Raid di Erdogan su Rojava e Iraq
L'obiettivo della dittatura fascista turca è quello di creare una zona cuscinetto al confine tra la Turchia e la Siria ripulita dai curdi

L’aviazione di Ankara ha compiuto tra il 24 e il 25 aprile almeno 26 raid su Rojava, nel nord della Siria, e su Sinjar nel nord-ovest dell’Iraq causando una trentina di morti. Bersaglio dei caccia turchi sono state postazioni delle Unità di Difesa del Popolo curde (YPG) a al-Malikiyah e sul monte Qaraqox nella provincia di Hasakah, estremo oriente siriano, e una stazione del canale radio Denge a Derik. In Iraq sono state centrate le basi curde delle YBS, affiliate al Pkk, ma anche quelle degli alleati curdi peshmerga.
Da Diyarbakir i partiti turchi di opposizione Hdp e Dbp hanno denunciato l'aggressione da parte del fascista Erdogan e organizzato proteste mentre migliaia di manifestanti si riunivano a Qaraqox.
I responsabili militari curdi siriani accusavano il partito dei curdi iracheni Kdp del presidente Barzani di aver fornito a Ankara le coordinate dei bersagli nemici. Il ministero dei Peshmerga di Erbil in un comunicato definiva “doloroso e inaccettabile” il raid ma ne addossava la colpa al Pkk, chiedendogli di ritirarsi da Sinjar, territorio strategico in Iraq tra Mosul e il confine siriano; in altre parole dava ragione all'alleato turco.
La portavoce delle Unità di Protezione delle Donne (YPJ), cui appartenevano diverse vittime del raid turco affermava il 27 aprile che le forze del gruppo si sarebbero ritirate dall’attacco su Raqqa contro lo Stato Islamico se gli Stati Uniti non avessero mosso ciglio. “Fino ad ora siamo stati parte di una lotta comune con la coalizione contro il terrore di ISIS (IS). Siamo ancora coinvolte in questa lotta. Ma la nostra gente si aspetta una risposta da noi sul perchè la coalizione non sta mostrando alla Turchia una reazione concreta. Se la coalizione non mostra una reazione concreta allora ritireremo le nostre forze da Raqqa. Noi non siamo un bastone con cui colpire i loro nemici”, affermava la portavoce denunciando che anche la Nato, di cui la Turchia fa parte, non aveva aperto bocca, ovvero aveva avallato il raid.
Il segretario di Stato Usa Rex Tillerson telefonava al ministro degli Esteri turco Cavusoglu per esprimere “forte preoccupazione” per i bombardamenti contro le YPG, almentando che “queste azioni danneggiano gli sforzi contro l’Isis”. Una debole reazione che di fatto appoggiava il raid turco contro i suoi alleati curdi. E Erdogan ripeteva a fine aprile i raid nella zona irachena di Zap, sulla città siriana di Dirbesiye e nella zona curda di Afrin nel nord della Siria col chiaro obiettivo di “ripulire” dalla presenza delle forze curde un corridoio lungo i confini con Siria e Iraq. Una operazione iniziata due anni fa contro la zona montagnosa irachena di Qandil, divenuta base delle forze del Pkk, e a Sinjar grazie alla complicità dei curdi iracheni di Barzani; più difficile la realizzazione del progetto turco della fascia cuscinetto nel nord della Siria, nella Rojava dove le formazioni dei curdi siriani si sono rafforzate grazie al sostegno degli Usa. Sostegno che Trump ha confermato, per ora, in nome della guerra all'IS.
 
 

3 maggio 2017