Con un discorso mussoliniano all'insediamento alla Casa Bianca
Trump instaura la dittatura fascista negli Stati Uniti
"Domineremo il mondo"."Distruggere l'Is è la nostra priorità"
Gli antifascisti e antirazzisti protestano in piazza. 600mila donne marciano a Washington

Donald Trump il 20 gennaio ha giurato a Washington, con una mano sulla Bibbia di Abramo Lincoln, ed è diventato il 45esimo presidente degli Stati Uniti. Della cerimonia di insediamento, compreso il primo discorso del neo presidente, sono stati spesi fiumi di parole che per la maggior parte hanno sottolineato quell'immagine di tribuno demagogico, dell'outsider estraneo alle lobby e alle dinastie politiche che lo stesso Trump si è cucito addosso nella campagna elettorale. Come se nella sua lunga carriera di imprenditore miliardario non avesse mai fatto ricorso proprio a quell'establishment, ora è messo alla gogna ma che negli ultimi due decenni per ben 6 volte lo ha salvato dalla bancarotta. Solo qualche commento ha colto la questione centrale della cerimonia di insediamento del miliardario fascista, razzista, xenofobo e misogino sponsorizzato dai circoli economici e finanziari della destra Usa: l'instaurazione della dittatura fascista negli Stati Uniti per ricompattare il paese e rilanciarlo nella sfida per l'egemonia mondiale una volta preso atto che gli Usa non sono più la superpotenza egemone e incontrastata nel mondo. D'altra parte il passo da populismo a fascismo è molto più corto di quanto si pensi e Trump lo ha confermato appieno nel discorso di insediamento alla Casa Bianca.
Dopo il ringraziamento di rito al predecessore Obama, Trump ha messo in evidenza che “questa cerimonia ha un significato molto importante. Non è solo il trasferimento da un'amministrazione a un'altra. Stiamo ridonando il potere al popolo. Per troppo tempo un gruppo ristretto di persone ha gestito il governo. La prosperità era solo per i politici, non per le imprese. L'establishment ha protetto se stesso, non le imprese.... Da ora tutto cambia. È il vostro momento”. E ricordava che “quello che importa non è quale partito controlli il governo ma se il popolo controlli il governo”. Ovvero che il governo, di qualunque colore sia, continui a servire gli interessi dei capitalisti e delle loro aziende.
Il suo governo, assicurava Trump, lo farà in maniera più efficace che quelli precedenti: “per decenni abbiamo chiuso alle nostre imprese e non abbiamo difeso i nostri confini, spendendo all'estero miliardi di dollari per difendere gli altri mentre le nostre infrastrutture crollavano nella decadenza generale. Mentre la fiducia nel nostro Paese spariva”. Ma “questo è il passato. Ora guardiamo al futuro”. E lo slogan per il futuro è “l'America prima di tutto”.
La “nuova visione che governerà gli Usa” farà in modo che “dovremo difendere gli interessi degli Usa dalla razzia di altre imprese” così che “l'America riprenderà a vincere come ha mai fatto prima... torneremo a sognare... Porteremo le persone fuori dalla disoccupazione. Con due regole semplici: assumi americani, compra prodotti americani”, con il ritorno al protezionismo a difesa del mercato interno americano invaso in particolare dai prodotti cinesi. Così i lavoratori dovrebbero, a suo dire, dimenticare la lotta di classe e allearsi coi padroni per meglio sostenere la competizione internazionale.
Difesa delle merci americane, difesa dei confini americani, protezionismo e patriottismo viaggiavano in coppia nel discorso di Trump. Diversi i temi della politica estera solo sfiorati da Trump che comunque non dimenticava uno dei suoi pallini: “sconfiggere l’Isis e i gruppi di terrorismo islamico sarà la nostra priorità”. “Vogliamo rafforzare le alleanze e porci contro il terrorismo islamico, per sradicarlo dalla faccia della terra”, ripeteva. Assicurando che "al di là della politica, ci sarà una fedeltà totale al nostro Paese. E quando si apre il cuore al patrottismo non c'è spazio per il terrorismo... Così l'America è inarrestabile. Non c'è paura, saremo sempre protetti dalle forze dell'ordine di questo Paese. E, più importante, da Dio”.
Chiudeva infine il discorso con “renderemo questo Paese prospero, sicuro, grande, grandioso” che tornerà a dominare il mondo e la consueta formulazione “Dio benedica voi e gli Stati Uniti d'America”. Dio e patria, un binomio fascista in sintonia col discorso mussoliniano. D'altra parte già in passato Trump aveva manifestato simpatie per Benito Mussolini, rilanciando su Twitter nel febbraio scorso un motto fascista e affermare “sapevo di citare Mussolini” ma era una citazione interessante “che differenza fa?”.
Eugenio Scalfari nell'editoriale de “la Repubblica” del 22 gennaio arriva seppur in modo involuto fino a accostare Trump a Mussolini. “Trump si è di fatto definito un populista. A guardar bene Trump - scriveva Scalfari - coltiva una tendenza di tipo dittatoriale: un capo e l'America, nessun partito, uno staff personale composto da uomini di finanza e da alcuni militari che hanno il solo pregio di un'amicizia personale con lui... La dittatura populista non pesa. Noi ne abbiamo un esempio relativamente recente con Mussolini. Neanche lui aveva un partito. Aveva origini socialiste ma rivoluzionarie. Poi, nello spazio di pochi anni diventò dittatoriale e della dittatura fece un regime”.
Un uomo molto attento alle cose terrene come papa Francesco è stato più chiaro e diretto: dai populismi nacque Hitler. In una lunga intervista al quotidiano spagnolo el País spiegava che “le crisi provocano delle paure, delle allerte. Per me, l'esempio più tipico dei populismi europei è quello tedesco del '33. Dopo Hindenburg, la crisi del 30, la Germania è in frantumi, cerca di rialzarsi, cerca la sua identità, cerca un leader, qualcuno che gli ridia la sua identità e c'è un ragazzetto di nome Adolf Hitler che dice 'io posso, io posso'. E tutta la Germania vota Hitler. Hitler non rubò il potere, fu votato dal suo popolo, e poi distrusse il suo popolo. Questo è il pericolo”.
Ricordiamo che le dittature fasciste in Germania e Italia furono quelle che tra l'altro portarono dalla grande crisi economica del 1929 alla seconda guerra mondiale e al tentativo di ridefinire a vantaggio dell'asse nazifascista gli equilibri del potere mondiale allora in mano alle potenze coloniali europee inglese e francese e al nascente imperialismo americano.
Si commenta da sola la posizione espressa da Beppe Grillo per il M5S che invoca l'uomo forte: “Trump sembra moderato, i media hanno deformato il suo punto di vista (!!!!)”.
Nel “sogno americano” rilanciato da Trump protezionismo e demagogia di tipo mussoliniano non saranno solo slogan ma trovano applicazione nella politica reazionaria e fascista subito inaugurata dalla nuova amministrazione Usa.
Il 20 gennaio, il primo atto nello Studio Ovale del nuovo presidente è stata la firma del decreto esecutivo diretto alle agenzie governative per ridurre il peso dell'Obamacare, per dimostrare che neppure la quasi insignificante e fallimentare modifica al sistema sanitario nazionale tutto centrato sul privato voluta da Barack Obama era ammissibile, e per cancellare ogni diritto di aborto.
I primi atti formali dell'amministrazione Trump sono stati il 23 gennaio quando Trump dopo aver incontrato alcuni capi dell'industria americana, capi di aziende quali Dell, Johnson&Johnson, Ford e SpaceX, ha firmato l'ordine esecutivo che sanciva il ritiro degli Stati Uniti dal Tpp, il Trans Pacific Partnership; quell'accordo di libero scambio con 11 paesi affacciati sul Pacifico stipulato da Obama ma non ancora ratificato dal parlamento. Trump lo ha definito “pericoloso per l'industria americana”, meglio degli accordi multilaterali sarebbero quelli bilaterali che gli Usa possono stipulare da una posizione di maggior forza. Di seguito ha firmato l'ordine che congela assunzioni e stipendi del governo federale “fatta eccezione per i militari” e quello per reintrodurre il divieto di finanziare con fondi federali le Organizzazioni non governative internazionali che prestano assistenza medica e praticano l'interruzione della gravidanza.
Bene hanno fatto gli antifascisti e antirazzisti che hanno protestato in piazza, negli Usa e in tutto il mondo il 21 gennaio. La manifestazione principale si è svolta in una Washington paralizzata dal flusso di manifestanti, dove in almeno 600 mila hanno dato vita alla “Women’s March”, la marcia della donne nata dall’idea di un gruppo di donne hawaiane lanciata due giorni dopo l’elezione di Trump che in poco tempo ha mobilitato tantissime associazioni americane che si occupano di diritti civili. “La resistenza comincia”, hanno gridato dal palco di Washington.
Cartelli e slogan contro le discriminazioni di genere, contro la repressione e il militarismo hanno accomunato i manifestanti nelle piazze di tutto il mondo da quelle europee di Parigi, Berlino, Roma, Amsterdam, Ginevra, Praga e Lisbona a quelle in Australia e Nuova Zelanda; in quelle africane da Accra in Ghana a Nairobi in Kenya, e in America latina fra le quali quelle in Argentina dove la protesta contro Trump si è unita a quella contro il miliardario presidente Macri che governa a colpi di privatizzazioni e licenziamenti.

25 gennaio 2017