Trump mette al bando gli immigrati
Onu e Ue lo criticano
Gli antirazzisti ancora in piazza

Nel commentare l'insediamento del nuovo presidente americano Donald Trump alla Casa Bianca il 20 gennaio scorso denunciavamo la sua politica che di fatto si presentava come l'instaurazione della dittatura fascista negli Stati Uniti; una misura ritenuta necessaria dalla destra americana per ricompattare il paese e rilanciarlo nella sfida per l'egemonia mondiale, una volta preso atto che gli Usa non sono più la superpotenza egemone e incontrastata nel mondo. I primi atti della nuova amministrazione Usa lo confermano.
Il 25 gennaio Trump firmava il decreto per la costruzione del muro al confine con il Messico, o meglio per il completamento della costruzione del muro avviata nel 1994 dall'allora presidente Bill Clinton e proseguita dal repubblicano George Bush con la legge Secure Fence Act del 2006 votata tra gli altri anche dagli allora senatori Barack Obama Hillary Clinton. Tre giorni dopo, il 28 gennaio, Trump firmava un ordine esecutivo, presentato come uno strumento per impedire l'ingresso di terroristi islamici negli Stati Uniti, che bloccava la concessione dei visti di ingresso per la popolazione proveniente da Iran, Iraq, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen. O meglio per la popolazione di fede musulmana dato che una clausola esplicita garantiva la corsia preferenziale di ingresso per “profughi cristiani”. L'ordine esecutivo di Trump è di fatto una moderna legge razziale che conferma il carattere fascista dell'amministrazione Usa.
A motivazione del provvedimento Trump citava gli attentati teroristici dell'11 settembre 2001 sostenendo che allora “la politica del dipartimento di Stato impedì ai funzionari consolari di esaminare adeguatamente le richieste di visto di alcuni dei 19 stranieri che finirono con l'uccidere circa 3 mila americani”. Se si considera che gli autori degli attentati provenivano dall'Arabia Saudita, dagli Emirati Arabi Uniti, dall'Egitto e dal Libano, ovvero da Paesi non inseriti nel decreto, risalta evidente la pretestuosità dell'atto. A Trump interessa confermare che l'imperialismo americano è di nuovo pronto a menare le mani come in passato.
Le scene di passeggeri provenienti dai 7 paesi bloccati il 28 gennaio negli aeroporti americani facevano il giro del mondo assieme a quelle delle immediate manifestazioni di protesta dentro e fuori gli scali aerei e per le strade di molte città americane. Un corteo di diverse migliaia di dimostranti sfilava fin davanti la Casa Bianca per gridare No al bando, altre migliaia di manifestanti si riunivano a Battery Park, la punta sud di Manhattan sulla baia di New York, di fronte alla Statua della libertà gridando “No Ban No Wall”, no al bando no al muro. Le manifestazioni contro la legge razzista si moltiplicavano in molte città in tutto il mondo.
La protesta continuava nei giorni successivi con gli antirazzisti in piazza negli Usa ancora il 4 febbraio, financo a Mar-a-Lago in Florida dove si trovava Trump per il fine settimana. Sulla spinta delle manifestazioni si muoveva anche la magistratura con i procuratori generali di 15 stati e della capitale che con una dichiarazione congiunta condannano come incostituzionale il provvedimento di Trump contro i viaggiatori provenienti da sette Paesi a maggioranza islamica. Una giudice del tribunale del distretto federale di Brooklyn decretava che i rifugiati o altre persone interessate dalla misura e che sono arrivati negli aeroporti statunitensi non potevano essere espulsi.
Contro la legge razzista si pronunciava l’Alto commissario Onu per i diritti umani, il giordano Zeid Ràad al Husseini, che definiva il bando “illegale e meschino” e “la discriminazione basata sulla nazionalità contraria ai diritti umani”. Anche l'Unione europea criticava il bando di Trump, financo quella del ritrovato fedelissimo alleato del Regno Unito. Nessun commento invece da paesi musulmani quali Arabia Saudita, Emirati arabi, Giordania, Egitto e Turchia. Tutti zitti, alleati allineati e coperti. Come significativa era la posizione della Russia, con un portavoce di Putin che chiudeva la questione con un secco “ritengo che non sia un affare nostro”.

8 febbraio 2017