Trump straccia l'accordo di Parigi sul clima
Assoluta libertà di inquinamento per gli Usa
Gli ambientalisti protestano a Washington

Per decisione del presidente fascista Trump, gli Stati Uniti fanno un passo indietro rispetto agli impegni assunti nel 2015 alla Cop 21 di Parigi per affrontare il “riscaldamento globale”. Molti sono stati i leader mondiali che hanno fatto pressioni per salvaguardare il protocollo firmato da 147 paesi del mondo; il ritiro degli Usa pesa enormemente per il suo 18% di emissioni a livello mondiale, una quantità maggiore di tutti i 28 paesi della Ue messi insieme e secondo solo al 20% della Cina. Nonostante l’elevatissimo numero di nazioni aderenti al protocollo di Parigi, è bene ricordare che la stragrande maggioranza di esse non ha attivato alcuna misura nei propri piani energetici nazionali per contrastare effettivamente il riscaldamento globale. Non fa eccezione l’Italia, col governo Gentiloni che nell’ultima “manovrina” da 3,5 miliardi di euro ha trovato spazio per favorire ancora una volta i petrolieri attraverso una ulteriore liberalizzazione e defiscalizzazione delle piattaforme di trivellazione in mare.

I motivi del ritiro di Trump e le reazioni internazionali
Donald Trump si ritira dunque dall’accordo di Parigi, che considera iniquo per gli USA a partire dagli accordi finanziari a sostegno dei paesi poveri che vorrebbe ignorare totalmente. Sono gli altisonanti proclami fatti in campagna elettorale, in particolare sulla sedicente strenua “difesa dei posti di lavoro americani”, contro le “regolamentazioni che distruggono l’occupazione”, la base della scelta del governo; tuttavia negli USA, stando ai dati dei democratici, 3 milioni di persone lavorano nelle energie rinnovabili, contro 177mila nel gas e nel petrolio ed appena 50mila nell’estrazione del carbone. Secondo altri sondaggi, la scelta appare poco opportuna anche in chiave elettoralistica, poiché il 70% dei cittadini Usa vede positivamente l’accordo di Parigi, e tra loro c'è anche una gran fetta di elettori repubblicani. L’epilogo era comunque noto da tempo, così come era conosciuta la posizione di Trump secondo il quale la stessa idea di riscaldamento globale sarebbe una “truffa” propinata dai cinesi per danneggiare l’economia americana.
La prima conferma dello svincolo è stata data da Michael Catanzaro, consigliere per l’energia, che ha anticipato di qualche giorno Trump con queste parole: “Inizieremo un processo che richiederà quattro anni in totale. Ma vogliamo essere chiari con il mondo: non intendiamo rispettare quanto previsto dalla precedente amministrazione”. Nel documento ufficiale consegnato ai congressisti, si legge che l’accordo negoziato da Obama impone target non realistici per gli Usa, lasciando invece a paesi come la Cina una sorta di “ lasciapassare” per molti anni. In realtà la Cina, il principale inquinatore mondiale attuale, è anche anche il paese che investe di più nella transizione energetica ed ha confermato la propria volontà di proseguire sulla strada tracciata, in stretta collaborazione con l’Europa. Angela Merkel, a differenza della Francia che accetterebbe un compromesso pur di evitare l’uscita definitiva degli Usa dall’accordo, si è detta “rallegrata” dalla posizione cinese, e tende una opportunistica mano per far asse, volendo precisare che Germania e Cina sono “entrambi partigiani del libero scambio e dell’ordine mondiale basato sulle regole”. I principali contenuti – tutti sulla carta – del protocollo parigino, dall’impegno comune di ridurre la dipendenza dalle energie fossili, allo sviluppo di tecnologie verdi ed anche per la ricerca dei 100 miliardi di dollari promessi ai paesi poveri entro il 2020, vacillano già poiché il ritiro degli Usa significa, tra l'altro, un enorme buco finanziario in questo già insufficiente budget.

Cosa cambia per il clima dopo l’uscita degli USA
Secondo l’organizzazione internazionale “Climate Interactive”, il ritiro degli Usa dall’accordo di Parigi si tradurrà in un aumento di 3 miliardi di tonnellate l’anno delle emissioni di gas a effetto serra, che causeranno un riscaldamento di 0,3 gradi in più dei 3 previsti, mentre nell’accordo di Parigi sarebbe fissato il comunque insufficiente impegno a restare sotto i 2 gradi. Di conseguenza, ciò significa che gli altri paesi, per colmare l’effetto dell’uscita degli Usa, dovrebbero aumentare i propri obiettivi del 10-15%; un dato impensabile, a maggior ragione se si pensa che a fronte di nuove spese per gli altri Stati corrisponderebbe un risparmio di costi per gli USA derivanti dalla mancata transizione alle rinnovabili. A questo punto anche per i più ottimisti, rimane difficile continuare a credere che gli altri paesi sottoscrittori dell’accordo, siano pronti ad applicarlo realmente, assumendosene i costi e lasciando potenzialmente fette di mercato aggiuntive agli USA, inchiodati alle energie fossili meno costose ed al momento molto più redditizie in un sistema che ne rimane praticamente dipendente. L’unica cosa certa al momento è che nel 2016 l’industria del carbone ha dato i suoi finanziamenti elettorali per il 97% ai repubblicani di Trump e che, nonostante sia ormai chiaro a tutti che anche Parigi è sostanzialmente un accordo fallito sebbene non fosse in grado di risolvere definitivamente il problema del riscaldamento globale, l’uscita degli USA peggiorerà ulteriormente questo già preoccupante quadro.

Il nuovo “vecchio” assetto energetico internazionale
Sostanzialmente, con o senza gli USA, per centrare gli obiettivi posti dalla COP 21, i paesi del mondo dovrebbero triplicare gli investimenti annuali in tecnologie pulite. Nel 2015 gli investimenti globali nelle fonti rinnovabili sono stati di circa 286 miliardi di dollari con in testa la Cina che, da sola, ha investito più di Europa e Usa messe assieme: quasi 103 miliardi contro i circa 49 dell’Europa e 44 degli Usa. In questo senso, la decisione del ritiro dall’accordo di Parigi è più che una decisione tattica; è una scelta definitiva su quali scelte capitalistiche si incammineranno nei prossimi anni negli Stati Uniti. La coalizione del “vecchio” sistema basato sulla finanza, sul petrolio e sugli armamenti, o quella che vorrebbe favorire le energie rinnovabili e tutto ciò che ne consegue? È evidente che la decisione di Trump è una scelta di campo netta della prima economia mondiale a favore delle energie fossili. E su questo non ci piove. In realtà Trump sta solo dando continuità al passato poiché, a parte i proclami, negli otto anni di amministrazione Obama le banche si sono ulteriormente arricchite, i petrolieri hanno aumentato i loro profitti ed i produttori di armi hanno esportato più di quanto non avessero fatto con Bush e Clinton. Trump sembra però voler accelerare il dominio globale di Wall Street e del Pentagono difendendo gli immensi investimenti dell’industria petrolifera e carbonifera che non hanno nessuna intenzione di essere svalutati da una transizione verso le energie rinnovabili, soprattutto perchè al momento esse non garantiscono gli stessi profitti del “buon vecchio oro nero”. Per tutto ciò, Trump irride sostanzialmente la tutela dell'ambiente, della salute pubblica e tutti quei danni economici, umani e sociali più evidenti, rappresentati per gli americani anche dai fenomeni climatici estremi legati al riscaldamento globale, come i tifoni che sono sempre più frequenti e devastanti. L'ostacolo reale per una efficace azione globale e di vero contrasto al caos climatico che incalza, non riguarda però solo Trump, ma più in generale la mancanza di una volontà politica finalizzata all’agire immediatamente ed in maniera decisa a livello globale a beneficio dell’ambiente. Qualche settimana fa al G7 di Taormina, il presidente della Commissione Ue Junker aveva ricordato a Trump che l'Accordo non prevedeva la possibilità di un recesso immediato, bensì una facoltà da esercitarsi solo dopo 3 anni dall'entrata in vigore dello stesso. Tutti infatti ci ricordiamo con quanta enfasi fu sottolineata la “forza” degli esiti della COP21 francese proprio per la sedicente irrevocabilità della firma da parte dei sottoscrittori. Come allora affermammo, a differenza del resto della stampa di regime e da tante associazioni ambientaliste che gioivano per l’accordo raggiunto, il centro della questione è che non esistendo strumenti di sanzione, la mancanza della volontà politica di onorare gli impegni presi è di per sé elemento sufficiente ad affermare che poi, nei fatti, ognuno fa come vuole. Con la revoca di Trump, gli USA fanno da apripista, dichiarando in barba a tutto ed impunemente che non intraprenderanno alcuna strada virtuosa in materia energetica o nei trasporti, e continueranno a bruciare carbone, petrolio e gas ignorando l'accordo unitamente alle previsioni della scienza. Gli USA oggi come oggi, chiunque altro domani.

Le proteste degli ambientalisti alla Casa Bianca
“Avanti insieme, non un passo indietro”. Questo è stato lo slogan di centinaia di persone, tra le quali gruppi ambientalisti e sindacati, che hanno manifestato nei pressi della Casa Bianca, contro la decisione di Donald Trump. Assieme al governatore della California, Andrew Cuomo, dello Stato di New York, ha firmato un ordine esecutivo per aderire alla “New United States climate Alliance”, una coalizione che unirà gli Stati americani che si impegnano a mantenere l’accordo nonostante Trump. Ad opporsi al presidente, oltre a gli ambientalisti ed ai progressisti di tutto il mondo, ci sono 61 sindaci, rappresentanti di circa 36 milioni di cittadini americani che spiegano in una lettera aperta come si “proseguirà per la nostra strada. Se il presidente ha intenzione di rompere le promesse fatte ai nostri alleati, consacrate dallo storico accordo di Parigi, noi invece costruiremo e rafforzeremo relazioni in tutto il mondo per proteggere il pianeta da devastanti rischi climatici”. Proteste sono arrivate anche dalle associazioni di medici, specialisti e scienziati americani e di tutto il mondo, che hanno anche fondato un nuovo consorzio sulla salute e il clima; anche l’ONU ed il Vaticano hanno espresso giudizi assolutamente negativi. Ma allora, perché l’accordo di Parigi non è stato proposto come irrevocabile? In alternativa sarebbe stato naturale inserire sanzioni pesanti, maggiori degli stessi costi necessari a mantenere gli impegni di ciascun paese, a chi avesse voluto uscire dai termini fissati. Se non risolutivo per il clima visti i contenuti generali, l’accordo avrebbe quantomeno evitato un arretramento in termini di progresso ambientale; proprio quello che accadrà adesso con gli USA, primi grandi e storici inquinatori ed attuali vice campioni mondiali in termini di emissioni, assolutamente liberi di inquinare senza subire la benché minima conseguenza.
 

7 giugno 2017