Referendum Fiom-Fim-Uilm sul contratto dei metalmeccanici
Vince il Sì ma il dissenso è forte
Il NO al 20% ma in molte grandi aziende ottiene la maggioranza dei votanti. Alto l'astensionismo

Le organizzazioni di categoria di Cgil, Cisl e Uil, stavolta unite, hanno ottenuto quello che volevano, il via libera all'accordo firmato il 25 novembre scorso. Un accordo che smantella il contratto nazionale, consente aumenti salariali solo in caso di maggiore produttività, lega i lavoratori all'azienda rendendoli clienti attraverso il dilagare del welfare aziendale. Un accordo che per la prima volta calcolerà eventuali aumenti non in previsione ma solo dopo l'uscita dei dati Istat. Di fatto instaura una scala mobile al contrario, un meccanismo automatico che non servirà più a mantenere il potere d'acquisto dei lavoratori bensì a salvaguardare i padroni che in questo modo potranno concedere aumenti solo al di sotto dell'inflazione.
Una vertenza durata più di un anno, con manifestazioni e scioperi generali, liquidata con un referendum svoltosi il 19, 20 e 21 dicembre a ridosso delle feste natalizie e con pochissime assemblee per illustrare l'intesa raggiunta. O meglio, i tre sindacati confederali si sono adoperati per far accettare l'accordo evitando il dibattito e preoccupandosi solo di ottenere la maggioranza dei voti. Cosa piuttosto scontata visto la perfetta sintonia tra i segretari Landini, Bentivogli e Palombella. Se pensiamo che solo la pattuglia de il Sindacato è un'altra cosa , una piccola minoranza della Fiom-Cgil, si era schierata ufficialmente per il NO al contratto quel 20% di lavoratori che ha sfiduciato l'intesa firmata da Cgil-Cisl-Uil e Federmeccanica assume un significato che va al di la dei numeri e dimostra che, quantomeno nella Fiom, non tutti accettano il nuovo modello contrattuale voluto da Confindustria.
Il gruppo dirigente della Fiom ha invece firmato la resa incondizionata a quel modello cogestionario, neocorporativo e aziendalista che accetta di farsi carico delle esigenze padronali abbandonando il conflitto e le rivendicazioni dei lavoratori. Un tipo di sindacato da sempre portato avanti dalla Cisl e che a livello padronale ha la sua espressione più aggressiva nel cosiddetto “modello Marchionne” instaurato per la prima volta a Pomigliano e contro cui la Fiom si era opposta lasciando Cisl e Uil da soli a firmare accordi separati ed entrando in conflitto anche con la Camusso e la segreteria confederale. La capitolazione di Landini è incondizionata e appaiono patetiche le sue affermazioni che narrano di un accordo in cui non c'è stato “alcun tipo di scambio improprio” e di un contratto che “allarga i diritti e struttura il percorso democratico nel contrattato nazionale”.
La decantata certificazione del contratto è avvenuta tramite un referendum dove le ragioni del NO non hanno trovato spazio salvo casi rari. Ma non era proprio la Fiom che rivendicava alla Cgil il diritto di illustrare tutte e due le posizioni (favorevole e contraria) nella vicenda della consultazione sul Testo Unico del 10 gennaio? Ma Landini ci ha oramai abituato a due pesi e due misure: chiede democrazia quando deve sbrigare le sue beghe personali, sfidare la Camusso o portare avanti i suoi progetti (vedi ex Coalizione Sociale) ma si dimostra intollerante con chi dissente dalle sue decisioni, vedi ad esempio la vicenda Bellavita e i delegati FCA sanzionati per essersi opposti agli straordinari obbligatori e all'aumento dei ritmi.
I risultati hanno dato l'80% ai Sì e il 20% al NO, i votanti sono stati circa il 63% perciò una buona fetta di lavoratori evidentemente ha espresso il suo dissenso anche con l'astensionismo. Oltretutto l'alto numero degli astenuti mette in dubbio il regolare svolgimento della consultazione poiché, guarda caso, nelle aziende più piccole, dove di norma c'è meno sindacalizzazione e organizzazione e nessuno a sostenere pubblicamente il NO, quasi ovunque c'è il 100% dei votanti e di voti per il Sì, luoghi di lavoro dove il verbale viene compilato dal funzionario sindacale senza alcun controllo. Il dissenso vince nelle grandi fabbriche, nelle aziende dove si sciopera, dove si trova l'ossatura portante degli operai metalmeccanici e anche dove risulta minoritario spesso il NO contende la vittoria al Sì.
Alla Same in provincia di Bergamo il NO ha superato il 90% come alla GKN di Firenze e alla Marcegaglia di Forlì, altissime percentuali all'Ilva di Genova, alla Fincantieri sempre di Genova, di Sestri e di Marghera, all'ABB di Milano, in tutto il gruppo Electrolux, alla Microelectronics di Catania, alla Piaggio e alla Continental in provincia di Pisa, vince il NO anche alla Finmeccanica di Milano, all'Avio di Pomigliano, alla Dalmine di Bergamo, alla DEMA di Napoli, alla Tyssenkrupp di Terni e in tantissime altre realtà metalmeccaniche del Paese, in particolare là dove il NO ha avuto la possibilità, attraverso la voce dei delegati, di poter spiegare le proprie ragioni. Pur con forti dubbi sulla regolarità del referendum il SI ha vinto ma quel 20% di NO, un lavoratore su 5, dimostrano che il dissenso c'è ed è molto forte, specie nelle fabbriche più grandi e sindacalizzate.
 
 

4 gennaio 2017