La Consulta boccia il referendum sull'art. 18
Via libera a quelli su voucher e appalti

L'11 gennaio la Corte Costituzionale si è espressa sull'ammissibilità dei tre referendum proposti dalla Cgil che ha raccolto per l'occasione 3,3 milioni di firme. Dei tre quesiti è stato bocciato quello che avrebbe permesso la reintroduzione dell'articolo 18 e la sua estensione alle ditte sopra i 5 dipendenti (prima il limite era sopra i 15), di fatto abolito dal Jobs Act che ha cancellato il reintegro in caso di licenziamento senza giusta causa, sostituendolo con un misero “risarcimento” che lascia senza tutele il lavoratore e concede mano libera ai padroni. La Consulta si è comunque spaccata, in 5 (compresa la relatrice) hanno votato per il si e otto per il no.
Via libera invece a quello che chiede l'abolizione dei voucher, i buoni lavoro che legalizzano il lavoro nero, introdotti limitatamente nel 2008 con il governo Prodi e liberalizzati da Monti nel 2012 mentre il Jobs Act ne ha ulteriormente ampliato il suo utilizzo, tanto che recentemente c'è stata una vera e propria esplosione del fenomeno: negli ultimi 4 anni l'utilizzo dei voucher è decuplicato. E' stato ammesso anche il terzo referendum che chiede l’abolizione dell’articolo 29 del decreto legislativo del 10 settembre 2003, cioè il ripristino della responsabilità dell’azienda appaltatrice, oltre a quella che prende l’appalto, in caso di violazioni subite dai lavoratori, norma che era stata cancellata dalla legge Biagi. Su entrambi c'è stata l'unanimità della Consulta.
La bocciatura da parte della Corte Costituzionale del referendum sull'articolo 18 è stata chiaramente una decisione politica. Per il governo sarebbero stati guai perché in caso di vittoria il sì avrebbe assestato un colpo pesante al Jobs Act che tra tutte è la “riforma” chiave del governo Renzi rispetto al quale Gentiloni agisce in continuità. È molto meglio che questo referendum non si faccia, anche per non intralciare il percorso che il presidente della Repubblica Mattarella, assieme alla maggioranza delle forze parlamentari, ha intrapreso: aspettare un'altra sentenza della Consulta, quella sull'Italicum, la legge elettorale di stampo fascista, per poi andare ad eventuali elezioni non prima di giugno.
Naturalmente i comunicati emessi dai giudici non trattano di questo tema e tentano di giustificare tale decisione con motivazioni strettamente tecniche. La principale è quella di un referendum “manipolativo” anziché abrogativo, ovvero di un quesito che andrebbe a modificare una legge e non abrogarla, unica modalità prevista dalla nostra Costituzione affinché possa essere ammessa una consultazione referendaria. Una forzatura bella e buona perché tutti i referendum, in ogni caso, abrogando una legge o parte di essa vanno a modificarla e non tiene conto dei precedenti. Nel 2003 un altro referendum sull'articolo 18 che chiedeva la sua estensione in ogni luogo di lavoro, quindi anche in aziende con un solo dipendente, fu ammesso e si tenne regolarmente nonostante non raggiunse il quorum.
Per rimanere sui temi tecnico-giuridici bisogna anche sottolineare come la Cgil si avvale della consulenza di affermati costituzionalisti e prima di formularlo avrebbe dovuto valutarlo meglio visto che a detta degli esperti in materia il quesito è molto lungo, articolato e si poteva mettere in conto che vi erano degli appigli per respingerlo. Su quotidiani e riviste alcuni giornalisti hanno balenato l'ipotesi che la Cgil stessa lo abbia fatto di proposito, abbia cioè scelto di farsi rigettare dalla Consulta proprio il tema principale evitando il referendum e al contempo salvare la faccia davanti ai propri iscritti e ai lavoratori.
Questo non possiamo saperlo ma non è da escludere a priori. Ad ogni modo la strategia della Cgil non è stata certo delle migliori visto che, tra le altre cose, non ha avuto neppure l'accortezza di tenersi alla larga dai voucher, metodo di pagamento ampiamente praticato in diverse strutture sindacali, specie dallo SPI, per rimborsare i pensionati che vi lavorano occasionalmente. Un utilizzo, seppur marginale, che poco si s'addice a chi vuole abolirli e subito strumentalizzato dal presidente dell’Inps Tito Boeri che in un’intervista a “Repubblica” ha sciorinato tutti i dati in suo possesso sul volume dei voucher usati dalla Cgil, dati evidentemente tenuti già pronti in un cassetto in attesa di essere tirati fuori al momento opportuno.
Ma l'aspetto principale riguarda le implicazioni e le valutazioni politiche di questa bocciatura. In questo modo una parte della Corte Costituzionale ha tolto al popolo la possibilità di esprimersi su questioni che riguardano il lavoro che nominalmente rappresenta un valore fondamentale della Costituzione come affermato nell'articolo uno: “l'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Evidentemente lo schiaffo avuto da Renzi con il referendum costituzionale bruciava ancora e si voluto evitare un'altra prova che potesse destabilizzare l'attuale assetto governativo e al tempo stesso attirarsi le critiche dell'Unione Europea imperialista sempre pronta a rimbrottare l'Italia per la sua scarsa stabilità politica.
Capofila di questa cordata è stato Giuliano Amato, il vecchio volpone craxiano ed ex presidente del Consiglio, adesso membro della Corte Costituzionale. L'ex esponente del PSIUP, poi PSI e ora PD, si è dato un gran d'affare per sostenere la bocciatura del referendum sull'articolo 18. Quasi tutti i giornali, dal Corriere della Sera , al Fatto Quotidiano , al Giornale di Berlusconi definiscono l'ex braccio destro di Craxi come principale “pontiere” tra i giudici costituzionali e il Quirinale, colui che ha avuto il ruolo del protagonista nell'evitare una grana di non poco conto al governo Gentiloni.
Detto questo non ci possiamo esimere dal criticare la Cgil, stavolta non tanto sulla strategia e su questioni di opportunità ma sul piano strettamente politico perché il sindacato della Camusso ha fatto affidamento principalmente sui referendum anziché sulla lotta di classe. Per imporre al governo la retromarcia sul Jobs Act era necessario portare subito in piazza i lavoratori e le masse popolari mentre quella della via legislativa, dei ricorsi in tribunale è una strada che spesso porta in un vicolo cieco, specie se è non è supportata da una forte mobilitazione sociale. Già ad inizio 2014 il Jobs Act era delineato, il decreto Poletti risale al 20 marzo di quell'anno, e già c'erano tutti i presupposti per il contrattacco alle misure governative.
Invece la Cgil ha perso tempo prezioso e al di là di critiche di circostanza è stata a guardare, confidando in una improbabile azione di rettifica del Jobs Act a livello parlamentare e dentro il partito di Renzi da parte della parolaia e inconcludente sinistra PD. In seguito ha lanciato il primo sciopero generale a dicembre 2014 quando oramai la legge delega (che conteneva i decreti attuativi) era già stata approvata da un ramo del parlamento, senza dare poi seguito alla mobilitazione nel 2015. Infine annunciava che il contrasto del Jobs Act sarebbe stato trasferito nella contrattazione ma non vi è stata traccia, anzi. Anche per i metalmeccanici, che hanno come segretario Landini, che si proclama strenuo difensore dell'articolo 18, è stato firmato uno dei peggiori accordi del settore privato.
La Camusso ha annunciato che la Cgil farà ricorso alla Corte europea ma all'orizzonte si profila l'annullamento di tutti i referendum, anche perché eliminato quello più significativo e trainante difficilmente gli altri due avrebbero la possibilità di raggiungere il quorum. Questo scenario è confermato anche dalle prime dichiarazioni del governo che ha annunciato un “contenimento” dell'utilizzo dei voucher, limitando di poco l'importo massimo annuale consentito e vietandolo in alcuni settori. Aggiustamenti che di fatto non cambierebbero la natura dei voucher, strumento al servizio del lavoro nero legalizzato, ma basterebbero alla Cgil per salvare la faccia e assegnarsi il merito di aver regolamentato l'uso dei buoni lavoro.
 

18 gennaio 2017