No al numero chiuso
Università pubblica, gratuita e governata dalle studentesse e dagli studenti

A partire dal prossimo anno accademico, per le facoltà umanistiche dell'Università Statale di Milano verrà attivato il numero chiuso.
La decisione è stata presa il 23 maggio dal Senato accademico con 18 voti a favore, 11 contrari e 6 astenuti, a seguito di un colpo di mano del rettore Gianluca Vago che ha ignorato totalmente la forte protesta messa in campo dagli studenti, cui si sono uniti anche docenti e dottorandi, tale che la seduta, inizialmente prevista per il 16 maggio, era stata rimandata proprio perché gli studenti a centinaia avevano occupato l'aula dove si sarebbe dovuta tenere. Persino i singoli dipartimenti dell'ateneo avevano espresso pareri contrastanti, ma Vago con piglio autoritario ha voluto forzare i tempi e arrivare rapidamente al voto, costasse quel che costasse. Ad aprile, peraltro, era stato imposto anche a Lingue (sempre alla Statale), senza consultare i rappresentanti degli studenti.
È un fatto grave che impone l'attenzione di chiunque si oppone all'università chiusa, classista, aziendalizzata e incatenata al mercato capitalista, anche perché potrebbe fare da spinta per l'introduzione del numero chiuso in altre università italiane (è già accaduto a Firenze), dove già se ne parla.

Logica perversa per scelta perversa
La “qualità” e la lotta contro “abbandono” e “fuori corso” è il mantra che viene sempre evocato da chi sostiene il numero chiuso e l'ha usato anche Vago per giustificare la nuova norma che porterà ad un taglio di 600 immatricolati.
È chiaro che alla base di tutto c'è la volontà del governo, in generale del grande capitale, del baronato, della destra e di buona parte della “sinistra” di regime di restringere sempre più gli accessi all'università e trasformarla in un istituto per pochi eletti che dovranno andare a formare la “crème” dello Stato borghese, formati su saperi sempre più nozionistici e standardizzati (fin dalla scuola, vedi gli Invalsi). Non è un caso che il provvedimento abbia incassato l'appoggio entusiasta, per esempio, del “Foglio”, che gli ha dedicato persino un “Elogio del numero chiuso alla Statale contro gli umanisti parassiti”. La stessa ministra Valeria Fedeli alza le mani, si para dietro un “si dovrebbe ragionare con la capacità di allargare e non di chiudere”, ma di fatto strizza l'occhio a Vago e soci dicendo che è affar loro perché “hanno autonomia”.
Ma ci sono anche motivazioni più terra terra e, dal punto di vista procedurale, ancora più perverse. Spicca il decreto ministeriale del 12 dicembre 2016 che impone un rapporto di 9 docenti/200 studenti affinché un corso di laurea di area umanistica possa essere attivato. Il numero chiuso tagliando sugli studenti sgombra il campo dal “disturbo” di dover assumere nuovi docenti, il che implicherebbe aumentare i fondi universitari.
C'è poi l'aperto interesse di Vago a trasferire la Statale nell'ex area Expo e la riduzione degli studenti potrebbe andare in questa direzione, visto che sarà necessario un notevole indebitamento.

La posta in gioco
Si parla di risparmio, ma l'Italia è tutt'altro che generosa nella sua spesa universitaria. Il nostro Paese è all'ultimo posto fra i membri dell'Ue per percentuale di spesa dedicata all'istruzione, penultima per numero di laureati e fanalino di coda anche per la magra percentuale, 53%, dei neolaureati che trova lavoro a 3 anni dal conseguimento del titolo.
Di contro, siamo il Paese europeo con le tasse universitarie più alte (dopo Olanda e Regno Unito), cresciute di circa il 50% nel decennio della crisi, con aumenti anche del caro libri e dei trasporti, a fronte dei pesnati tagli al diritto allo studio.
Il vero obiettivo del numero chiuso quindi è legittimare l'ulteriore taglio delle risorse, ormai non più una misura congiunturale ma vera e propria “politica” governativa. Anziché rifinanziare il diritto allo studio e mettere in campo un serio piano di assunzioni e superamento del precariato accademico, il governo preferisce tagliare direttamente gli studenti.
A ben guardare, ciò corrisponde alle attuali esigenze del grande capitale imprenditoriale, che condiziona e di fatto dirige le politiche nazionali. Se ieri la necessità di un buon numero di tecnici e quadri qualificati, da una parte, e la spinta alla democratizzazione e all'apertura dell'università impressa dal Sessantotto, dall'altra, hanno favorito l'accesso delle masse all'istruzione universitaria, oggi non è più così. Oggi invece l'abbattimento dei costi determinato dalla crisi, la ricerca di una massa di precari a basso costo e poco qualificati e in generale la restaurazione reazionaria nel mondo accademico portano a restringere l'accesso e a tenerne fuori i figli del popolo e del proletariato.

Battersi contro il numero chiuso e per cambiare l'università
La battaglia contro il numero chiuso e per tenere aperte al popolo le porte dell'università oggi non può che essere centrale e perno dell'attuale lotta studentesca. Questa rivendicazione dovrebbe stare alla base del rilancio di un movimento studentesco forte e unitario, di cui c'è estremo bisogno per respingere l'offensiva reazionaria e passare al contrattacco.
Questi fatti dimostrano però che non basta più (se mai è bastato) lottare per l'università pubblica e gratuita, va anche conquistato il governo delle studentesse e degli studenti, unica garanzia a difesa delle conquiste ottenute. Fin da subito sarebbe importante e utile abbandonare gli attuali organi collegiali, che si sono dimostrati fallimentari per le istanze studentesche, e creare il governo alternativo delle studentesse e degli studenti.
Inoltre questa battaglia per andare al cuore del problema deve estendersi all'intero sistema dell'università di classe. Non dobbiamo accettare che l'università venga sottomessa alle esigenze del grande capitale, esigenze curate e difese tanto dalle autorità accademiche in via diretta, ammanicate con i potentati economici, quanto dal governo nazionale. Non si può cambiare veramente senza liberarsi del capitalismo e conquistare il socialismo.

7 giugno 2017