Il “reddito di inclusione” è un'elemosina: non risolve la questione della povertà
Investe solo il 30% dei poveri assoluti e impone vincoli esosi ai “beneficiari”
Occorrono il lavoro e il welfare universale, non l'assistenzialismo

È stato approvato a larga maggioranza dal Senato il “reddito d'inclusione” (Rei). Una legge che viene propagandata dal governo Gentiloni come una grande svolta per il nostro Paese dove, per la prima volta, vengono previste delle prestazioni in grado di svolgere un efficace contrasto alla povertà . Il ministro del lavoro Poletti lo ha perfino definito “un passaggio storico”. Anche se approvato definitivamente da una delle due Camere si tratta dell'ennesima legge delega, per cui saranno necessari i successivi decreti attuativi affinché entri effettivamente in vigore.
Una legge eredità del passato governo Renzi che a sua volta aveva riesumato un vecchio disegno del governo Letta, il Sia (sostegno inclusione attiva). Entrambe figlie della madre di tutti gli annunciati interventi di “contrasto alla povertà”: la tanto vituperata (giustamente) elemosina della social card del ministro Tremonti durante il governo Berlusconi, allora etichettata come “tessera della povertà” e rivolta agli ultra 65enni.
Misure che non contrasteranno un bel nulla ed incapaci di affrontare il dilagare della povertà in Italia. Le ultime stime rese note dall'Istat a dicembre parlano chiaro: oltre uno su quattro, il 28,7% delle persone residenti in Italia, nel 2015 è "a rischio di povertà o esclusione sociale", ancora in aumento rispetto al 2014 (era al 28,3%).Il reddito familiare in termini reali registra una caduta in atto dal 2009, comportando una riduzione complessiva di circa il 12% del potere d'acquisto delle famiglie. Nel Mezzogiorno la metà della popolazione è a rischio povertà o esclusione.
Ma forse il dato più impressionante è la percentuale di chi vive in “condizione di povertà assoluta”, ossia “prive delle risorse economiche necessarie per conseguire uno standard di vita minimamente accettabile”, secondo la definizione dell'Istat. Negli ultimi dieci anni, cioè nel periodo in cui si è manifestata l'ultima, gravissima crisi economica capitalistica, questa condizione riguardava il 3,1% della popolazione nel 2007 mentre alla fine del 2015 si era arrivati, dopo una continua escalation, al 7,6%. Percentuali che equivalgono a più di 4,6 milioni di poveri “assoluti”, cioè che hanno difficoltà anche a procurarsi il cibo.
Di fronte a questi dati appaiono offensive le misure messe in campo dal governo, a partire dalla cifre. La legge di Stabilità ha stanziato 1 miliardo e 150 milioni per il primo anno di finanziamento del Rei. Secondo i ministri di Gentiloni a fine 2017 si possono raggiungere con altri risparmi e utilizzo di fondi europei quasi 2 miliardi di euro. Si tratta di una quota molto limitata che, calcolando le pur misere cifre stanziate per ogni famiglia, raggiungerà sì e no il 30% dei poveri.
A questo 30%, circa un milione e mezzo di persone, andrà comunque un'elemosina. In base a vari parametri si potrà raggiungere la cifra di 400 euro mensili, 480 solo nelle situazioni più drammatiche. In teoria si prevedono anche oltre mille euro a famiglia ma nella pratica, visto i soldi stanziati, le cifre e la platea saranno molto ristretti. In sostanza 80 euro a persona al mese ai nuclei con almeno un minorenne, un disabile o una donna in stato di gravidanza. Ma non si tratta solo di cifre irrisorie, i punti critici e inaccettabili del Rei sono molti, a partire dagli esosi vincoli imposti per poterlo percepire.
L’ISEE, che misura la ricchezza non solo in base al reddito e al patrimonio del singolo individuo, ma di tutto il nucleo famigliare e include la casa e i risparmi deve essere sotto i 3000 euro annui, le famiglie richiedenti non dovranno già usufruire di misure previdenziali superiori a 600 euro mensili e i loro membri non dovranno essere titolari di Naspi (assegno di disoccupazione), Asdi (il sussidio ai disoccupati al termine del Naspi) o Social Card disoccupati. Tutti i membri del nucleo familiare dovranno avere auto e moto piccole e vecchie mentre per gli stranieri ci sarà un vincolo di alcuni anni di residenza (non ancora stabiliti).
A questo si deve aggiungere il “percorso personalizzato”, ovvero la presa in carico del capofamiglia da parte dei centri per l'impiego, servizi sociali, enti locali, che “vigileranno” e controlleranno se l'interessato obbedisce e rispetta i vincoli che gli sono stati posti. Un percorso dove anziché raggiungere un lavoro dignitoso, si resta ingabbiati in una trappola: per poter percepire questo misero contributo, si dovrà accettare qualsiasi tipo di lavoro, anche il più precario e sottopagato, compreso quello nelle pubbliche amministrazioni in una nuova riedizione dei Lavori socialmente utili (Lsu).
Il varo di questa legge ha scatenato molte reazioni, tra cui quelle moderatamente soddisfatte dell' “Alleanza contro la povertà”, il cartello nato dall'unione di soggetti provenienti dall'area cattolica a cui aderiscono anche Cgil-Cisl e Uil, ma allo stesso tempo non sono mancate forti critiche verso questo palliativo che non sortirà nessun beneficio concreto sui milioni di poveri residenti in Italia. Contemporaneamente sono tornati all'attacco i sostenitori del reddito di cittadinanza, presentato come la panacea di tutti i mali e unica misura capace di contrastare la povertà.
Su questo i marxisti-leninisti hanno più volte espresso il loro parere contrario, rivendicando invece il lavoro, stabile e tutelato per tutti. Sappiamo benissimo che nel capitalismo non ci potrà mai essere la piena occupazione, solo un'economia socialista la può assicurare. Bisogna però essere altrettanto onesti e ancor di più consapevoli che questo sistema economico non potrà mai assicurare un reddito dignitoso a tutti, compreso a chi non ha un lavoro, figuriamoci, non lo assicura nemmeno a chi ha un'occupazione.
Partendo da queste considerazioni preferiamo lottare per avere più lavoro e diritti, sviluppare la coscienza di classe tra i lavoratori, rafforzare tra le masse popolari la necessità di lottare contro le istituzioni borghesi anziché pretendere l'elemosina di Stato. Ci sembra fuorviante la richiesta di un “minimo vitale” per sopravvivere, un ripiegamento che serve più a evitare la ribellione degli affamati e degli oppressi che ad ottenere migliori condizioni di vita alle masse popolari più in difficoltà. Un tipo di welfare che non contrasta ma si sposa benissimo con il liberismo più sfrenato, con le liberalizzazioni e le privatizzazioni, a partire dal servizio sanitario e dalla previdenza pubbliche, oramai da tempo in via di smantellamento.
Non va indebolita ma rafforzata la lotta per il lavoro a tutti stabile e a salario intero a tempo pieno e sindacalmente tutelato, a partire dall'abrogazione del Jobs Act, dalla stabilizzazione di tutti i precari, lo sviluppo del Mezzogiorno almeno al pari del Centro-Nord, piani straordinari per l'occupazione per i giovani, le donne, disabili e disoccupati di lunga data, un servizio sanitario pubblico e gratuito in tutto il territorio nazionale, una scuola e una università pubbliche, gratuite e governate dalle studentesse e dagli studenti, un sistema sanitario e previdenziale nazionale pubblico, universale e unificato.
E si potrebbe continuare rivendicando pensioni dignitose da lavoro, sociali e d'invalidità, salari adeguati a una vita degna, forte alleggerimento delle tasse ai lavoratori dipendenti alle pensioni più basse e aumento progressivo delle tasse ai ceti ricchi e ai grossi possessori delle rendite patrimoniali e finanziarie. Inoltre la lotta all'evasione fiscale e contributiva, il contrasto al lavoro nero. Tutto ciò non esclude nuovi strumenti di sostegno al reddito ma tali strumenti non devono sostituire o surrogare i diritti ma semplicemente integrarli.

22 marzo 2017