Intervenendo a Davos al Forum economico mondiale dei governanti imperialisti e dei supermiliardari
Il rinnegato Xi difende la ”globalizzazione” e si propone come leader mondiale pacifista

Il World Economic Forum 2017, l'annuale incontro dei governanti imperialisti e dei supermiliardari che controllano l'economia globale, si è svolto dal 17 al 20 gennaio in una Davos blindata e militarizzata come non mai per le misure antiterrorismo. Ma quest'anno il clima cupo di questa fiera delle vanità dell'un percento più ricco del pianeta che possiede più della metà dell'intera ricchezza mondiale, non era dovuto solo alla paura di attentati terroristici, ma anche alla particolare congiuntura internazionale, gravata da diverse incognite sospese sulla cosiddetta “globalizzazione”, e tra le quali primeggiano: il perdurare della crisi finanziaria mondiale che dura ormai da quasi un decennio; la stentata e squilibrata crescita economica internazionale; l'infuriare dei conflitti regionali che minano la stabilità internazionale; il cambio della guardia alla Casa Bianca, che con Trump - che pure ha inviato a Davos due suoi consiglieri economici - prefigura scenari neo protezionistici e di messa in discussione degli accordi economici internazionali su cui la "globalizzazione" si fonda; e la crisi economica e politica dell'Unione europea imperialista, messa a nudo anche dalla Brexit e dal rinfocolarsi dei nazionalismi e dall'avanzare dei movimenti cosiddetti populisti, contrari all'economia globalizzata.
É in questo scenario che le élite finanziarie, economiche e politiche che si riconoscono nella "globalizzazione" e da essa traggono e intendono continuare a trarre le loro laute fortune, hanno trovato un nuovo campione nel presidente cinese Xi Jinping, arrivato nella cittadina svizzera accompagnato dal plurimiliardario cinese Jack Ma, per presentarsi di fronte a loro come il più fermo difensore dell'economia capitalista globalizzata e come il più convinto fautore della prosperità e della pace mondiale. Tanto che il suo interminabile intervento è stato di gran lunga il più importante e applaudito evento di tutto il meeting.

Strenua difesa della “globalizzazione”
Egli ha subito esordito negando che le evidenti contraddizioni che accompagnano la globalizzazione, come i “frequenti conflitti regionali, le sfide globali come il terrorismo e i rifugiati, così come la povertà, la disoccupazione e le crescenti diseguaglianze di reddito”, siano dovute alla "globalizzazione" in quanto tale, quasi che essa da “grotta del tesoro di Alì Baba sia diventata il vaso di Pandora”. Per esempio “le onde di rifugiati provenienti dal Medio Oriente e Nord Africa”, ha sottolineato, non sono causati dalla globalizzazione economica”, ma dalle “guerre, i conflitti e le turbolenze regionali”, e la soluzione “sta nel fare la pace, promuovere la riconciliazione e il ripristino della stabilità”. Come se le guerre, i conflitti e le instabilità regionali non fossero dovuti a cause economiche, all'istinto di rapina e di sopraffazione del capitalismo giunto allo stadio dell'imperialismo.
Anche la crisi finanziaria internazionale, ha proseguito Xi, “non è un risultato inevitabile della globalizzazione economica; piuttosto, è la conseguenza di un eccessivo (sic) inseguimento del profitto da parte del capitale finanziario e un grave fallimento della regolamentazione finanziaria”. Come se si potesse pretendere una “misura” dall'insaziabile sete di guadagno del capitale finanziario e imporre regole razionali all'economia di mercato capitalista, che è per sua natura anarchica e che non riconosce altra legge che quella della spietata concorrenza e del massimo profitto.
Tutte nozioni elementari di marxismo, queste, che un rinnegato come lui, che si spaccia ancora per “comunista”, dovrebbe ben conoscere. E invece il capo della cricca socialimperialista di Pechino ha parlato alla platea di banchieri, miliardari e governanti imperialisti come un loro pari, come il più convinto e incallito fautore del capitalismo e del liberismo economico, tessendo le lodi della "globalizzazione" “che ha portato la crescita della produttività sociale”, del “progresso scientifico e tecnologico” (sì, ma per aumentare lo sfruttamento, il profitto, le disuguaglianze e l'inquinamento del pianeta, ndr), e che “ha alimentato la crescita globale e la circolazione agevolata delle merci e dei capitali”.

Xi campione del liberismo economico
“É vero che la globalizzazione economica ha creato nuovi problemi”, riconosce Xi citando appena di sfuggita, come se fossero semplici effetti collaterali facilmente rimediabili, le contraddizioni “tra la crescita e la distribuzione della ricchezza, tra capitale e lavoro, e tra efficienza ed equità” (quando invece esse rappresentano l'essenza, gli elementi strutturali dei quali si alimenta la "globalizzazione" imperialista, ndr). “Ma questa – continua egli imperterrito – non è una giustificazione per cancellarla ma piuttosto per adattarla e guidarla”. Per lui la "globalizzazione" “è una tendenza storica”, e “che vi piaccia o no essa è il grande oceano a cui non si può sfuggire. Qualsiasi tentativo di interrompere il flusso di capitali, tecnologie, prodotti, industrie, persone, e canalizzare le acque di nuovo in laghi e torrenti isolati, è semplicemente impossibile, è in contrasto col trend storico”. Sembra di sentir parlare uno tra i più incalliti economisti americani di scuola liberista alla Milton Friedman, e infatti passaggi come questo sono stati accolti da vere e proprie ovazioni del pubblico, rinfrancato dalla prospettiva di aver trovato chi gli può garantire la continuità dei suoi lucrosi affari.
Alle smanie protezionistiche del nuovo inquilino della Casa Bianca, rivolte espressamente contro la Cina, Xi Jimping risponde, parlando come un capo parla alle sue truppe, che “dobbiamo continuare a sviluppare il libero scambio e l'investimento globale, promuovere il commercio, gli investimenti e la liberalizzazione e dire no al protezionismo. Praticare il protezionismo – ha sottolineato con un'immagine eloquente ed un avvertimento a Trump – è come chiudere se stessi in una stanza buia, dove non entrano il vento e la pioggia, ma neanche l'aria e la luce. Nessuno emergerebbe vincitore da una guerra commerciale”.
Se gli Stati Uniti di Trump intendono mettersi di traverso alla "globalizzazione" mettendo dazi e ridiscutendo i trattati commerciali, e se l'Europa si sgretola e si defila sotto la spinta dei nazionalismi di ritorno, allora sarà la Cina, “la seconda potenza economica mondiale”, a prendere decisamente in mano la guida dell'economia mondiale globalizzata, intensificando il suo sviluppo economico capitalistico “sotto la guida del Partito comunista cinese” e “prendendo l'innovazione come fattore chiave”: questa è la sfida lanciata dal leader del socialimperialismo cinese all'imperialismo USA e a quello europeo.

Cina locomotiva del capitalismo mondiale
“Negli anni seguenti lo scoppio della crisi finanziaria, la Cina ha contribuito per oltre il 30 per cento alla crescita globale ogni anno”, e tutt'ora “nonostante un'economia globale stagnante, l'economia cinese è destinata a crescere del 6,7%”, ha ricordato Xi ai suoi interlocutori, proponendo il suo paese come la nuova locomotiva del capitalismo mondiale al posto della declinante superpotenza americana: “Le cifre parlano da sole”, ha rimarcato il presidente cinese snocciolando i numeri dei crescenti consumi e investimenti miliardari messi in cantiere, il cui fiore all'occhiello è la “one belt one road” (“una cintura e una strada”), ovvero la colossale “nuova via della seta” in costruzione per il congiungimento ferroviario commerciale della Cina all'Europa.
“Lo sviluppo della Cina è un'opportunità per il mondo. La Cina non ha solo beneficiato della globalizzazione economica, ma anche contribuito. La rapida crescita in Cina è stata un potente motore per la stabilità economica globale e l'espansione”, ha insistito il leader cinese, promettendo di “aprire le braccia alla gente e agli investimenti di altri paesi e di dare loro il benvenuto a bordo del treno espresso dello sviluppo della Cina”.
La Cina si propone quindi alla guida del treno della “globalizzazione”, ma anche della “pace” e della “stabilità” mondiali, con Xi che incita ad “affrontare le sfide del cambiamento climatico”, difendendo gli accordi di Parigi per la riduzione delle emissioni, proprio mentre Trump si mostra scettico e negazionista del riscaldamento globale. Che incita ad “aderire al multilateralismo e a sostenere l'autorità e l'efficacia delle istituzioni multilaterali”, e ad “onorare le promesse e rispettare le regole”, proprio mentre Trump tuona contro le “inutili” istituzioni internazionali e si proclama fautore solo di accordi ed alleanze bilaterali, a cominciare dalla Gran Bretagna di Theresa May, che ha appena fatto lo stesso disprezzando il dialogo con la UE e proclamando una nuova politica estera nazionalista e “a tutto campo” del Regno Unito.
Xi che fa mostra di moderazione e responsabilità proclamando che la Cina non ha intenzione di svalutare la sua moneta e lanciare una guerra valutaria (cosa di cui Trump la accusa), ma si propone di aprire zone di libero scambio e aprire negoziati di partenariato regionale proprio a cominciare dal Pacifico, la regione più contesa attualmente con USA e Giappone. E che dà a tutti appuntamento il prossimo maggio al Forum Belt di Pechino, che mira a “discutere i modi per rafforzare la cooperazione, la costruzione di piattaforme di cooperazione e condividerne i risultati”.

Il plauso del club finanziario internazionale
Un programma ostentatamente “pacifista” e “responsabile”, insomma, e per questo salutato entusiasticamente dal Forum economico mondiale di Davos, con il suo fondatore Klaus Schwab che ha definito l'intervento del presidente cinese un “discorso molto, molto importante, che arriva in un momento storico”. Un discorso, definito dal principale quotidiano finanziario della City londinese, Financial Times , “dell'unico adulto responsabile che sembra essere rimasto in sala”. Del resto è logico che chi finora ha creduto e prosperato sulla "globalizzazione" punti sulla Cina, viste le proclamate intenzioni di Trump di rivedere completamente la politica estera ed economica degli USA, che riflettono implicitamente una presa d'atto del declino americano nei confronti dell'ascesa del socialimperialismo cinese, inevitabile conseguenza della legge dello sviluppo disuguale del capitalismo.
Ed è altrettanto logico che la cricca socialfascista e socialimperialista di Pechino punti tutte le sue carte sulla globalizzazione, cioè sull'abbattimento di tutte le barriere commerciali, classica rivendicazione di tutte le potenze in ascesa, e sulla quale fino ad oggi la superpotenza cinese ha fondato la sua irresistibile crescita economica, fino a sfidare oggi direttamente la superpotenza americana per l'egemonia mondiale.

25 gennaio 2017