegoziazione dei contratti d'acquisto di beni e servizi (che saranno quindi peggiori e più scarsi), ai “risparmi” sui dispositivi medici e sulla cosiddetta “appropriatezza” (riduzione delle prestazioni considerate “inappropriate”); dalla riduzione dei ricoveri di riabilitazione, all'azzeramento dei ricoveri in strutture convenzionate con meno di 40 posti letto (destinate alla chiusura); dai “risparmi” sulla spesa del personale a seguito del “riordino della rete ospedaliera”, a quelli realizzati sulla farmaceutica territoriale ed ospedaliera e con la riforma della disciplina del prezzo dei medicinali, fino alla riduzione delle centrali operative del 118.
A tutto questo si aggiungerà un piano di riduzione e riaccorpamento delle Asl, che Renzi ha annunciato con lo slogan “meno Asl e più metropolitane”. E dire che la spesa per il Servizio sanitario nazionale in Italia è tra le più basse tra i paesi della Ue e dell'Ocse, sia pro-capite che in percentuale sul Pil, mentre al contrario la spesa per la sanità privata è, in proporzione alla pubblica, tra le più elevate, tra l'altro sostitutiva e non integrativa. E il prezzo dei farmaci e le retribuzioni del personale sono tra i più bassi d'Europa.

Lavoratori pubblici ed Enti locali
Altri tagli alla spesa colpiranno le pensioni di invalidità, con la revisione delle concessioni soprattutto per quanto riguarda il Sud, e la Pubblica amministrazione, innanzi tutto rinviando ancora il rinnovo dei contratti fino al 2019, ma anche attraverso la mobilità, col che saranno ben 10 gli anni di blocco dei contratti per i lavoratori pubblici. Quanto ai paventati nuovi tagli a Regioni ed enti locali, a cui sono già stati tagliati 30 miliardi negli ultimi 6 anni, ad un ritmo di 5 miliardi l'anno, e che non si erano ancora riavuti dalla botta del taglio di 5,5 miliardi decretati nell'ultima Legge di stabilità, Renzi ha promesso che non ci saranno. Ma si tratta di un bluff. In realtà il nuovo Berlusconi si è tenuto sul vago, aspettando che passino le elezioni, in attesa di sferrare il colpo quando a settembre si tratterà di varare la Legge di stabilità. Ma intanto ha ottenuto il via libera dell'Anci, presieduta dal sindaco di Torino Piero Fassino, e del presidente dell'Associazione delle Regioni, Sergio Chiamparino, del resto entrambi renziani sfegatati.
In ogni caso intanto si andrà avanti con altre misure meno dirette ma ugualmente micidiali, che per quanto riguarda le Regioni colpiscono come già visto la spesa sanitaria, e per quanto riguarda i Comuni prendono la forma del cosiddetto “efficientamento” delle spese, ossia dell'adeguamento al ribasso alle amministrazioni più “virtuose”, per cui già dal 2015 il 20% dei trasferimenti sarà assegnato non più in base alle spese precedenti, ma in base ai nuovi criteri di efficienza: nel mirino del nuovo commissario alla Spending review , il consigliere economico di Renzi Yoram Gutgeld, ci sono infatti i fondi per gli investimenti, i trasporti e la raccolta dei rifiuti.
A questo si aggiungono i tagli ai trasferimenti alle ex province, già tagliati del 20-30% con la Legge di stabilità 2015, e che si vedranno tagliare altri 2 miliardi nel 2016 e 3 miliardi nel 2017, con l'impossibilità di assicurare finanche l'agibilità e la sicurezza delle strade e delle scuole superiori. Per non parlare dei 20 mila dipendenti da ricollocare che non sanno ancora che fine faranno.

Grandi opere e Mezzogiorno
Qualche altro miliardo (7,1) è stato “risparmiato” (in realtà si tratta di spese differite) dimezzando il numero delle grandi opere, che passano da 51 a 25 considerate “strategiche”, concentrando gli investimenti in particolare su ferrovie e metropolitane. Le altre grandi opere escluse dall'elenco delle 25 prioritarie, tra cui l'autostrada Orte-Mestre (al centro dell'inchiesta di Firenze) e la Tirrenica, non sono state cancellate, ma seguiranno un iter ordinario. Tra quelle strategiche sono state incluse, manco a dirlo, la Tav Torino-Lione, il Mose, il Terzo valico, le due Pedemontane lombarda e veneta (care alla Lega), le metropolitane di Torino, Milano, Bologna e Roma “C”, e (naturalmente) la tranvia di Firenze. Tra i fondi tagliati ci sono tra l'altro anche 489 milioni che erano destinati all'edilizia scolastica.
Infine, ma non per ordine di importanza, si constata che anche in questo Def non c'è neanche un euro stanziato per ridurre l'annoso e vergognoso sottosviluppo che affligge il Meridione. Mentre al contrario i tagli alla spesa vanno a colpire indiscriminatamente tanto il Sud quanto il resto d'Italia. Anzi, proprio in coincidenza con l'uscita del Def, l'ultimo rapporto Svimez aveva certificato la scandalosa realtà di un Sud che a causa del suo sottosviluppo strutturale è colpito di fatto in maniera doppia rispetto al Centro-Nord dai tagli indiscriminati alla spesa pubblica. Se infatti nel 2013 i tagli hanno inciso per il 2,2% sul Pil nel Centro-Nord, nel Sud hanno inciso del doppio, il 4,5%. Stessa musica nel 2014 (2,8 contro 5,5) e nel 2015 (2,9 contro 6,2). E quel che è peggio è che tale penalizzazione del Sud aumenta ancor di più per quanto riguarda gli investimenti pubblici, essendo la spesa in conto capitale scesa del 58% al Sud nel decennio 2001 al 2012, a fronte di un calo del 10% nello stesso periodo al Centro-Nord.



15 aprile 2015