Salta l'accordo elettorale tra i quattro principali banditi del regime neofascista

L'accordo per fare una legge elettorale “alla tedesca” e poi andare subito dopo al voto, forse già a settembre, raggiunto tra i quattro principali banditi del regime neofascista, Renzi, Berlusconi, Salvini e Grillo, non ha retto ed è saltato alle prime votazioni in parlamento. La riforma elettorale detta anche tedeschellum, su cui in commissione Affari costituzionali PD, FI, Lega e M5S si erano messi d'accordo - vale a dire circa l'80% della Camera, per cui il suo testo doveva essere praticamente blindato - è stata invece affondata al primo colpo dai franchi tiratori su un emendamento di secondaria importanza, ed è stata perciò rinviata in Commissione dove l'Ufficio di presidenza dovrà decidere la sua sorte, che probabilmente, date le contraddizioni riacutizzatesi tra i quattro partiti contraenti, sarà l'accantonamento definitivo.
La nuova legge elettorale era frutto di un accordo preventivo tra i due vecchi soci del patto del Nazareno, Renzi e Berlusconi, che l'avevano congegnata in funzione di un nuovo governo di “larghe intese” basato sui loro due partiti, in previsione del fatto praticamente certo che nessuno dei tre partiti maggiori, PD, M5S e un'ipotetica lista FI-Lega, avrebbe avuto il premio di maggioranza del 40% alla Camera necessario per governare da solo in base all'Italicum riformato dalla sentenza della Corte costituzionale. A questo accordo aveva aderito anche Salvini, in base alla sua linea che non importa con quale legge purché si vada prima possibile a votare. D'altra parte anche il nuovo duce Renzi aveva fretta di andare al più presto al voto, possibilmente a settembre, perché avendo appena vinto le primarie vuole sfruttarne l'abbrivio senza farsi logorare dai giochetti politici e dalla legge di Bilancio, e perché non sta più nella pelle di tornare a Palazzo Chigi prendendosi la rivincita sul 4 dicembre.

Una legge a misura di “larghe intese” PD-FI
In realtà di tedesco la legge di Renzi e Berlusconi aveva più che altro il nome, perché pur essendo come quella tedesca in parte proporzionale e in parte uninominale, con sbarramento al 5% per i partiti minori, vi erano anche delle differenze sostanziali studiate ad arte per adattarsi ai loro interessi: il sistema tedesco prevede infatti il voto disgiunto tra collegi uninominali e listino proporzionale per le circoscrizioni, con due schede separate (si può votare cioè un candidato per i collegi e un altro partito per il proporzionale), e con una ripartizione a metà tra seggi uninominali e proporzionali. Inoltre gli eletti nei collegi uninominali hanno la precedenza nell'assegnazione dei seggi rispetto agli eletti col proporzionale, cioè sono certi di entrare in parlamento.
Con la legge di Renzi e Berlusconi, invece, la scheda era unica, così come il voto che vale tanto per l'uninominale quanto per la lista proporzionale collegata. Inoltre i capilista, che possono essere fino a sei, tutti rigorosamente scelti dalle rispettive segreterie, possono candidarsi anche in tre circoscrizioni (pluricandidature), oltre che in un collegio uninominale. Ed hanno la precedenza per l'ottenimento del seggio, anche se nel collegio è risultato primo un altro candidato del loro stesso partito. Pur essendo risultato vincitore nel collegio uninominale, cioè, un candidato non aveva la sicurezza di entrare in parlamento, perché il suo seggio poteva essere assegnato ad un nominato pluricandidato nel listino proporzionale votato automaticamente grazie ai suoi stessi voti.
Era evidente che tutto questo meccanismo era congegnato appositamente per permettere ai due soci del nuovo Nazareno di nominarsi i propri fedeli rappresentanti in parlamento, almeno in buona parte, e allo stesso tempo, con lo sbarramento aumentato al 5%, di tagliare fuori tutti i piccoli partiti, costringendoli o a coalizzarsi tra di loro o, più probabilmente, a intrupparsi nelle loro liste per avere una qualche probabilità di entrare in parlamento. Tant'è che infuriato per essere stato scaricato senza tanti complimenti da Renzi, il leader di Alternativa popolare, Angelino Alfano, che con questa legge rischiava di non entrare neanche in parlamento, aveva lasciato trapelare che a febbraio l'ex premier gli aveva proposto di scriversi da se stesso la legge elettorale, se in cambio si fosse assunto l'incarico di far cadere il governo Gentiloni per provocare le elezioni anticipate.

Anche Grillo nell'inciucio a quattro
È a questo punto che anche Grillo ha rotto gli indugi ed ha voluto entrare nella partita. Già da tempo le trattative del M5S con il PD sulla legge elettorale erano in corso, guidate con discrezione dal vicepresidente della Camera Luigi Di Maio tramite il suo emissario in commissione Affari costituzionali, Danilo Toninelli. Perché il M5S ha deciso di sedersi al tavolo delle trattative e aderire all'inciucio PD-FI-Lega, contraddicendo oltretutto i suoi proclami contro il “parlamento dei nominati” e dovendo mettere a tacere non poche proteste e dissidi sia nella propria base elettorale che nei suoi stessi gruppi parlamentari? Come ad esempio da parte di Roberto Fico, che non ha nascosto la sua contrarietà e della senatrice Paola Taverna, che lo ha addirittura definito “un mega-porcellum”, aggiungendo che “io non mi sarei neanche messa seduta”? Verosimilmente perché anche a Grillo faceva comodo la soglia di sbarramento alta e la possibilità dell'elezione sicura dei suoi candidati più scelti e fedeli che questo sistema tedesco taroccato consente, e anche per dare ai “mercati” e ai potentati economici una prova di “maturità e responsabilità” del M5S, impersonata dal candidato premier in pectore Di Maio, in vista di una possibile quanto auspicata esperienza di governo.
Per disinnescare i malumori della base e dare via libera all'adesione all'accordo a quattro, il 28 maggio Grillo ha convocato perciò la solita farsa della consultazione on line tra gli iscritti sulla piattaforma Rousseau, annunciando che il “modello tedesco” aveva ottenuto il 95% delle preferenze. Ma ciò non essendo sufficiente, ha dovuto anche cercare di strappare qualcosa in più in commissione tramite l'azione mediatrice di Di Maio e Toninelli e promettere ai suoi altre possibili modifiche migliorative al testo tramite appositi emendamenti da presentare in aula.
Frutto di questa mediazione in commissione è stata la riduzione del numero dei collegi uninominali e la riduzione delle pluricandidature a due (un collegio e una lista proporzionale), che consentiva la certezza del seggio, tranne un paio di eccezioni, ai candidati eletti nell'uninominale. A prezzo però dell'innalzamento al 62% della quota proporzionale per le liste collegate automaticamente. Niente da fare infatti sul voto congiunto, su cui PD, FI e Lega erano irremovibili, essendo il passaporto per far eleggere i candidati da loro nominati nelle liste circoscrizionali. Di Maio e Toninelli promettevano allora che voto disgiunto e preferenze sarebbero state ripresentati in aula attraverso appositi emendamenti, tra cui uno chiesto espressamente da Grillo per inserire un “premio di governabilità” al 40% come nel tanto deprecato Italicum.

Come è saltato l'accordo in aula
Era chiaro che questi propositi di “miglioramenti” dei vertici M5S erano più che altro fumo negli occhi per tranquillizzare la loro base: PD, FI e Lega li avevano infatti avvisati che il testo concordato in commissione era praticamente blindato, e del resto questi tre partiti insieme avrebbero avuto voti a sufficienza per respingere qualsiasi emendamento pericoloso. Ma avevano fatto i conti senza l'oste, ossia la pochissima voglia dei loro parlamentari di lasciare anticipatamente la poltrona e forse dover rinunciare anche al relativo vitalizio.
A dare ali al loro malumore è stato anche un intervento di Giorgio Napolitano, che da sempre vede come fumo negli occhi lo scioglimento anticipato delle Camere per l'”instabilità” che può provocare nei “mercati”: “Il voto anticipato è paradossale, è un colpo alla credibilità del Paese”, ha tuonato infatti l'ex presidente della Repubblica, e ha aggiunto: “In tutte le democrazie si vota a scadenza naturale. Questa è una legge elettorale fatta da quattro leader per calcolo di convenienza”. Per le stesse ragioni anche il presidente di Confindustria, Boccia, aveva espresso contrarietà alla fine anticipata della legislatura. Contrario anche Prodi e così perfino Ezio Mauro, sul pur filorenziano quotidiano La Repubblica .
Si è così arrivati alla discussione in aula della legge e alla giornata fatidica del 8 giugno, quando è stato messo in votazione un emendamento della deputata berlusconiana Biancofiore, votato anche dai 5 Stelle che ne avevano presentato uno uguale, e che estendeva il tedeschellum anche all'Alto Adige, al posto del vigente mattarellum. Un sistema elettorale, questo, che garantisce una solida maggioranza al partito altoatesino SVP, che è anche alleato del PD e presta i suoi voti al governo in Senato. I renziani non potevano dunque che respingerlo, e così hanno fatto FI e Lega, mentre M5S, MDP e SI votavano a favore. Sulla carta l'emendamento non avrebbe quindi avuto la minima possibilità di passare, e invece grazie al voto segreto, alle numerose assenze nei banchi della maggioranza e a una valanga di franchi tiratori, di cui molti del PD e certamente tutti quelli di AP di Alfano, è stato approvato con 270 sì e 256 no.

Tornano in campo Italicum “riformato” e porcellum
A quel puto il PD rinfacciava al M5S la responsabilità di aver fatto fallire l'accordo, e il relatore della legge, Emanuele Fiano, la dichiarava “morta”, e accusava i 5 Stelle di averla “uccisa”. Mentre a sua volta il movimento di Grillo accusava Renzi di aver provocato apposta l'incidente per i suoi calcoli elettorali. Renzi riuniva d'urgenza la segreteria del PD che decideva di sospendere ogni trattativa e rimandare tutto a dopo le amministrative. Poi si recava al Quirinale per sondare Mattarella circa la possibilità di approvare la legge con un decreto, ricevendone però un rifiuto. Alla fine è stato concordato di rinviare la legge in commissione in attesa di decidere cosa farne.
Salvo quindi un'improbabile ripresa delle trattative, a cui Grillo e Berlusconi sarebbero anche favorevoli ma Renzi sembra ormai decisamente contrario, il patto elettorale a quattro sul tedeschellum è da considerarsi fallito. I calcoli del nuovo duce Renzi, dopo questa nuova sconfitta, sono ora concentrati sull'ipotesi di elezioni col sistema attuale risultante dagli interventi correttivi della Consulta sull'Italicum e sul Porcellum: proporzionale con sbarramento al 3% e premio di maggioranza fino al 55% al superamento del 40% dei voti per la Camera; e al Senato soglia di sbarramento al 20% per le coalizioni e al 8% per le singole liste, che però scende al 3% se queste fanno parte di coalizioni che superano la soglia del 20%.
È in questo scenario improvvisamente mutato che, pur non rinunciando all'asse privilegiato con Berlusconi, il nuovo duce ha ripreso anche i contatti con Pisapia per sondare una possibile alleanza elettorale al Senato. Quest'ultimo si è dichiarato disponibile, ma a patto che ci siano le primarie per scegliere chi ne debba essere il leader e candidato premier, svelando così le sue ambizioni personali celate dietro il progetto di “ricostruzione del centro-sinistra”.
 
 
 
 

13 giugno 2017