Redatta da una Commissione del CC del PC(b) dell'U.R.S.S. diretta da Stalin.
STORIA DEL PARTITO COMUNISTA (BOLSCEVICO) DELL’U.R.S.S.
1917-2017 - 100° Anniversario della Grande Rivoluzione Socialista d'Ottobre

Apriamo la Celebrazione del Centenario della Grande Rivoluzione Socialista d'Ottobre iniziando a pubblicare l'opera “Storia del Partito Comunista (bolscevico) dell'U.R.S.S.” redatta da una commissione incaricata dal Comitato Centrale del PC(b) dell'U.R.S.S. presieduta da Stalin nel 1938. Noi marxisti-leninisti italiani dobbiamo studiare quest'opera esattamente come indicava Mao ai comunisti cinesi nel Rapporto del maggio 1941 “Riformiamo il nostro studio”: “Adottare, come principale materiale di studio del marxismo-leninismo, la Storia del Partito comunista (bolscevico) dell'U.R.S.S. (breve corso). Quest'opera è la migliore sintesi e il miglior bilancio del movimento comunista mondiale negli ultimi cento anni, un modello di unità tra teoria e pratica, il solo modello completo esistente al mondo. Vedendo come Lenin e Stalin hanno unito la verità universale del marxismo alla pratica concreta della rivolunione nell'Unione Sovietica e hanno su questa base sviluppato il marxismo, comprenderemo come dobbiamo lavorare in Cina.” E noi per proseguire la marcia sulla via dell'Ottobre verso l'Italia unita, rossa e socialista.
Nel testo da noi pubblicato le citazioni che nel volume appaiono di corpo più piccolo hanno un carattere graziato e non bastoncino.
 
Introduzione
Il Partito comunista (bolscevico) dell'U.R.S.S. ha percorso un lungo e glorioso cammino, dai primi piccoli circoli e gruppi marxisti, sorti in Russia nel decennio 1880-1890, al grande partito bolscevico che ora dirige il primo Stato socialista del mondo, lo Stato degli operai e dei contadini.
Il Partito comunista dell'U.R.S.S. è sorto – sulla base del movimento operaio della Russia di prima della rivoluzione – dai circoli e gruppi marxisti che si erano legati col movimento operaio a cui apportavano la coscienza socialista. Il Partito comunista dell'U.R.S.S. si è ispirato e s'ispira alla dottrina rivoluzionaria del marxismo-leninismo. I suoi capi hanno sviluppato ulteriormente, nelle condizioni nuove dell'epoca dell'imperialismo, delle guerre imperialistiche e delle rivoluzioni proletarie, la dottrina di Marx e di Engels; l'hanno portata a un livello più alto.
Il Partito comunista dell'U.R.S.S. si è sviluppato e rafforzato in una lotta di principio contro i partiti piccolo-borghesi nel seno del movimento operaio: contro i socialisti-rivoluzionari (e anteriormente contro i loro predecessori: i populisti), i menscevichi, gli anarchici, i nazionalisti borghesi di tutte le sfumature e, nell'interno del partito, contro le correnti mensceviche opportunistiche: i trotzkisti, i bukhariniani, i fautori delle deviazioni nazionalistiche e altri gruppi antileninisti.
Il Partito comunista dell'U.R.S.S. si è consolidato e temprato nella lotta rivoluzionaria contro tutti i nemici della classe operaia, contro tutti i nemici dei lavoratori, i grandi proprietari fondiari, i capitalisti i kulah, i sabotatori, le spie, contro tutti i mercenari degli Stati capitalistici che accerchiano l'Unione Sovietica.
La storia del Partito comunista dell'U.R.S.S. è la storia di tre rivoluzioni: rivoluzione democratico-borghese del 1905, rivoluzione democatico-borghese del febbraio 1917 e rivoluzione socialista dell'ottobre 1917.
La storia del Partito comunista dell'U.R.S.S. è la storia del rovesciamento dello zarismo, la storia del rovesciamento del potere dei proprietari fondiari e dei capitalisti, la storia della disfatta dell'intervento armato straniero durante la guerra civile, la storia della costruzione dello Stato sovietico e della società socialista nel nostro paese.
Lo studio della storia del Partito comunista dell'U.R.S.S. ci arricchisce di tutta l'esperienza della lotta per il socialismo, sostenuta dagli operai e dai contadini del nostro paese.
Lo studio della storia del Partito comunista dell'U.R.S.S., lo studio della storia della lotta sostenuta dal nostro partito contro tutti i nemici del marxismo-leninismo, contro tutti i nemici dei lavoratori, ci aiuta ad assimiliare il bolscevismo e rafforza la nostra vigilanza politica.
Lo studio dell'eroica storia del partito bolscevico ci dà per arma la conoscenza delle leggi che regolano lo sviluppo sociale e la lotta politica, ci dà per arma la conoscenza delle forze motrici della rivoluzione.
Lo studio della storia del Partito comunista dell'U.R.S.S. rafforza in noi la certezza che la grande causa del partito di Lenin-Stalin vincerà definitivamente, la certezza che il comunismo vincerà in tutto il mondo.
Questo libro espone sommariamente la storia del Partito comunista (bolscevico) dell'U.R.S.S.
 
I.
La lotta per la creazione del Partito operaio socialdemocratico di Russia
(1883-1901)


1. Abolizione della servitù della gleba e sviluppo del capitalismo industriale in Russia. Formazione del proletariato industriale moderno. I primi passi del movimento operaio.
La Russia degli zar era entrata nella via dello sviluppo capitalistico più tardi degli altri paesi: fino al decennio 1860-1870, pochissime erano in Russia le fabbriche e le officine; prevaleva l'economia feudale della nobiltà agraria. Mentre l'industria, sotto il regime della servitù della gleba, non poteva pienamente svilupparsi, nell'agricoltura il lavoro non libero, il lavoro servile, era assai poco produttivo. Il corso dello sviluppo economico spingeva, quindi, alla soppressione della servitù. Nel 1861, il governo zarista, indebolito dalla disfatta militare subita nella battaglia di Crimea e spaventato dalle rivolte dei contadini contro i proprietari fondiari, si vide costretto ad abolire la servitù.
Ma i contadini continuarono ad essere oppressi anche dopo l'abolizione della servitù. Al tempo dell'«emancipazione», i proprietari fondiari li avevano spogliati privandoli di una parte considerevole delle terre di cui godevano prima. Gli appezzamenti, che erano stati stralciati così dalle loro terre, furono chiamati dai contadini «otrezki» (tagli, dal verbo otrezat : tagliare). E come riscatto per la loro «emancipazione», ai contadini venne imposto di pagare circa due miliardi di rubli ai proprietari fondiari.
Dopo l'abolizione della servitù della gleba, i contadini si videro costretti a prendere in affitto la terra dei proprietari fondiari alle più onerose condizioni. Come canone d'affitto, oltre a un pagamento in moneta, il contadino era spesso obbligato a coltivare gratuitamente, con le proprie scorte vive e morte, una certa quota di terra del proprietario fondiario. È ciò che si chiamava «prestazioni in lavoro», «servigi gratuiti». Più sovente ancora, il contadino era costretto a pagare in natura il canone d'affitto della terra con la metà dell'intero raccolto. Ciò era chiamato lavoro «ispolu », ossia, lavoro a mezzadria.
Cosicché, la situazione era rimasta quasi la stessa come al tempo della servitù della gleba e differiva solo in quanto il contadino, ora personalmente libero, non poteva più essere venduto o comprato come una cosa qualunque.
I proprietari fondiari dissanguavano i contadini delle aziende arretrate spogliandoli con gli affitti, le multe, in tutti i modi. Sotto il giogo dei proprietari fondiari, la grande maggioranza dei contadini non poteva migliorare le proprie aziende. L'agricoltura della Russia di allora era quindi arretrata al massimo: causa sovente di cattive raccolte e carestie.
Le sopravvivenze dell'economia feudale, i canoni enormi e le aliquote da pagare per il riscatto della terra, non di rado superanti il reddito delle aziende, gettavano nella miseria i contadini, li portavano a sicura rovina, li obbligavano ad abbandonare i villaggi per cercare altrove lavoro. Così i contadini battevano alla porta delle fabbriche e delle officine e gli industriali trovavano a buon mercato le braccia di cui avevano bisogno.
Sulle spalle degli operai e dei contadini gravavano e ispravnki , e uriadniki , e gendarmi, e poliziotti, e guardie, un intero esercito in difesa dello zar, dei capitalisti, dei proprietari fondiari contro i lavoratori, contro gli sfruttati. Le pene corporali restarono in vigore fino al 1903. Nonostante l'abolizione della servitù della gleba, i contadini erano fustigati per un nonnulla, per il mancato pagamento delle imposte. Polizia e cosacchi bastonavano gli operai, soprattutto durante gli scioperi, quando la massa abbandonava il lavoro, non potendo più oltre sopportare le angherie degli industriali. Nella Russia dello zar, gli operai e i contadini non godevano di alcun diritto politico. L'autocrazia zarista era il peggiore nemico del popolo.
Una prigione di popoli, ecco ciò che era la Russia zarista. Prive di ogni diritto, le numerose nazionalità non russe subivano senza tregua ogni sorta di umiliazioni e di sopraffazioni. Il governo dello zar inculcava nei russi l'idea che le popolazioni native delle regioni nazionali fossero razze inferiori, le chiamava ufficialmente «allogene», rinfocolava il disprezzo e l'odio nei loro riguardi, fomentava scientemente gli odii nazionali, aizzava i popoli l'uno contro l'altro, scatenava pogrom contro gli ebrei, massacri fra tartari e armeni in Transcaucasia.
Nelle regioni nazionali, tutte, o quasi, le cariche statali erano affidate a funzionari russi. Tutti gli affari, nelle istituzioni come davanti ai tribunali, erano trattati in lingua russa. Era vietata la pubblicazione di giornali e di libri nelle lingue nazionali; nelle scuole l'insegnamento nella lingua materna era proibito. Il governo zarista si sforzava di soffocare ogni manifestazione delle culture nazionali e «russificava» per forza le altre nazionalità. Lo zarismo era il carnefice e l'aguzzino dei popoli non russi.
Dopo l'abolizione della servitù della gleba, il capitalismo industriale in Russia si venne sviluppando abbastanza rapidamente, nonostante le sopravvivenze della servitù della gleba che ancora ne ostacolavano il cammino. In 25 anni, dal 1865 al 1890, soltanto gli operai occupati nelle grandi fabbriche e officine e nelle ferrovie erano saliti dal numero di 706 mila a 1 milione e 433 mila, ossia erano più che raddoppiati.
Ancora più celermente si sviluppò la grande industria capitalistica nel decennio 1890-1900. Verso la fine del secolo XIX, gli operai occupati nelle grandi fabbriche e officine, nell'industria mineraria e nelle ferrovie, soltanto in 50 governatorati della Russia europea, salirono a 2 milioni 207 mila, e, in tutta la Russia, a 2 milioni e 792 mila.
Proletariato industriale moderno, fondamentalmente distinto dagli operai delle fabbriche dell'epoca della servitù della gleba e dagli operai della piccola industria, artigiana o simile, tanto per la sua concentrazione nelle grandi aziende capitalistiche, quanto per la sua combattività, rivoluzionaria.
L'ascesa industriale in quel decennio era soprattutto dovuta all'intenso sviluppo delle ferrovie. Dal 1890 al 1900, furono costruite oltre 21 mila verste [una versta = km. 1,067] di nuove ferrovie. Alle ferrovie occorreva una grande quantità di metallo (per le rotaie, le locomotive, le vetture); esse consumavano una quantità sempre maggiore di combustibili, carbon fossile e nafta. Di qui lo sviluppo dell'industria dei combustibili e dell'industria metallurgica.
Come in tutti i paesi capitalistici, nella Russia di prima della rivoluzione, le annate di sviluppo industriale si alternavano con annate di crisi industriale e di stagnazione che colpivano duramente la classe operaia, gettando centinaia di migliaia di operai nella disoccupazione e nella miseria.
Benché lo sviluppo del capitalismo, dopo l'abolizione della servitù della gleba, fosse in Russia abbastanza rapido, l'evoluzione economica del paese era in notevole ritardo su quella degli altri paesi capitalistici. La stragrande maggioranza della popolazione era ancora dedita all'agricoltura. Nel suo celebre libro «Lo sviluppo del capitalismo in Russia», Lenin riportò molti dati significativi tratti dal censimento generale del 1897. E risultò che nell'agricoltura erano occupati quasi cinque sesti della popolazione, mentre appena un sesto all'incirca era occupato nella grande e piccola industria, nel commercio, nelle ferrovie, nei trasporti acquei, nell'edilizia, nell'industria forestale, e così via.
Dal che deriva che la Russia, nonostante lo sviluppo del capitalismo, era un paese agrario, economicamente arretrato, un paese di piccola borghesia, cioè un paese in cui prevaleva ancora la piccola proprietà, la piccola azienda contadina individuale poco produttiva.
Il capitalismo, però, non si sviluppava soltanto nelle città, ma anche nelle campagne. La classe dei contadini, la classe più numerosa nella Russia d'allora, si disgregava, si differenziava. Fra i contadini più agiati veniva sorgendo uno strato superiore, lo strato dei kulak, la borghesia rurale, mentre, d'altra parte, numerosi contadini cadevano in miseria, e si vedeva ingrossare nelle campagne la massa dei contadini poveri, dei proletari rurali e dei semiproletari. In quanto ai contadini medi, il loro numero diminuiva di anno in anno.
Nel 1903, la Russia contadina era costituita da circa 10 milioni di famiglie. Nel suo opuscolo «Ai contadini poveri», Lenin calcolò che non meno di 3 milioni e mezzo di queste famiglie contadine non possedevano neppure un cavallo . I contadini poveri seminavano, in generale, soltanto un piccolo appezzamento di terra e affittavano il resto ai kulak, recandosi poi in cerca di lavoro altrove per guadagnarsi un po' di pane. Date le loro condizioni, i contadini poveri erano i più vicini al proletariato: Lenin li chiamò proletari rurali o semiproletari.
D'altra parte, tra questi 10 milioni di famiglie contadine, un milione e mezzo di contadini ricchi, di kulak, si erano accaparrata la metà di tutte le terre contadine arabili. Questa borghesia rurale si arricchiva opprimendo i contadini poveri e medi, sfruttando il lavoro dei salariati agricoli e dei giornalieri e si trasformava così in capitalisti agrari.
Nel decennio 1870-1880, e soprattutto in quello successivo, la classe operaia di Russia si viene destando e si impegna la lotta contro i capitalisti. Le condizioni degli operai erano estremamente penose. Dal 1880 al 1890, la giornata lavorativa negli stabilimenti era di almeno 12 ore e mezzo e nell'industria tessile raggiungeva le 14-15 ore. Era largamente sfruttato il lavoro delle donne e dei fanciulli. I fanciulli erano sottoposti allo stesso orario degli adulti, pur percependo, come le donne, un salario notevolmente inferiore. I salari erano irrisori. La maggior parte degli operai guadagnava mensilmente sette od otto rubli. Gli operai meglio retribuiti delle officine metallurgiche e delle fonderie non guadagnavano mensilmente più di 35 rubli. Nulla era fatto per garantire la sicurezza sul lavoro: di qui un gran numero di infortuni, sovente mortali. Nessuna assicurazione sociale; l'assistenza medica solo a pagamento. Pessime le condizioni d'abitazione. Nei bugigattoli, nelle baracche, si ammucchiavano dieci, dodici persone. Di frequente, gli industriali truffavano gli operai, obbligandoli a comprare nei loro spacci dei prodotti che facevano pagare tre volte più caro; inoltre, li spogliavano a forza di multe.
Gli operai cominciarono a mettersi d'accordo tra di loro e ad esigere collettivamente che le loro condizioni insopportabili fossero migliorate. Si abbandonava il lavoro. I primi scioperi del 1870-1890 scoppiavano di solito a causa delle multe esorbitanti, delle ruberie e delle frodi nel pagamento dei salari o a causa delle riduzioni delle tariffe.
Esasperati, gli operai, durante questi primi scioperi, spezzavano talvolta le macchine, rompevano i vetri degli stabilimenti, devastavano gli spacci padronali e gli uffici.
Ma gli operai sviluppati cominciavano a comprendere che per lottare con successo contro i capitalisti, era necessario organizzarsi. Nacquero così le prime associazioni operaie.
Nel 1875, si costituì, a Odessa, l'«Unione degli operai della Russia meridionale». Questa prima organizzazione operaia, dopo aver funzionato per otto o nove mesi, fu distrutta dal governo dello zar.
Nel 1878, fu fondata a Pietroburgo l'«Unione settentrionale degli operai russi», i cui capi erano il falegname Khalturin e l'aggiustatore Obnorski. Il suo programma diceva che, per i suoi obiettivi, l'Unione si sentiva affine ai partiti socialdemocratici operai occidentali. Suo scopo finale era la rivoluzione socialista, «il rovesciamento del regime politico ed economico dello Stato, regime estremamente ingiusto». Obnorski, uno degli organizzatori dell'Unione, era vissuto qualche tempo all'estero, dove aveva avuto modo di conoscere l'attività dei partiti socialdemocratici marxisti e della I Internazionale, diretta da Marx. Questo fatto pose la sua impronta sul programma dell'«Unione settentrionale degli operai russi». Come compito immediato, l'Unione fissava la conquista delle libertà politiche e dei diritti politici per il popolo (libertà di parola, di stampa, di riunione, ecc.). Tra le rivendicazioni immediate, era compresa anche la riduzione della giornata lavorativa.
I membri dell'Unione erano circa 200 ed altrettanto i simpatizzanti. L'Unione aveva incominciato a partecipare agli scioperi e a dirigerli, ma anche essa fu distrutta dal governo dello zar.
Il movimento operaio continuava però a svilupparsi, allargandosi a sempre nuove regioni. Nel decennio 1880-1890, gli scioperi furono numerosi, e in cinque anni (1881-1886) si ebbero oltre 48 scioperi, cui parteciparono 80 mila operai.
Un'importanza particolare per la storia del movimento rivoluzionario ebbe soprattutto il grande sciopero scoppiato nel 1885, nella fabbrica Morozov, a Orekhovo-Zuevo.
Nello stabilimento lavoravano circa 8 mila operai. Le loro condizioni peggioravano continuamente: dal 1882 al 1884 i salari avevano subìto cinque riduzioni; nel 1884, d'un sol colpo, erano stati ridotti di un quarto. Per giunta, l'industriale Morozov caricava di multe gli operai. Al processo che seguì lo sciopero, fu stabilito che, su ogni rublo di guadagno, venivano sottratti all'operaio, a profitto dell'industriale, da 30 a 50 copechi, sotto forma di multa. Esasperati da questo furto, nel gennaio del 1885 gli operai proclamarono lo sciopero preventivamente preparato. Lo dirigeva Pietro Moisseienko, un operaio sviluppato, ex membro dell'«Unione settentrionale degli operai russi» e ricco già di esperienza rivoluzionaria. Alla vigilia del movimento, Moisseienko, insieme con altri operai tessili, coi più coscienti, aveva elaborato un elenco di rivendicazioni approvato in seguito in una riunione segreta degli operai. Gli operai esigevano soprattutto l'abolizione delle multe esorbitanti.
Lo sciopero fu violentemente represso: oltre 600 operai furono arrestati e alcune decine processati.
Scioperi simili scoppiarono nel 1885 negli stabilimenti di Ivanovo-Voznessensk.
L'anno seguente, il governo dello zar, spaventato dai progressi del movimento operaio, si vide costretto a promulgare una legge sulle multe, in virtù della quale il loro importo non doveva essere intascato dai padroni, ma servire ai bisogni degli operai stessi.
L'esperienza dello sciopero Morozov e degli altri scioperi insegnò agli operai che con una lotta organizzata potevano ottenere molte cose. Nel movimento operaio cominciarono a emergere dei dirigenti e degli organizzatori capaci che difendevano con fermezza gli interessi della classe operaia.
Contemporaneamente, favorite dall'ascesa del movimento operaio di Russia e sotto l'influenza di quello dell'Europa occidentale, cominciano a crearsi in Russia le prime organizzazioni marxiste.
 


2. Populismo e marxismo in Russia. Plekhanov e il suo gruppo dell'«Emancipazione del lavoro». Lotta di Plekhanov contro il populismo. Diffusione del marxismo in Russia.
Prima della fondazione dei gruppi marxisti, l'attività rivoluzionaria era svolta in Russia dai populisti, avversari del marxismo.
Il primo gruppo marxista russo nacque nel 1883. Era il gruppo dell'«Emancipazione del lavoro», organizzato da G.V. Plekhanov all'estero, a Ginevra, dove egli era stato costretto a rifugiarsi in seguito alle persecuzioni del governo dello zar per la sua attività rivoluzionaria.
Plekhanov era stato dapprima populista. Avendo poi studiato nell'emigrazione il marxismo, abbandonò il populismo e divenne un eminente propagandista del marxismo.
Il gruppo dell'«Emancipazione del lavoro» svolse una grande attività per diffondere il marxismo in Russia. Tradusse in lingua russa varie opere di Marx e di Engels: «Il Manifesto del Partito comunista», «Lavoro salariato e capitale», «Il passaggio del socialismo dall'utopia alla scienza» ed altre, e le stampò all'estero per diffonderle clandestinamente in Russia. G.V. Plekhanov, Zassulic, Axelrod e altri aderenti a quel gruppo scrissero pure parecchi libri nei quali esponevano la dottrina di Marx e di Engels, le idee del socialismo scientifico .
All'opposto dei socialisti utopisti, Marx ed Engels, i grandi maestri del proletariato, hanno spiegato per primi che il socialismo non era una fantasticheria di sognatori (utopisti), ma il risultato necessario dello sviluppo della società capitalistica contemporanea. Essi hanno mostrato che il regime capitalistico sarebbe caduto allo stesso modo che era caduto il regime della servitù della gleba, e che il capitalismo, creando il proletariato, creava esso stesso il suo proprio becchino. Essi hanno dimostrato che soltanto la lotta di classe del proletariato, soltanto la vittoria del proletariato sulla borghesia avrebbe liberato l'umanità dal capitalismo, dallo sfruttamento.
Marx ed Engels hanno insegnato al proletariato ad acquistare coscienza della propria forza, dei propri interessi di classe e ad unirsi per una lotta decisiva contro la borghesia. Marx ed Engels hanno scoperto le leggi secondo le quali la società capitalistica si sviluppa ed hanno dimostrato scientificamente che lo sviluppo della società capitalistica e la lotta di classe nel seno di questa società devono inevitabilmente portare alla caduta del capitalismo, alla vittoria del proletariato, alla dittatura del proletariato .
Marx ed Engels hanno insegnato che non è possibile liberarsi dal dominio del capitale e trasformare con mezzi pacifici la proprietà capitalistica in proprietà sociale; che la classe operaia può giungervi solo con la violenza rivoluzionaria contro la borghesia, con la rivoluzione proletaria , instaurando il proprio dominio politico, la dittatura del proletariato, la quale deve schiacciare la resistenza degli sfruttatori e creare una nuova società, la società comunista senza classi.
Marx ed Engels hanno insegnato che il proletariato industriale è la classe più rivoluzionaria e, quindi, la classe d'avanguardia della società capitalistica, e che una sola classe come il proletariato può raccogliere intorno a sé tutte le forze malcontente del capitalismo e condurle all'assalto. Ma per vincere il vecchio mondo e creare una società nuova, senza classi, il proletariato deve avere il proprio partito operaio, che Marx ed Engels hanno chiamato partito comunista.
Diffondere le idee di Marx e di Engels: ecco ciò che intraprese il primo gruppo marxista russo, il gruppo dell'«Emancipazione del lavoro» di Plekhanov.
Quando il gruppo dell'«Emancipazione del lavoro» impegnò la lotta per il marxismo nella stampa russa all'estero, il movimento socialdemocratico non esisteva ancora in Russia. Era indispensabile innanzi tutto aprire la via a questo movimento sull'arena teorica e ideologica. E il più grosso ostacolo ideologico alla diffusione del marxismo socialdemocratico era, in quel tempo, costituito dalle concezioni populistiche, prevalenti allora tra gli operai d'avanguardia e gli intellettuali di aspirazioni rivoluzionarie.
Con lo sviluppo del capitalismo in Russia, la classe operaia diventava una potente forza d'avanguardia, capace di condurre una lotta rivoluzionaria organizzata. Ma la funzione d'avanguardia della classe operaia non era compresa dai populisti. Essi a torto ritenevano che la principale forza rivoluzionaria fosse rappresentata non dalla classe operaia, ma dai contadini e che il dominio dello zar e dei proprietari fondiari potesse essere rovesciato soltanto dalle «rivolte» contadine. I populisti non conoscevano la classe operaia e non comprendevano che, senza l'alleanza con la classe operaia e senza la sua direzione, i contadini non avrebbero potuto vincere lo zarismo e i proprietari fondiari. Essi non capivano che la classe operaia era la classe più rivoluzionaria e più avanzata della società.
I populisti avevano dapprima tentato di condurre i contadini alla lotta contro il governo dello zar. A tal fine i giovani intellettuali rivoluzionari, in abito contadino, erano andati nelle campagne, «al popolo», come si diceva allora. Di qui, il nome di «populisti». Ma essi non furono seguiti dai contadini, che, del resto, essi non conoscevano né comprendevano bene. Dopo che la polizia li ebbe in maggioranza arrestati, i populisti decisero di continuare la lotta contro l'autocrazia zarista con le loro sole forze, senza il popolo, ciò che condusse a errori ancora più gravi.
La società segreta populista Narodnaia Volia [La volontà del popolo], passò alla preparazione di attentati contro lo zar, e il 1° marzo 1881, dei suoi aderenti riuscivano, con una bomba, a uccidere lo zar Alessandro II. Ma il popolo non ne ricavò alcun vantaggio. Sopprimendo alcuni uomini, non era possibile rovesciare l'autocrazia zarista, né annientare la classe dei proprietari fondiari. Il posto dello zar ucciso fu preso da un altro: Alessandro III, durante il cui regno l'esistenza degli operai e dei contadini divenne ancora più penosa.
La via prescelta dai populisti per lottare contro lo zarismo, quella degli attentati individuali, del terrorismo individuale, era falsa e nociva per la rivoluzione. La politica del terrorismo individuale si ispirava alla falsa teoria populistica degli «eroi» attivi e della «folla» passiva, che attende dagli «eroi» le grandi gesta. Secondo quella falsa teoria, soltanto le individualità eccezionali fanno la storia, mentre la massa, il popolo, la classe, la «folla», come si esprimevano, con una smorfia di disprezzo, gli scrittori populisti, è incapace di azioni coscienti, organizzate, ma può solo seguire ciecamente gli «eroi». Ecco perché i populisti avevano rinunciato ad ogni attività rivoluzionaria di massa tra i contadini e la classe operaia ed erano passati al terrorismo individuale. E avvenne così che essi indussero Stefano Khalturin, uno dei più grandi rivoluzionari del tempo, ad abbandonare il lavoro organizzativo d'una unione operaia rivoluzionaria per consacrarsi interamente al terrorismo.
I populisti distoglievano i lavoratori dalla lotta contro la classe degli oppressori, uccidendo senza alcun vantaggio per la rivoluzione alcuni rappresentanti isolati di questa classe. E in tal modo ostacolavano lo sviluppo dell'iniziativa rivoluzionaria e dell'attività della classe operaia e dei contadini.
I populisti impedivano alla classe operaia di comprendere la sua funzione dirigente nella rivoluzione, ostacolavano la creazione di un partito autonomo della classe operaia.
Sebbene l'organizzazione segreta dei populisti fosse stata distrutta dal governo dello zar, le concezioni populistiche sopravvissero ancora a lungo tra gli intellettuali di aspirazioni rivoluzionarie. I populisti superstiti resistevano ostinatamente alla diffusione del marxismo in Russia e impedivano alla classe operaia di organizzarsi.
Ecco perché il marxismo in Russia poté svilupparsi e rafforzarsi solo lottando contro i populisti.
Fu il gruppo dell'«Emancipazione del lavoro» che impegnò la lotta contro le concezioni false dei populisti e dimostrò quale danno le loro teorie e i loro metodi di lotta recassero al movimento operaio.
Nei suoi articoli contro i populisti, Plekhanov dimostrò che le loro concezioni non avevano nulla di comune col socialismo scientifico, nonostante il titolo di socialisti che essi si davano.
Plekhanov fu il primo a criticare marxisticamente le concezioni false dei populisti. Battendole in breccia, Plekhanov, nello stesso tempo, sviluppò una brillante difesa delle concezioni marxiste.
Quali erano questi errori principali dei populisti, a cui Plekhanov assestò un rude colpo?
Primo. I populisti affermavano che il capitalismo era in Russia un fenomeno «casuale», che non vi si sarebbe sviluppato e che neppure il proletariato, quindi, vi si sarebbe rafforzato e sviluppato.
Secondo. I populisti non consideravano la classe operaia come la classe all'avanguardia della rivoluzione. Essi sognavano di giungere al socialismo senza il proletariato. Essi consideravano i contadini, diretti dagli intellettuali, come la principale forza della rivoluzione e la comunità contadina come l'embrione e la base del socialismo.
Terzo. I populisti avevano delle concezioni false e nocive sul corso della storia del genere umano. Essi non conoscevano, essi non comprendevano le leggi dello sviluppo economico e politico della società e, da questo punto di vista, erano del tutto arretrati. Secondo loro, non erano né le classi, né la lotta di classe che facevano la storia, ma soltanto delle individualità eminenti, degli «eroi», che le masse, la «folla», il popolo, le classi seguivano ciecamente.
Lottando contro i populisti e smascherandoli, Plekhanov scrisse una serie di opere marxiste, sulle quali i marxisti in Russia studiarono e si educarono. Le opere di Plekhanov. come «Il socialismo e la lotta politica», «Le nostre divergenze», «Studio sullo sviluppo della concezione monistica della storia», prepararono il terreno per la vittoria del marxismo in Russia.
Plekhanov vi espose le questioni fondamentali del marxismo. Particolarmente importante fu il suo «Studio sullo sviluppo della concezione monistica della storia», edito nel 1895. Lenin disse che su quel libro «si educò un'intera generazione di marxisti russi». (Lenin, «Opere complete», vol. XIV, pag. 347 ed. russa).
Nei suoi scritti contro i populisti, Plekhanov dimostrò che era assurdo porre il quesito come essi facevano: deve o non deve il capitalismo svilupparsi in Russia? La verità è questa, diceva, sulla base dei fatti, Plekhanov: la Russia è già entrata nella via dello sviluppo capitalistico e nessuna forza può farla deviare.
I rivoluzionari non potevano proporsi di frenare lo sviluppo del capitalismo in Russia - e in nessun modo, del resto, avrebbero potuto farlo. Dovevano invece basarsi sulla imponente forza rivoluzionaria generata dallo sviluppo del capitalismo: sulla classe operaia; dovevano svilupparne la coscienza di classe; dovevano organizzarla ed aiutarla a costituire il proprio partito, il partito operaio.
Plekhanov confutò un'altra concezione essenziale e non meno falsa dei populisti: la negazione della funzione d'avanguardia del proletariato nella lotta rivoluzionaria. I populisti consideravano il sorgere del proletariato in Russia come una specie di «calamità storica»; parlavano nei loro scritti della «piaga della proletarizzazione». Plekhanov, difendendo la dottrina marxista e dimostrando che essa era applicabile in pieno alla Russia, dimostrava che, nonostante la prevalenza numerica dei contadini e la relativa inferiorità numerica del proletariato, proprio nel proletariato, nel suo sviluppo, i rivoluzionari dovevano riporre le loro migliori speranze.
Perché proprio nel proletariato?
Perché - rispondeva - il proletariato, nonostante la sua inferiorità numerica attuale, è la classe lavoratrice legata alla forma più progredita dell'economia - alla grande produzione, e perché ha, dato questo fatto, un grande avvenire.
Perché il proletariato, come classe, cresce di anno in anno, si sviluppa politicamente, può facilmente organizzarsi per le condizioni stesse del lavoro nella grande industria e perché è eminentemente rivoluzionario, in virtù della sua stessa condizione proletaria, nulla avendo da perdere nella rivoluzione, fuorché le proprie catene.
Ben diversa è la situazione dei contadini.
I contadini [si trattava allora dei contadini individuali], nonostante la loro grande importanza numerica, costituiscono la classe lavoratrice che è legata alla forma più arretrata dell'economia, alla piccola produzione, e perciò, non ha né può avere, un grande avvenire.
I contadini, non soltanto non crescono, come classe, ma al contrario, si differenziano , d'anno in anno, in borghesia (kulak) e in contadini poveri (proletari, semiproletari). Inoltre, data la loro dispersione, i contadini più difficilmente si prestano all'organizzazione e, in quanto piccoli proprietari, partecipano meno volentieri del proletariato al movimento rivoluzionario.
I populisti affermavano che in Russia si sarebbe giunti al socialismo non già attraverso la dittatura del proletariato, bensì attraverso la comunità contadina, che essi consideravano come l'embrione e la base del socialismo. Ma questa comunità non era, non poteva essere né la base, né l'embrione del socialismo, poiché vi dominavano i kulak, veri vampiri che dissanguavano i contadini poveri, gli operai agricoli e i piccoli contadini. La proprietà comune della terra, che esisteva ufficialmente, e la ridistribuzione della terra a cui si procedeva ogni tanto, proporzionalmente ai membri delle famiglie, non mutavano affatto la situazione. Della terra usufruivano soltanto quei membri della comunità che possedevano scorte vive e morte e sementi, cioè soltanto i contadini agiati e i kulak. I contadini che non possedevano neppure un cavallo, i contadini poveri e, in generale, i piccoli contadini, si vedevano costretti a cedere la loro terra ai kulak e ad offrire le loro braccia come giornalieri. La comunità contadina, in realtà, non serviva che a mascherare le usurpazioni dei kulak ed era un comodo mezzo nelle mani dello zarismo per riscuotere le tasse dai contadini, secondo il principio della responsabilità collettiva. Ecco perché lo zarismo non toccava la comunità contadina. Era dunque ridicolo considerarla come l'embrione o la base del socialismo.
Plekhanov confutò anche la terza concezione essenziale e non meno falsa dei populisti. I populisti attribuivano ma funzione di prim'ordine, nello sviluppo sociale, agli «eroi», alle individualità eccezionali ed alle loro idee, e ritenevano invece che le masse, la «folla», il popolo, le classi avessero solo una funzione insignificante. Plekhanov accusò i populisti di idealismo , dimostrando che la verità non era dalla parte dell'idealismo, ma dalla parte del materialismo di Marx ed Engels.
Plekhanov chiarì e sviluppò la concezione del materiaIismo marxista. Ispirandosi ai principi di questa dottrina, egli dimostrò che lo sviluppo della società è determinato, in ultima analisi, non già dai desideri e dalle idee delle individualità eccezionali, bensì dallo sviluppo delle condizioni materiali di esistenza della società, dai mutamenti che avvengono nei modi di produzione dei beni materiali necessari all'esistenza della società, dalle modificazioni delle relazioni fra le classi nel campo della produzione dei beni materiali, e infine dalla lotta delle classi per la loro funzione e il loro posto rispettivi nel campo della produzione e della distribuzione dei beni materiati. Non sono le idee, dunque, che determinano la situazione economica e sociale degli uomini, ma è la situazione economica e sociale degli uomini che determina le loro idee. Le individualità eccezionali possono diventare delle nullità, se le loro idee e aspirazioni contrastano con lo sviluppo economico della società, con le necessità della classe d'avanguardia. Uomini eccezionali possono, invece, veramente eccellere se le loro idee e le loro aspirazioni esprimono in modo esatto le necessità dello sviluppo economico della società, le necessità della classe d'avanguardia.
Alle affermazioni dei populisti che la massa è una folla e che soltanto gli eroi fanno la storia e trasformano la folla in popolo, i marxisti rispondevano: no, non sono gli eroi che fanno la storia, ma è la storia che fa gli eroi, e quindi non sono gli eroi che creano il popolo, ma è il popolo che crea gli eroi e fa progredire la storia. Gli eroi, le individualità eccezionali possono avere una grande parte nella vita sociale, solo nella misura in cui sanno comprendere in modo giusto le condizioni di sviluppo della società, e comprendere come migliorarle. Gli eroi, le individualità eccezionali possono venirsi a trovare nella situazione ridicola di uomini falliti ed inutili, se non sanno comprendere giustamente le condizioni di sviluppo della società e si scagliano contro le necessità storiche della società, pretendendo di essere i «facitori» della storia.
È a questa categoria di eroi falliti che appartenevano precisamente i populisti.
Gli scritti, la lotta di Plekhanov, compromisero seriamente l'influenza dei populisti tra gli intellettuali rivoluzionari. Ma la disfatta ideologica del populismo era ben lungi dall'essere completa. Questo compito - dare il colpo di grazia al populismo come nemico del marxismo – era riserbato a Lenin.
La maggioranza dei populisti, poco dopo la disfatta del partito «La Volontà del Popolo», rinunciò alla lotta rivoluzionaria contro il governo dello zar e si mise a predicare la riconciliazione, l'accordo col governo. I populisti, dal 1880 al 1900, diventarono i portavoce degli interessi dei kulak.
Il gruppo dell'«Emancipazione del lavoro» elaborò due progetti di programma per i socialdemocratici russi (il primo nel 1884 e il secondo nel 1887). Un passo molto importante era fatto verso la fondazione di un partito socialdemocratico marxista in Russia.
Ma il gruppo dell'«Emancipazione del lavoro» commise anche gravi errori. Il suo primo progetto di programma racchiudeva ancora residui di concezioni populistiche, ammetteva la tattica del terrorismo individuale.
Plekhanov inoltre non si rendeva conto che, nel corso della rivoluzione, il proletariato poteva e doveva mettersi alla testa dei contadini, e che soltanto avendo come alleato i contadini poteva vincere lo zarismo. Plekhanov considerava inoltre la borghesia liberale come una forza capace di dare un appoggio, sia pure precario, alla rivoluzione. I contadini, invece, in alcuni suoi scritti, erano completamente dimenticati, come quando, ad esempio, scriveva:
 
Oltre la borghesia e il proletariato, noi non vediamo altre forze sociali sulle quali possano appoggiarsi nel nostro paese le intese d'opposizione o rivoluzionarie. (Plekhanov, «Opere», vol. III, pag. 119 ed. russa).
 
Queste idee false di Plekhanov racchiudevano l'embrione delle sue future concezioni mensceviche.
Tanto il gruppo dell'«Emancipazione del lavoro» quanto i circoli marxisti di quel tempo, in pratica, non erano ancora collegati col movimento operaio. Era ancora il periodo in cui in Russia la teoria marxista, le idee marxiste, i princìpi programmatici della socialdemocrazia si limitavano ad apparire ed affermarsi. Nel decennio 1884- 1894, la socialdemocrazia esisteva soltanto nella forma di piccoli gruppi e di circoli poco o nulla collegati col movimento operaio di massa. Simile al bimbo non ancora nato, ma che già si sviluppa nel seno materno, la socialdemocrazia, come scriveva Lenin, attraversava «un processo di sviluppo uterino ».
Il gruppo dell'«Emancipazione del lavoro» - indicava Lenin - «aveva fondato solo teoricamente la socialdemocrazia e fatto solo il primo passo verso il movimento operaio».
Spettò a Lenin di risolvere tanto il problema della fusione del marxismo col movimento operaio in Russia quanto quello della correzione degli errori commessi dal gruppo dell'«Emancipazione del lavoro».
 


3. L'inizio dell'attività rivoluzionaria di Lenin. L'«Unione di lotta per l'emancipazione della classe operaia» a Pietroburgo.
Vladimiro Jlic Ulianov (Lenin), fondatore del bolscevismo, nacque a Simbirsk (oggi Ulianovsk) nel 1870. Nel 1887, Lenin entrò all'Università di Kazan, ma, arrestato, ne fu presto espulso per la sua partecipazione al movimento rivoluzionario studentesco. A Kazan, Lenin aveva aderito a un circolo marxista organizzato da Fedosseiev. Trasferitosi a Samara, Lenin raggruppò rapidamente attorno a sè il primo circolo marxista di quella città. Fin da allora, egli sorprendeva tutti per la sua conoscenza del marxismo.
Sul finire del 1893, Lenin va ad abitare a Pietroburgo. Già i suoi primi discorsi producono una grande impressione sui soci dei circoli marxisti pietroburghesi. Le sue conoscenze profondissime, la sua capacità nell'applicare il marxismo alla situazione economica e politica della Russia contemporanea, la sua fede ardente e incrollabile nella vittoria della causa operaia, le sue grandi attitudini organizzative: tutto ciò fece di Lenin il dirigente riconosciuto dei marxisti pietroburghesi.
Lenin era molto amato dagli operai d'avanguardia che frequentavano i circoli dove egli insegnava.
«Le nostre lezioni - ricorda l'operaio Babusckin a proposito delle lezioni svolte da Lenin nei circoli operai – destavano un vivo interesse; noi tutti ne eravamo molto soddisfatti e ammiravamo sempre l'ingegno del nostro conferenziere».
Nel 1895, Lenin raggruppò a Pietroburgo tutti i circoli marxisti operai (ve n'era già una ventina) nell'«Unione di lotta per l'emancipazione della classe operaia». Così egli preparava la costituzione di un partito operaio rivoluzionario marxista.
Lenin assegnò all'«Unione di lotta» il compito di collegarsi più strettamente con il movimento operaio di massa e di assumerne la direzione politica. Dalla propaganda del marxismo tra pochi operai di avanguardia, riuniti in circoli di propaganda, Lenin propose di passare all'agitazione politica sulle questioni di, attualità tra le grandi masse della classe operaia. La svolta così effettuata verso l'agitazione tra le masse fu della massima importanza per lo sviluppo del movimento operaio in Russia.
Dopo il 1890, nell'industria s'iniziò un periodo di ascesa. Il numero degli operai aumentò; il movimento operaio si sviluppò. Dal 1895 al 1899 scioperarono, secondo dati non completi, non meno di 221 mila operai. Il movimento operaio diveniva una forza considerevole nella vita politica del paese. La vita stessa veniva così confermando le idee sostenute dai marxisti, nella lotta contro i populisti, circa la funzione d'avanguardia della classe operaia nel movimento rivoluzionario.
Diretta da Lenin, l'«Unione di lotta per l'emancipazione della classe operaia» collegava la lotta degli operai per le rivendicazioni economiche - miglioramento delle condizioni di lavoro, diminuzione della giornata lavorativa, aumento di salari - con la lotta politica contro lo zarismo. L'«Unione di lotta» educava politicamente gli operai.
Diretta da Lenin, l'«Unione di lotta per l'emancipazione della classe operaia», - di Pietroburgo, - fu la prima a realizzare in Russia la fusione del socialismo col movimento operaio . Quando uno sciopero scoppiava in una fabbrica l'«Unione di lotta», che, per mezzo degli aderenti ai suoi circoli, conosceva benissimo la situazione nei vari stabilimenti, interveniva subito, diffondendo manifestini e appelli socialisti. Quei manifestini denunciavano l'oppressione a cui gli operai erano sottoposti da parte degli industriali, spiegavano come gli operai dovevano lottare per i propri interessi, esponevano le rivendicazioni operaie. I manifestini proclamavano tutta la verità sulle piaghe del capitalismo, sulla vita miserrima degli operai, sulla opprimente giornata di 12-14 ore, sulla loro situazione di pària. Al tempo stesso, vi si trovavano le rivendicazioni politiche adeguate. Il 1894 stava per finire, quando Lenin scrisse, insieme all'operaio Babusckin, il primo di questi manifestini d'agitazione con un appello agli scioperanti dell'officina Semiannikov di Pietroburgo. Nell'autunno del 1895, Lenin rivolse un manifestino agli operai e alle operaie in isciopero della fabbrica Thornton, appartenente ad industriali inglesi che incassavano milioni di profitti. La giornata lavorativa superava le 14 ore e i tessitori guadagnavano mensilmente circa 7 rubli. Lo sciopero si concluse con la vittoria. In breve volgere di tempo, l'«Unione di lotta» stampò decine di manifestini analoghi rivolti agli operai di vari stabilimenti. Ognuno di quei foglietti animava potentemente gli operai, i quali vedevano che i socialisti li aiutavano e difendevano.
Diretti dall'«Unione di lotta», 30 mila tessili scioperarono a Pietroburgo nell'estate del 1896. La rivendicazione principale era la diminuzione della giornata lavorativa. Sotto la pressione di quello sciopero, il governo dello zar si vide costretto a promulgare la legge del 2 giugno 1897, che limitava la giornata lavorativa a 11 ore e mezzo. Fino a quel momento, nessun limite era esistito, in generale, alla giornata di lavoro.
Nel dicembre 1895, Lenin è arrestato dal governo dello zar. Ma anche in prigione, egli continua la lotta rivoluzionaria. Aiuta l'«Unione di lotta» con consigli e suggerimenti; spedisce dalla prigione opuscoli e manifestini. È allora che Lenin scrive l'opuscolo «Sugli scioperi» e il manifestino «Al governo zarista», in cui denuncia i feroci arbìtri del governo dello zar. È in prigione che Lenin scrive ancora il progetto di programma del partito. (Lo scrive con del latte tra le righe di un libro di medicina).
L'«Unione di lotta» di Pietroburgo dette un poderoso impulso al raggruppamento dei circoli operai in analoghe unioni anche in altre città e regioni della Russia. Verso il 1895, organizzazioni marxiste sorgono in Transcaucasia. Nel 1894, a Mosca, si costituisce l'«Unione operaia». In Siberia, verso il 1900, si forma l'«Unione socialdemocratica» siberiana. Nel decennio 1890-1900 a Ivanovo-Voznessensk, a Iaroslavl, a Kostroma, nascono dei gruppi marxisti che in seguito formeranno l'Unione settentrionale del partito socialdemocratico». A cominciare dal 1895, a Rostov sul Don, Iekaterinoslav, Kiev, Nikolaiev, Tula, Samara, Kazan, Orekhovo-Zuevo e altre città sorgono gruppi e unioni socialdemocratiche.
L'«Unione di lotta per l'emancipazione della classe operaia» di Pietroburgo costituì, come disse Lenin, il primo serio embrione di un partito rivoluzionario basato sui movimento operaio: in ciò risiede la sua importanza.
Ed è all'esperienza rivoluzionaria dell'«Unione di lotta» di Pietroburgo che Lenin si ispirò lavorando in seguito alla creazione del partito marxista socialdemocratico di Russia. Dopo l'arresto di Lenin e dei suoi compagni di lotta più stretti, la direzione dell'«Unione di lotta» di Pietroburgo subì considerevoli modificazioni. Degli uomini nuovi erano apparsi che si attribuivano il titolo di «giovani», mentre qualificavano come «vecchi» Lenin ed i suoi compagni. Questi «giovani», si misero a seguire una linea politica falsa. Essi affermavano che bisognava chiamare gli operai solamente alla lotta economica contro i padroni; in quanto alla lotta politica, era la borghesia liberale che doveva incaricarsene e doveva assumerne la direzione.
A costoro si dette il nome di «economisti».
Era il primo gruppo conciliatore, opportunista, nelle file delle organizzazioni marxiste di Russia.
 


4. Lotta di Lenin contro il populismo e il «marxismo legale». Concezione di Lenin sull'alleanza della classe operaia coi contadini. Il Congresso del Partito operaio socialdemocratico di Russia.
Benché già Plekhanov, nel decennio 1880-1890, avesse battuto in breccia il sistema delle concezioni populistiche, nei primi anni del decennio successivo una parte della gioventù rivoluzionaria nutriva ancora simpatie per quelle concezioni. Vi era chi continuava a pensare che la Russia potesse evitare la via di sviluppo capitalistico e che la funzione principale nella rivoluzione spettasse ai contadini anziché alla classe operaia. I populisti superstiti cercavano in tutti i modi d'impedire la diffusione del marxismo in Russia; essi impegnarono la lotta contro i marxisti diffamandoli in tutti i modi. Era perciò necessario demolire dalle fondamenta il populismo sull'arena ideologica, per assicurare la diffusione continua del marxismo e la possibilità di fondare un partito socialdemocratico.
Questo compito fu assolto da Lenin.
Nel suo libro «Che cosa sono gli "amici del popolo” e come lottano contro i socialdemocratici» (1894), Lenin strappò la maschera ai populistri, a questi falsi «amici del popolo» che, nella pratica, marciavano contro il popolo.
I populisti nel decennio 1890-1900 avevano, in realtà, rinunciato da lunga data ad ogni lotta rivoluzionaria contro il governo dello zar. I populisti liberali predicavano la riconciliazione col governo zarista. «Essi pensavano semplicemente, osservava Lenin parlando dei populisti di quel periodo, che se lo si prega con grazia e dolcezza, il governo potrà accomodare tutto nel migliore dei modi». (Lenin, «Opere scelte», vol. I, pag. 302, Cooperativa Editrice dei Lavoratori Esteri nell'URSS, ed. italiana).
I populisti del decennio 1890-1900 chiudevano gli occhi sulle condizioni dei contadini poveri, sulla lotta di classe nelle campagne, sullo sfruttamento dei contadini poveri da parte dei kulak, decantavano i progressi delle aziende dei kulak. Essi, in realtà, si rivelavano come i portavoce degli interessi dei kulak.
Contemporaneamente, nelle loro riviste, i populisti attaccavano i marxisti. Deformando e travisando scientemente le concezioni dei marxisti russi, essi li accusavano di voler la rovina dei contadini, di voler «cucinare ogni mugik nella caldaia della fabbrica». Smascherando quella menzognera campagna dei populisti, Lenin dimostrò che non si trattava affatto dei «desideri» dei marxisti, ma della reale marcia dello sviluppo capitalistico in Russia in seguito al quale il numero dei proletari sarebbe inevitabilmente cresciuto e il proletariato sarebbe diventato il becchino del regime capitalistico.
Lenin dimostrò che i veri amici del popolo, coloro che volevano distruggere il giogo dei capitalisti e dei proprietari fondiari, distruggere lo zarismo, non erano i populisti, ma i marxisti.
Nel suo libro «Che cosa sono gli "amici del popolo”», Lenin espose per la prima volta l'idea dell'alleanza rivoluzionaria degli operai e dei contadini, come mezzo principale per abbattere lo zarismo, i proprietari fondiari, la borghesia.
Lenin, in parecchi suoi lavori di quel periodo, criticò anche i mezzi di lotta politica impiegati dalla «Volontà del Popolo», il gruppo principale dei populisti, e, più tardi, dei loro continuatori, i socialisti- rivoluzionari, in particolare la tattica del terrorismo individuale. Lenin considerava questa tattica nociva al movimento rivoluzionario, poiché sostituiva alla lotta delle masse la lotta degli eroi isolati. Questa tattica rivelava mancanza di fiducia nel movimento rivoluzionario popolare.
Nel libro «Che cosa sono gli "amici del popolo”», Lenin tracciò gli obbiettivi fondamentali dei marxisti russi. Lenin pensava che i marxisti russi dovevano, in primo luogo, organizzare, con i circoli marxisti isolati, un partito operaio socialista unico. Lenin rilevava inoltre che la classe operaia di Russia, avendo come alleato i contadini, avrebbe rovesciato l'autocrazia zarista e che, successivamente, il proletariato russo avendo come alleato le masse lavoratrici e sfruttate e a fianco del proletariato degli altri paesi, avrebbe preso la strada maestra di un'aperta lotta politica, verso la vittoria della rivoluzione comunista.
Ecco come, più di quarant'anni fa, Lenin indicò giustamente il cammino che la classe operaia doveva seguire nella sua lotta, determinò la sua funzione di forza rivoluzionaria d'avanguardia nella società, e definì la funzione dei contadini, in quanto alleati della classe operaia.
Già nel decennio 1890-1900, la lotta di Lenin e dei suoi compagni contro il populismo si era conclusa con la definitiva disfatta del populismo sull'arena ideologica.
Di grandissima importanza fu anche la lotta di Lenin contro il «marxismo legale». Ma come sempre accade nella storia, ai grandi movimenti sociali si aggregano dei «compagni di strada» temporanei. Tra questi «compagni di strada» si trovano anche i cosiddetti «marxisti legali ». Quando il marxismo ebbe assunto un largo sviluppo in Russia, gli intellettuali borghesi incominciarono ad indossare l'abito marxista. Essi facevano stampare i loro articoli nei giornali e nelle riviste legali, cioè permesse dal governo dello zar; di qui il nome di «marxisti legali».
I «marxisti legali» lottavano a modo loro contro il populismo. Ma essi cercavano di utilizzare questa lotta e la bandiera del marxismo per subordinare e adattare il movimento operaio agli interessi della società borghese, agli interessi della borghesia. Della dottrina di Marx essi respingevano la parte essenziale, cioè la teoria della rivoluzione proletaria, della dittatura del proletariato. Il marxista legale più noto, Pietro Struve, decantava la borghesia, e invece di incitare alla lotta rivoluzionaria contro il capitalismo, invitava a «riconoscere la propria mancanza di cultura e a mettersi alla scuola del capitalismo».
Nella lotta contro i populisti, Lenin riteneva ammissibile accordi temporanei coi «marxisti legali» allo scopo di utilizzarli contro i populisti, per pubblicare insieme, ad esempio, una raccolta di scritti contro quel partito. Ma, contemporaneamente, Lenin criticava molto aspramente i «marxisti legali», additandone la sostanza liberale borghese.
Molti di quei «compagni di strada» dovevano divenire in seguito cadetti (partito principale della borghesia russa), e durante la guerra civile, delle guardie bianche in piena regola.
Contemporaneamente alle «Unioni di lotta» di Pietroburgo, di Mosca, di Kiev, ecc., varie organizzazioni socialdemocratiche sorsero fra le nazionalità delle regioni periferiche a occidente della Russia. Dopo il 1890, gli elementi marxisti abbandonarono il partito nazionalista polacco e costituirono la «Social-democrazia di Polonia e di Lituania». Verso il 1900, sorsero le organizzazioni della Social-democrazia lettone. Nell'ottobre del 1897, nei governatorati occidentali della Russia, fu costituita l'Unione Generale Socialdemocratica ebrea: il Bund.
Nel 1898, alcune «Unioni di lotta» - quelle di Pietroburgo, di Mosca, di Kiev, di Ieckaterinoslav, - insieme col Bund , fecero un primo tentativo di unificarsi in un partito socialdemocratico. A tal fine, convocarono il I Congresso del Partito Operaio Socialdemocratico di Russia (P.O.S.D.R.) nel marzo 1898, a Minsk.
Al primo congresso del P.O.S.D.R. parteciparono solo nove delegati. Lenin non poteva essere presente, poiché, in quel tempo, si trovava in Siberia, deportato. Il Comitato Centrale del partito, eletto al Congresso, fu poco dopo arrestato. Il «Manifesto», lanciato a nome del Congresso, su parecchi punti lasciava molto a desiderare: non parlava della conquista del potere politico da parte del proletariato; nulla diceva sull'egemonia del proletariato, e nulla neppure sugli alleati del proletariato, nella sua lotta contro lo zarismo e la borghesia.
Ma, nelle sue risoluzioni e nel «Manifesto», il congresso proclamava costituito il Partito Operaio Socialdemocratico di Russia.
È in questo atto formale, destinato ad avere una grande efficacia per la propaganda rivoluzionaria, che risiede l'importanza del I Congresso del P.O.S.D.R.
Tuttavia, sebbene il I Congresso si fosse riunito, il partito socialdemocratico marxista non si era ancora effettivamente costituito in Russia. Il congresso non era riuscito a raggruppare i circoli e le varie organizzazioni marxiste, né ad unirle con vincoli organizzativi. Non vi era ancora una linea unica nell'azione delle organizzazioni locali; non vi era né un programma, né uno statuto del partito; non esisteva, inoltre, un unico centro direttivo.
Per queste, e numerose altre ragioni ancora, si era accresciuto lo sbandamento ideologico nelle organizzazioni locali, il che creava condizioni propizie al rafforzamento di una corrente opportunistica, la corrente dell'«economismo» nel movimento operaio.
Furono necessari alcuni anni di lavoro intenso, da parte di Lenin e del giornale Iskra («La Scintilla»), da lui fondato, per superare lo sbandamento, vincere le oscillazioni opportunistiche e preparare la formazione del Partito Operaio Socialdemocratico di Russia.
 


5. Lotta di Lenin contro l'«economismo». Lenin fonda il giornale “Iskra”
Al I Congresso del P.O.S.D.R. Lenin non aveva dunque potuto partecipare, trovandosi allora in Siberia deportato nel villaggio di Sciuscienskoie, dove, dopo una lunga detenzione nelle prigioni di Pietroburgo, per la sua attività nell'«Unione di lotta», era stato relegato dal governo.
Ma, anche deportato, Lenin continuava la sua attività rivoluzionaria. E in Siberia terminò il grande lavoro scientifico «Lo sviluppo del capitalismo in Russia», che completò la disfatta ideologica del populismo. Così pure, durante la deportazione, scrisse il celebre opuscolo: «I compiti dei socialdemocratici russi».
Sebbene fosse staccato dall'attività rivoluzionaria pratica e diretta, Lenin era riuscito, dal luogo di deportazione in cui si trovava, a conservare legami con alcuni militanti; era in corrispondenza con loro, domandava informazioni e dava consigli. Egli si preoccupava, in quel tempo, soprattutto della questione degli «economisti». Egli comprendeva meglio di chiunque che l'«economismo» rappresentava il nucleo centrale della politica di conciliazione, dell'opportunismo, che la vittoria dell'«economismo» nel movimento operaio avrebbe significato la rovina del movimento rivoluzionario del proletariato e la sconfitta del marxismo.
E Lenin attaccò gli «economisti», fin dal loro apparire.
Gli «economisti» affermavano che gli operai dovevano lottare solo sul terreno economico, mentre alla lotta politica doveva pensarci la borghesia liberale, che gli operai dovevano appoggiare. Lenin considerava che, con questa propaganda, gli «economisti» rinnegavano il marxismo, negavano la necessità, per la classe operaia, di avere un partito politico autonomo e tentavano di trasformare la classe operaia in un'appendice politica della borghesia.
Nel 1899, un gruppo di «economisti», Prokopovic, Kuskova ed altri, passati più tardi ai cadetti, lanciarono un manifesto, in cui prendevano posizione contro il marxismo rivoluzionario ed esigevano che si rinunciasse alla fondazione di un partito autonomo del proletariato, che si rinunciasse alle rivendicazioni politiche indipendenti formulate dalla classe operaia. Essi sostenevano che la lotta politica era un compito della borghesia liberale, mentre per gli operai era sufficiente la lotta economica contro i padroni.
Dopo aver preso conoscenza di quel documento opportunistico, Lenin convocò un convegno dei deportati marxisti che si trovavano nelle vicinanze, e diciassette compagni, con a capo Lenin, formularono la loro protesta e la loro requisitoria contro le posizioni degli «economisti».
Questa protesta, redatta da Lenin, fu diffusa nelle organizzazioni marxiste in tutta la Russia ed ebbe un'immensa importanza nello sviluppo del pensiero marxista e del partito marxista nel paese.
Gli «economisti» russi sostenevano le stesse idee professate dagli avversari del marxismo nei partiti socialdemocratici all'estero, da coloro che si chiamavano bernsteiniani, ossia dai seguaci dell'opportunista Bernstein.
Perciò la lotta di Lenin contro gli «economisti» era al tempo stesso una lotta contro l'opportunismo internazionale.
Fu principalmente il giornale illegale Iskra , fondato da Lenin, che condusse la lotta contro l'«economismo», per la costituzione di un partito politico autonomo del proletariato.
All'inizio del 1900, Lenin e altri membri dell'«Unione di lotta» tornarono in Russia dalla deportazione siberiana. Lenin aveva concepito il progetto di fondare un grande giornale marxista illegale per tutta la Russia. I numerosi piccoli circoli e organizzazioni marxiste già esistenti in Russia non erano ancora collegati tra di loro. In un momento in cui, secondo le parole del compagno Stalin, «un lavoro alla maniera artigiana, a circoli isolati l'un dall'altro, logorava da cima a fondo il partito, nel momento in cui lo sbandamento ideologico era la caratteristica della vita interna del partito», la fondazione di un giornale illegale per tutta la Russia costituiva il compito fondamentale dei marxisti rivoluzionari russi. Solo questo giornale poteva collegare tra di loro le sparse organizzazioni marxiste e preparare la costituzione di un vero partito.
Ma non era possibile organizzare un giornale simile nella Russia dello zar, date le continue persecuzioni poliziesche. Dopo uno o due mesi, il giornale sarebbe stato scoperto dagli sbirri della polizia segreta zarista e distrutto. Lenin decise perciò di pubblicarlo all'estero. Il giornale venne stampato su carta sottilissima e molto resistente e inviato clandestinamente in Russia. Vari numeri dell'lskra venivano poi ristampati in Russia nelle tipografie clandestine di Bakù, di Kiscinev, della Siberia.
Nell'autunno del 1900, Vladimiro Ilic Lenin si recò all'estero per mettersi d'accordo coi compagni del gruppo dell'«Emancipazione del lavoro» circa la pubblicazione del giornale politico per tutta la Russia. Questa idea Lenin l'aveva maturata in tutti i particolari in esilio. Tornando dalla Siberia, aveva tenuto in proposito molte conferenze a Ufa, Pskov, Mosca, Pietroburgo. Ovunque si era accordato coi compagni circa il cifrario per la corrispondenza segreta, gli indirizzi per l'invio delle pubblicazioni del partito, ecc. e ovunque aveva discusso il piano per le lotte future.
Il governo dello zar si veniva accorgendo che Lenin era un suo nemico estremamente pericoloso. Nella sua corrispondenza segreta, l'agente dell'Okhrana [istituzione della polizia politica segreta nella Russia zarista, creata per lottare contro il movimento rivoluzionario], il gendarme Zubatov, scriveva: «Nel campo rivoluzionario, oggi, nessuno è più forte di Ulianov» (Lenin), e giudicava perciò opportuno che si preparasse l'assassinio di Lenin.
Giunto all'estero, Lenin si accordò con il gruppo dell'«Emancipazione del lavoro», ossia con Plekhanov, Axelrod, Vera Zassulic, per la pubblicazione in comune dell'Iskra . Tutto il piano della pubblicazione fu da Lenin elaborato da cima a fondo.
Nel dicembre del 1900, uscì all'estero il primo numero del giornale Iskra («La Scintilla»). Sotto il titolo, si leggeva il motto: «Dalla scintilla scaturirà la fiamma», motto tolto dalla risposta dei decabristi [rivoluzionari sorti dalla nobiltà che si rivoltarono contro l'autocrazia e il regime della servitù della gleba, nel dicembre 1825] al poeta Pusckin che aveva inviato loro un saluto in Siberia, dove erano stati deportati.
E infatti dall'lskra (dalla «scintilla»), accesa da Lenin scaturì in seguito la fiamma del grande incendio rivoluzionario che ridusse in cenere la monarchia zarista dei nobili e dei grandi proprietari fondiari e il dominio della borghesia.
 


Conclusioni riassuntive
Il Partito Operaio Socialdemocratico marxista di Russia, si è formato dapprima nella lotta contro il populismo, contro le sue concezioni false e nocive alla causa della rivoluzione.
Solo quando i populisti furono battuti sull'arena ideologica, fu possibile aprire la via alla fondazione del partito operaio marxista in Russia. Nel decennio 1880-1890, Plekhanov e il suo gruppo dell'«Emancipazione del lavoro» avevano dato un colpo decisivo al populismo.
Lenin, nel decennio 1890-1900, completò la disfatta ideologica del populismo, gli diede il colpo di grazia.
Il gruppo dell'«Emancipazione del lavoro», fondato nel 1883, svolse un lavoro importante per la diffusione del marxismo in Russia, fornì una base teorica alla socialdemocrazia e fece il primo passo verso il movimento operaio.
Con lo sviluppo del capitalismo in Russia, gli effettivi del proletariato industriale aumentarono rapidamente. Verso il 1885, la classe operaia si pose sulla via di una lotta organizzata, sulla via di un'azione di massa sotto la forma di scioperi organizzati. Ma i circoli e i gruppi marxisti si occupavano solo di propaganda, non comprendevano la necessità di passare all'agitazione di massa fra la classe operaia. Ecco perché, nella pratica, non erano ancora collegati con il movimento operaio, non lo dirigevano.
La fondazione, a Pietroburgo (1895), per opera di Lenin, dell'«Unione di lotta per .l'emancipazione della classe operaia», la quale svolse una vasta agitazione tra gli operai e diresse grandi scioperi, segnò una nuova tappa - il passaggio all'agitazione di massa tra gli operai e la fusione del marxismo con il movimento operaio. L'«Unione i lotta per l'emancipazione della classe operaia», di Pietroburgo, rappresentò il primo embrione del partito proletario rivoluzionario in Russia. Seguendo l'esempio dell'«Unione di lotta» di Pietroburgo, si fondarono organizzazioni marxiste in tutti i principali centri industriali, come pure nelle regioni periferiche del paese.
Nel 1898, si riunì il I Congresso del P.O.S.D.R., primo tentativo, per altro sterile, di unificare le organizzazioni socialdemocratiche marxiste in un partito. Ma quel congresso non fondò ancora il partito; non vi era né un programma, ne uno statuto del partito, né un unico centrò direttivo; non esisteva quasi nessun legame tra i vari circoli e gruppi marxisti.
Per unire e collegare in un solo partito le sparse organizzazioni marxiste, Lenin stabilì e realizzò il piano di fondazione del primo giornale dei marxisti rivoluzionari per tutta la Russia - l'Iskra .
Alla fondazione di un partito operaio politico unico si opponevano in quel periodo soprattutto gli «economisti». Essi ne negavano la necessità. Essi favorivano la dispersione dei vari gruppi e la loro tendenza a lavorare in modo artigiano. Contro gli «economisti» Lenin e l'Iskra da lui fondata diressero i loro colpi.
La pubblicazione dei primi numeri dell'Iskra (1900-1901) segnò il passaggio ad un nuovo periodo, al periodo della formazione effettiva, mediante la fusione dei vari gruppi e circoli isolati, di un unico partito operaio socialdemocratico di Russia.
II.
Fondazione del Partito operaio socialdemocratico di Russia. Formazione del Partito delle frazioni bolscevica e menscevica
(1901-1904)
 


1. L'ascesa del movimento rivoluzionario in Russia nel 1901-1904
Alla fine del secolo XIX, scoppiò in Europa una crisi industriale che coinvolse in breve tempo anche la Russia. Durante la crisi (1900-1901), circa 3 mila stabilimenti grandi e piccoli chiusero i battenti e oltre 100 mila operai furono gettati sul lastrico. I salari degli operai rimasti al lavoro diminuivano fortemente. Le poche concessioni che gli operai avevano strappato nei precedenti tenaci scioperi economici erano loro ritolte dai capitalisti.
La crisi industriale e la disoccupazione non arrestarono, però, né indebolirono il movimento operaio. Al contrario, la lotta degli operai assunse un carattere sempre più rivoluzionario. Dagli scioperi economici, gli operai passano agli scioperi politici, e, infine, scatenano dimostrazioni, presentano rivendicazioni politiche per le libertà democratiche e lanciano la parola d'ordine: «Abbasso l'autocrazia zarista!».
Nel 1901, lo sciopero del 1° Maggio nell'officina di materiale bellico Obukhov di Pietroburgo si trasforma in un conflitto sanguinoso tra gli operai e la truppa. Dalle truppe zariste, armate fino ai denti, gli operai possono difendersi soltanto a colpi di pietra e di pezzi di ferro. E la loro accanita resistenza è spezzata. Segue una repressione feroce: circa 800 operai arrestati, molti gettati in galera e condannati ai lavori forzati. Ma l'eroica «difesa di Obukhov» influì grandemente sugli operai della Russia, suscitando una vasta ondata di simpatia.
Nel marzo del 1902, a Batum, si svolsero grandi scioperi e una dimostrazione operaia organizzata dal Comitato socialdemocratico della città. Questa manifestazione mise in movimento gli operai e le masse contadine della Transcaucasia.
Nello stesso anno 1902, un grande sciopero scoppiò a Rostov sul Don. Scioperarono dapprima i ferrovieri, che furono presto raggiunti dagli operai di molte officine. Lo sciopero metteva in movimento tutti gli operai; alle assemblee che si tennero per alcuni giorni alla periferia della città, partecipavano fino a 30 mila operai. In quelle riunioni, si leggevano ad alta voce i proclami socialdemocratici e gli oratori potevano pronunciare i loro discorsi. La polizia e i cosacchi non erano sufficienti per sciogliere quei comizi di decine di migliaia di lavoratori. Parecchi operai essendo stati uccisi dalla polizia, il giorno seguente si svolse una grandiosa dimostrazione operaia durante i loro funerali. Solo concentrando a Rostov le truppe delle città vicine, il governo dello zar riuscì a soffocare lo sciopero. La lotta degli operai di Rostov era stata diretta dal comitato del P.O.S.D.R. della regione del Don.
Un'ampiezza ancora maggiore presero gli scioperi del 1903. In quell'anno parecchi vasti scioperi politici scoppiano nella Russia meridionale, estendendosi alla Transcaucasia (Bakù, Tiflis, Batum), e alle grandi città ucraine (Odessa, Kiev, Iekaterinoslav). Gli scioperi diventano sempre più tenaci e sempre meglio organizzati. A differenza di ciò che avveniva durante i movimenti precedenti della classe operaia, quasi ovunque la lotta politica degli operai è ora diretta dai comitati socialdemocratici.
La classe operaia della Russia sorgeva così alla lotta rivoluzionaria contro il potere dello zar.
Il movimento operaio influì sulle masse dei contadini. Nella primavera e nell'estate del 1902, in Ucraina (nei governatorati di Poltava e di Kharkov), come pure nel bacino del Volga, scoppiò un vasto movimento contadino; i contadini incendiavano i beni dei proprietari, occupavano i fondi e uccidevano gli odiati zemskie nacialniki [nobili investiti di funzioni giudiziarie e amministrative ed esercitanti diritti di polizia] e signori della terra. Contro i contadini insorti, s'inviò la truppa che sparò sulla massa, si procedette a centinaia di arresti e si gettarono in carcere i dirigenti e gli organizzatori; ma il movimento rivoluzionario dei contadini continuava tuttavia a svilupparsi.
L'azione rivoluzionaria degli operai e dei contadini dimostrava che in Russia stava maturando, era imminente la rivoluzione.
Sotto l'influenza della lotta rivoluzionaria degli operai, anche il movimento studentesco di opposizione si accentuò. Il governo, in risposta alle dimostrazioni e agli scioperi studenteschi, chiuse le università, gettò centinaia di studenti in prigione e, infine, escogitò l'espediente di incorporare nell'esercito gli studenti ribelli. A loro volta gli studenti di tutti gli istituti superiori promossero, nell'inverno del 1901-1902, uno sciopero generale a cui parteciparono quasi 30 mila studenti.
Il movimento rivoluzionario degli operai e dei contadini, e, soprattutto, la repressione contro gli studenti obbligarono persino i borghesi liberali e i proprietari fondiari liberali che facevano parte dei cosiddetti zemstvo a muoversi e ad elevare una loro «protesta» contro le «esagerazioni» del governo dello zar che si accaniva contro i loro rampolli, contro gli studenti.
I liberali degli zemstvo si servivano, come punto di appoggio, degli zemskie upravy , organismi amministrativi cui erano affidate le questioni prettamente locali, riguardanti la popolazione rurale (costruzione di strade, ospedali, scuole). I proprietari fondiari liberali vi avevano un peso assai notevole. Essi erano strettamente legati coi borghesi liberali, con i quali quasi si confondevano, poiché anch'essi cominciavano a passare, nelle loro proprietà, dall'economia semifeudale all'economia capitalistica, che era più redditizia. Questi due gruppi liberali, naturalmente, difendevano il governo dello zar, ma si opponevano alle sue «esagerazioni», temendo che proprio quelle «esagerazioni» rafforzassero il movimento rivoluzionario. Essi temevano le «esagerazioni» dello zarismo, ma temevano ancor più la rivoluzione. Protestando contro le «misure estreme», i liberali si proponevano due scopi: da un lato, di «far capire la ragione» allo zar e, dall'altro, di fingersi in preda a un «grande malcontento» contro lo zarismo, conquistare la fiducia del popolo, distoglierlo, almeno in parte, alla rivoluzione e, in tal modo, indebolire il movimento rivoluzionario.
Il movimento liberale degli zemstvo , certamente, non poneva affatto in pericolo l'esistenza dello zarismo, ma dimostrava tuttavia che, nelle «secolari» basi dello zarismo, le cose non procedevano poi tutte bene.
Dal movimento liberale degli zemstvo , sorse, nel 1902, il gruppo borghese Osvobozdenie [La liberazione], embrione di quello che fu in seguito il principale partito della borghesia russa, il partito cadetto.
Vedendo il movimento rivoluzionario operaio e contadino dilagare nel paese, come un torrente sempre più minaccioso, lo zarismo prende i provvedimenti più feroci per arrestarlo. Sempre più sovente, contro gli scioperi e le dimostrazioni operaie, si lanciano le forze armate; il piombo e lo staffile diventano la risposta consueta del governo dello zar ai movimenti operai e contadini; le prigioni e i luoghi di deportazione rigurgitano di condannati.
Pur intensificando la repressione, il governo dello zar tenta, d'altra parte, di distogliere gli operai dal movimento rivoluzionario con qualche altro provvedimento più «duttile», che non abbia un carattere di repressione. Si tenta di creare alcune pretese organizzazioni operaie, sotto la tutela dei gendarmi e della polizia: le organizzazioni che vennero allora chiamate del «socialismo poliziesco» o organizzazioni zubatoviste (dal nome del colonnello dei gendarmi Zubatov, che le aveva fondate). L'Okhrana zarista, per bocca dei suoi agenti, si sforza di persuadere gli operai che lo stesso governo dello zar sarebbe pronto ad aiutarli perché siano soddisfatte le loro rivendicazioni economiche. «Perché occuparsi di politica, perché organizzare la rivoluzione, se lo stesso zar è dalla parte degli operai?», dicono gli agenti di Zubatov, che hanno costituito in alcune città le loro organizzazioni. Sul modello delle organizzazioni zubatoviste e con gli stessi intenti, è fondata nel 1904, dal pope Gapon, un'organizzazione che prende il nome di «Riunione degli operai russi delle fabbriche e officine di Pietroburgo».
Ma il tentativo dell'Okhrana zarista di prendere in mano le redini del movimento operaio fece fiasco. Il governo dello zar non poteva far fronte al dilagare del movimento operaio con espedienti di questo genere. Il crescente movimento rivoluzionario della classe operaia si sbarazzò di queste organizzazioni poliziesche.
 


2. Piano di Lenin per la creazione del Partito marxista. L'opportunismo degli «economisti». Lotta dell'«Iskra» per il piano di Lenin. Libro di Lenin «Che fare?». Fondamenti ideologici del Partito marxista.
Benché, nel 1898, il I Congresso del Partito socialdemocratico di Russia lo avesse dichiarato costituito, il partito tuttavia non si era ancora formato. Non c'era né programma né statuto. Il Comitato Centrale, eletto al I Congresso, era stato arrestato e non era più stato ricostituito, poiché non c'era più nessuno che si potesse accingere a questo lavoro. Inoltre, dopo il I Congresso, si erano ancora più accentuati sia lo sbandamento ideologico, sia la dispersione organizzativa del partito.
Gli anni dal 1884 al 1894 avevano rappresentato un decennio di vittorie sul populismo e di preparazione ideologica della socialdemocrazia. Il quadriennio 1894-1898 era stato un periodo di tentativi, sia pure infruttuosi, di costituire, con le organizzazioni marxiste isolate, il partito socialdemocratico. Il periodo che seguì il 1898 segnò nel partito un aumento della confusione ideologica e organizzativa. La vittoria del marxismo sul populismo, e i movimenti rivoluzionari della classe operaia, che avevano dimostrato quanto avessero ragione i marxisti, avevano rafforzato le simpatie della gioventù rivoluzionaria per il marxismo. Il marxismo divenne di moda. E il risultato fu che, nelle organizzazioni marxiste, affluirono masse di giovani intellettuali rivoluzionari, teoricamente deboli, inesperti nelle questioni organizzative e politiche, e che sul marxismo avevano solo delle idee confuse, in gran parte false, attinte dagli scritti opportunistici di cui i «marxisti legali» riempivano la stampa. Questo fenomeno aveva abbassato il livello teorico e politico delle organizzazioni marxiste, vi aveva introdotto la mentalità opportunistica dei «marxisti legali», aveva accentuato il disordine ideologico, le oscillazioni politiche e la confusione organizzativa.
L'ascesa sempre più vigorosa del movimento operaio e l'evidente approssimarsi della rivoluzione esigevano la fondazione di un partito unico e centralizzato della classe operaia, capace di dirigere il movimento rivoluzionario. Ma le organizzazioni locali del partito, i comitati, i gruppi, i circoli locali si trovavano in una situazione così deplorevole, la loro dispersione organizzativa e le loro divergenze ideologiche erano così profonde, che la fondazione di un tale partito era immensamente difficile.
Era difficile, non solo perché il partito doveva essere costituito sotto l'imperversare delle feroci persecuzioni dello zarismo che, ad ogni momento, strappava dalle file di molte organizzazioni i militanti migliori per deportarli, cacciarli in prigione o ai lavori forzati; era difficile anche perché molti comitati locali e i loro militanti volevano occuparsi soltanto del loro ristretto lavoro pratico locale, e non comprendevano quale danno recasse la mancanza di unità organizzativa e ideologica nel partito. Essi si erano abituati allo sbriciolamento del partito, alle divergenze ideologiche e ritenevano che si potesse fare a meno di un partito unico centralizzato.
Per creare un partito centralizzato, bisognava, quindi, superare l'arretratezza, l'inerzia e il ristretto praticismo delle organizzazioni locali.
Ma ciò non era tutto. Nel partito si era formato un gruppo abbastanza numeroso che aveva i suoi giornali: la Rabociaia Mysl [«Il Pensiero operaio»], in Russia e il Raboceie Dielo [«La Causa Operaia»], all'estero. Questo gruppo dava allo sbriciolamento organizzativo e allo sbandamento ideologico una giustificazione teorica, non di rado anzi li decantava, considerando inutile e artificiale la costituzione di un partito politico della classe operaia unico, centralizzato.
Erano gli «economisti» e i loro seguaci.
Per creare un partito politico unico del proletariato, bisognava innanzi tutto battere gli «economisti».
Adempiere questi compiti, creare il partito della classe operaia: ecco ciò che intraprese Lenin.
Da che cosa incominciare? Diverse erano le opinioni. Alcuni pensavano che, per creare il partito unico della classe operaia, si doveva innanzi tutto convocare il II Congresso che avrebbe unificato le organizzazioni locali e fondato il partito. Lenin non era di questo avviso. Egli riteneva che, prima di riunire il Congresso, bisognava definire chiaramente gli scopi e i compiti del partito; bisognava sapere quale partito volevamo fondare; bisognava delimitarsi ideologicamente dagli «economisti»; bisognava dire al partito, con onestà e franchezza, che esistevano due diverse concezioni sugli scopi e i compiti del partito, la concezione degli «economisti» e quella dei socialdemocratici rivoluzionari; bisognava sviluppare una vasta propaganda nella stampa in favore delle concezioni della socialdemocrazia rivoluzionaria, come facevano, nella propria stampa, gli «economisti» in favore delle loro; bisognava che le organizzazioni locali potessero scegliere con piena conoscenza di causa tra queste due correnti; e solo dopo tutto questo indispensabile lavoro preliminare, sarebbe stato possibile riunire il congresso del partito.
Lenin diceva apertamente:
 
Prima di unirsi e per unirsi, è necessario innanzi tutto delimitarsi risolutamente e deliberatamente. (Lenin, «Che fare?», pag. 28, Edizioni Italiane di Coltura Sociale, Parigi 1935).
 
Ecco perché Lenin pensava che, per creare il partito politico della classe operaia, era necessario fondare innanzi tutto un giornale politico di lotta per tutta la Russia, il quale svolgesse una propaganda e un'agitazione in favore delle concezioni della socialdemocrazia rivoluzionaria; la pubblicazione di questo giornale doveva essere il primo passo verso la fondazione del partito.
Nel suo notissimo articolo: «Da dove incominciare?», Lenin abbozzò, per la costruzione del partito, un piano preciso, sviluppato in seguito nel suo celebre libro «Che fare?».
 
Noi pensiamo - diceva Lenin in quell'articolo - che il punto di partenza della nostra attività, il primo passo pratico verso la creazione dell'organizzazione che noi desideriamo [si tratta della fondazione del partito], infine, il mezzo essenziale per sviluppare, approfondire e allargare continuamente questa organizzazione, deve essere la fondazione di un giornale politico per tutta la Russia... Senza questo giornale, qualsiasi propaganda, qualsiasi agitazione sistematica, molteplice e fedele ai princìpi, è impossibile. Eppure questo è il compito principale e costante della socialdemocrazia in generale ed è soprattutto un compito attuale, oggi, mentre i più vasti strati della popolazione prestano sempre maggiore attenzione alla politica, alle questioni del socialismo. (Lenin, «Opere», vol. IV, pag. 110 ed. russa).
 
Lenin pensava che un giornale siffatto doveva servire, non soltanto a dare un'unità ideologica al partito, ma anche a riunire in seno al partito le organizzazioni locali. La rete degli agenti e dei corrispondenti del giornale, rappresentanti delle organizzazioni locali, doveva costituire l'ossatura intorno a cui doveva organizzarsi e raggrupparsi il partito. Poiché - diceva Lenin - «il giornale non è solo un propagandista collettivo e un agitatore collettivo, ma è anche un organizzatore collettivo».
 
Questa rete di agenti - scriveva Lenin nello stesso articolo - rappresenterà l'ossatura dell'organizzazione che ci è necessaria: abbastanza estesa per abbracciare il paese intero, abbastanza larga e differenziata per realizzare una severa e particolareggiata divisione del lavoro, abbastanza ferma per saper fare il suo lavoro senza incertezza, in ogni circostanza, qualunque siano le «svolte» e le sorprese; abbastanza flessibile per saper, da un lato, evitare il combattimento in campo aperto contro un nemico numericamente superiore, che ha raccolto tutte le sue forze in un sol punto, e, dall'altro, per saper trarre profitto dalla scarsa agilità del nemico e attaccarlo nel luogo e nel momento in cui meno se lo aspetta. (Ibidem , pag. 112).
 
L'lskra doveva essere un tale giornale.
Ed effettivamente, l'Iskra divenne il giornale politico, destinato a tutta la Russia, che preparò il consolidamento del partito sull'arena ideologica e organizzativa.
Circa la struttura e la composizione del partito, Lenin pensava che due parti dovevano costituirlo: a) un quadro limitato di militanti fissi, composto principalmente di rivoluzionari di professione, cioè di militanti liberi da qualsiasi lavoro estraneo a quello del partito, i quali avessero il minimo indispensabile di cognizioni teoriche, di esperienza politica e di pratica organizzativa e conoscessero l'arte di lottare contro la polizia zarista, di sfuggire alle sue indagini; b) una larga rete di organizzazioni periferiche del partito, comprendenti una grande massa di aderenti e sostenute dalla simpatia e dall'appoggio di centinaia di migliaia di lavoratori.
 
Affermo - scriveva Lenin - 1) che non potrà esservi un movimento rivoluzionario solido senza un'organizzazione stabile di dirigenti che ne assicuri la continuità di lavoro; 2) che quanto più numerosa è la massa entrata spontaneamente nella lotta,... tanto più imperiosa è la necessità di siffatta organizzazione e tanto più questa organizzazione deve essere solida... 3) che tale organizzazione deve essere composta principalmente di uomini, che abbiano come professione l'attività rivoluzionaria; 4) che in un paese autocratico, quanto più noi ridurremo gli effettivi di una tale organizzazione, fino ad accettarvi solamente i rivoluzionari di professione, educati dalla loro attività rivoluzionaria alla lotta contro la polizia politica, tanto più sarà difficile «pescare» siffatta organizzazione, e 5) tanto più numerosi saranno gli operai e gli elementi delle altre classi che potranno partecipare al movimento e militarvi attivamente. (Lenin, «Che fare?» pag. 130, Edizioni Italiane di Coltura Sociale, 1935).
 
Circa il carattere del partito che si stava per costituire e la sua funzione rispetto alla classe operaia e così pure circa i suoi scopi e i suoi compiti, Lenin pensava che il partito doveva essere l'avanguardia della classe operaia, la forza dirigente del movimento operaio, la forza unificatrice ed orientatrice della lotta di classe del proletariato. Scopo finale del partito: rovesciare il capitalismo e costruire il socialismo. Obiettivo immediato: rovesciare lo zarismo ed instaurare l'ordine democratico. E siccome non era possibile rovesciare il capitalismo, senza aver prima rovesciato lo zarismo, il compito essenziale del partito, in quel momento, consisteva nel sollevare la classe operaia, nel sollevare tutto il popolo alla lotta contro lo zarismo, nello scatenare il movimento rivoluzionario del popolo contro lo zarismo, nel rovesciare lo zarismo, in quanto primo e serio ostacolo sulla via verso il socialismo.
 
La storia ci pone oggi un compito immediato, - diceva Lenin - il più rivoluzionario di tutti i compiti immediati del proletariato di qualunque altro paese. L'adempimento di questo compito, la distruzione del baluardo più potente, non solo della reazione europea, ma anche (oggi possiamo dirlo) della reazione asiatica, farebbe del proletariato russo l'avanguardia del proletariato rivoluzionario internazionale. (Ibidem , pag. 34).
 
E ancora:
 
Non dobbiamo dimenticare che la lotta contro il governo per delle rivendicazioni parziali, la lotta per conquistare delle concessioni parziali, non sono che piccoli scontri con il nemico, piccole scaramucce d'avamposti e che la battaglia decisiva non è ancora cominciata. Dinanzi a noi si eleva formidabile la fortezza nemica, dalla quale ci vengono scagliati contro nembi di ferro e fuoco che schiantano i nostri migliori combattenti. Noi dobbiamo conquistare quella fortezza, e noi la conquisteremo, se uniremo tutte le forze del proletariato che si risveglia, con tutte le forze dei rivoluzionari russi, in un solo partito che radunerà tutto quanto di vivo e di onesto c'è in Russia. Soltanto allora si avvererà la grande profezia dell'operaio rivoluzionario russo, Pietro Alexeiev: «Le braccia muscolose di milioni di lavoratori si leveranno e il giogo del dispotismo, difeso dalle baionette dei soldati, sarà ridotto in polvere». (Lenin, «Opere», vol. IV, pag. 59 ed. russa).
 
Tale era il piano di Lenin per la costituzione del partito della classe operaia, nella Russia zarista autocratica.
Gli «economisti» non tardarono ad aprire il fuoco contro il piano di Lenin.
Gli «economisti» pretendevano che la lotta politica generale contro lo zarismo fosse compito di tutte le classi e, innanzi tutto, della borghesia e questa lotta non fosse quindi di serio interesse per la classe operaia, poiché gli operai si dovevano interessare principalmente della lotta economica contro i padroni per l'aumento dei salari, il miglioramento delle condizioni di lavoro, e così via. Sicché, i socialdemocratici avrebbero dovuto porsi come compito immediato e principale, non già la lotta politica contro lo zarismo, né il suo rovesciamento, ma l'organizzazione della «lotta economica degli operai contro i padroni e contro il governo». Per la lotta economica contro il governo, gli «economisti» intendevano la lotta per il miglioramento della legislazione sociale. Essi pretendevano che, per questa via, si poteva «imprimere alla stessa lotta economica un carattere politico».
Gli «economisti» non osavano più schierarsi ufficialmente contro la necessità di un partito politico per la classe operaia. Ma ritenevano che il partito non dovesse costituire la forza dirigente del movimento operaio, né dovesse immischiarsi nel movimento spontaneo della classe operaia né tanto meno dirigerlo, ma dovesse seguirlo, studiarlo e trarne degli insegnamenti.
Gli «economisti» pretendevano anche che la funzione dell'elemento cosciente nel movimento operaio, la funzione organizzatrice e dirigente della coscienza socialista e della teoria socialista fosse insignificante o quasi, che la socialdemocrazia non dovesse elevare gli operai al livello della coscienza socialista, ma, al contrario, adattarsi e scendere al livello degli strati mediocremente sviluppati, ed anche più arretrati, della classe operaia, che, inoltre, la socialdemocrazia non dovesse apportare alla classe operaia la coscienza socialista, ma dovesse attendere che il movimento spontaneo della classe operaia avesse esso stesso formato, con le sue proprie forze, la coscienza socialista.
Infine, il piano organizzativo di Lenin per la costruzione del partito era considerato dagli «economisti» come se si fosse voluto, in certo modo, violentare il movimento spontaneo.
Sulle colonne dell'Iskra , e soprattutto nel suo celebre libro «Che fare?», Lenin sferrò un poderoso attacco contro la filosofia opportunistica degli «economisti», non lasciandone pietra su pietra.
1. Lenin dimostrò che distogliere la classe operaia dalla lotta politica generale contro lo zarismo, limitarne i compiti alla lotta economica contro i padroni e il governo, senza toccare né gli uni, né l'altro, significava condannare gli operai a un'eterna schiavitù. La lotta economica degli operai contro i padroni e il governo era una lotta trade-unionista per migliorare le condizioni di vendita della forza-lavoro ai capitalisti. Gli operai, però, volevano lottare, non soltanto per migliorare le condizioni di vendita della propria forza-lavoro, ma anche per distruggere lo stesso sistema capitalistico che li obbligava a vendere la propria forza-lavoro ed a sottomettersi allo sfruttamento dei capitalisti. Ma gli operai non potevano sviluppare la lotta contro il capitalismo, non potevano lottare per il socialismo, finché la via del movimento operaio era sbarrata dallo zarismo, cane da guardia del capitale. Il compito immediato del partito e della classe operaia era, quindi, di sbarazzare la strada dallo zarismo e di aprirsi il cammino verso il socialismo.
2. Lenin dimostrò che esaltare il processo spontaneo del movimento operaio e negare la funzione dirigente del partito, riducendo il suo compito a registrare gli avvenimenti, significava predicare il «codismo», porre cioè il partito alla coda del processo spontaneo, farne una forza passiva del movimento, capace soltanto di starsene a contemplare il processo spontaneo, e, infine, significava affidarsi solo alla spontaneità. Fare una simile propaganda equivaleva ad orientarsi verso la distruzione del partito, ossia a lasciare la classe operaia senza il partito, cioè disarmata. Ma lasciare la classe operaia disarmata, mentre le stavano di fronte nemici come lo zarismo, armato di tutto punto, e la borghesia, organizzata modernamente e con un proprio partito, un partito che dirigeva la sua lotta contro la classe operaia, - voleva dire tradire la classe operaia.
3. Lenin dimostrò che inchinarsi al movimento operaio spontaneo e ridurre la funzione dell'elemento cosciente, la funzione della coscienza socialista, della teoria socialista, significava, in primo luogo, beffarsi degli operai che aspiravano ad acquistare la coscienza come si aspira alla luce; in secondo luogo, svalutare di fronte al partito la teoria, ossia l'arma che gli permetteva di conoscere il presente e prevedere il futuro e, in terzo luogo, rotolare completamente e definitivamente nel pantano dell'opportunismo.
 
Senza teoria rivoluzionaria - diceva Lenin - non vi può nemmeno essere movimento rivoluzionario... Solo un partito guidato da una teoria d'avanguardia, può adempiere la funzione di combattente d'avanguardia. (Lenin, «Che fare?», pagg. 30-31, Edizioni Italiane di Coltura Sociale, Parigi 1935).
 
4. Lenin dimostrò che gli «economisti» ingannavano la classe operaia, pretendendo che l'ideologia socialista potesse sorgere dal movimento spontaneo della classe operaia, poiché, in realtà, l'ideologia socialista non sorge dal movimento spontaneo, ma dalla scienza. Gli «economisti», negando la necessità di apportare nella classe operaia la coscienza socialista, sgombravano in questo modo il cammino all'ideologia borghese, ne agevolavano l'entrata, la penetrazione nella classe operaia, e, quindi, seppellivano l'idea della fusione del movimento operaio e del socialismo, e facevano il giuoco della borghesia.
 
Ogni sottomissione alla spontaneità del movimento operaio - diceva Lenin - ogni restrizione della funzione dell'“elemento cosciente'', della funzione della socialdemocrazia, significa di per sé - non importa lo si voglia o no - un rafforzamento dell'influenza dell'ideologia borghese sugli operai. (Ibidem, pagg. 44-45).
 
E più avanti:
 
Il problema si pone solamente così: o ideologia borghese o ideologia socialista. Non c'è via di mezzo... Ecco perché ogni menomazione dell'ideologia socialista, ogni allontanamento da essa implica di necessità un rafforzamento dell'ideologia borghese. (Ibidem, pagg. 48-47).
 
5. Passando in rassegna tutti questi errori, Lenin giunse alla conclusione che gli «economisti» volevano, non già un partito di rivoluzione sociale, per liberare la classe operaia dal capitalismo, bensì un partito di «riforme sociali», con implicita la conservazione del dominio capitalistico, e, quindi, che gli «economisti» erano dei riformisti i quali tradivano gli interessi vitali del proletariato.
6. Lenin dimostrò, infine, che l'«economismo» non era un fenomeno causale in Russia; che gli «economisti» servivano da veicolo all'influenza borghese sulla classe operaia; che essi avevano degli alleati nei partiti socialdemocratici dell'Europa occidentale, cioè avevano per alleati i revisionisti, i fautori dell'opportunista Bernstein. Nella socialdemocrazia dell'Occidente, si veniva sempre più affermando una corrente opportunistica che, sotto le insegne della «libertà di critica» nei riguardi di Marx, esigeva la «revisione» della dottrina marxista (da cui la parola «revisionismo») e pretendeva che la socialdemocrazia rinunciasse alla rivoluzione, al socialismo, alla dittatura del proletariato. Lenin dimostrò che gli «economisti» russi seguivano questa stessa linea, la linea della rinuncia alla lotta rivoluzionaria, al socialismo, alla dittatura del proletariato.
Questi sono i fondamenti teorici essenziali sviluppati nel libro di Lenin «Che fare?».
La diffusione del «Che fare?» fece sì che, un anno dopo la sua pubblicazione (avvenuta nel marzo 1902), e cioè poco prima del II Congresso del partito socialdemocratico di Russia, rimanesse soltanto più uno spiacevole ricordo delle posizioni ideologiche dell'economismo, e l'epiteto di «economista» fosse ritenuto ingiurioso dalla maggioranza dei militanti.
Così l'«economismo» fu battuto in pieno sull'arena ideologica, così fu demolita l'ideologia dell'opportunismo, del «codismo», della spontaneità.
Ma l'importanza del «Che fare?» di Lenin non si limita a questo.
L'importanza storica del «Che fare?» sta nel fatto che, con questo celebre libro:
1) Lenin, nella storia del pensiero marxista, fu il primo a scoprire, fino alle radici, le origini ideologiche dell'opportunismo, dimostrando che esse si riducevano, innanzi tutto, al culto della spontaneità del movimento operaio e alla riduzione della funzione della coscienza socialista nel movimento operaio;
2) Elevò fortemente l'importanza della teoria, dell'elemento cosciente, del partito in quanto forza che dirige il movimento operaio spontaneo e lo impregna di spirito rivoluzionario;
3) Dimostrò mirabilmente il principio fondamentale marxista, secondo il quale il partito marxista è la fusione del movimento operaio e del socialismo;
4) Elaborò genialmente i fondamenti ideologici del partito marxista.
I princìpi teorici sviluppati nel «Che fare?» costituirono poi le basi dell'ideologia del partito bolscevico.
Forte di questa ricchezza teorica, l'lskra poté sviluppare e sviluppò veramente una grande campagna per il piano leninista di costruzione del partito, per raggruppare le sue forze, per il Il Congresso del partito, per una socialdemocrazia rivoluzionaria, contro gli «economisti», contro gli opportunisti di ogni specie e di ogni grado, contro i revisionisti.
Un compito essenziale dell'Iskra era quello di elaborare un progetto di programma del partito. Il programma del partito operaio espone brevemente, com'è noto, e in modo scientifico, gli scopi e i compiti di lotta che si propone la classe operaia. Il programma definisce lo scopo finale del movimento rivoluzionario del proletariato, come pure le rivendicazioni per le quali combatte il partito marciando verso lo scopo finale. Perciò, l'elaborazione del progetto di programma non poteva non avere un'importanza di prim'ordine.
Durante l'elaborazione del progetto sorsero gravi divergenze nella redazione dell'Iskra fra Lenin e Plekhanov e gli altri redattori. Le divergenze e le discussioni per poco non provocarono una rottura completa fra Lenin e Plekhanov. Ma la rottura non avvenne in quei momento: Lenin ottenne che nel progetto di programma fosse incluso un articolo essenziale sulla dittatura del proletariato e che fosse esattamente specificata la funzione dirigente della classe operaia nella rivoluzione.
Anche tutta la parte agraria del programma del partito ora dovuta a Lenin. Egli già allora era per la nazionalizzazione della terra, ma, in quella prima tappa della lotta, considerava necessario formulare la rivendicazione che fossero restituiti ai contadini gli «otrezki », cioè gli appezzamenti che i proprietari fondiari avevano, al tempo dell'«emancipazione», stralciati dalle terre dei contadini. Plekhanov era contro la nazionalizzazione della terra.
Le discussioni tra Lenin e Plekhanov sul programma del partito determinarono, in parte, le divergenze ulteriori tra bolscevichi e menscevichi.
 


3. Il II Congresso del Partito operaio socialdemocratico di Russia. Adozione del Programma e dello Statuto. Costituzione di un partito unico. Le divergenze al Congresso e la formazione di due correnti – bolscevica e menscevica – nel partito.
La vittoria dei princìpi leninisti e la lotta vittoriosa dell'Iskra per il piano organizzativo di Lenin avevano, dunque, preparato tutte le principali condizioni necessarie per creare un partito o, come si diceva allora, per costituire un vero partito. La linea dell'Iskra aveva vinto tra le organizzazioni socialdemocratiche in Russia. Si poteva, quindi, convocare il II Congresso del partito.
Il 17 luglio [30, secondo il nuovo stile] 1903, il II Congresso del P.O.S.D.R. si aprì all'estero, clandestinamente. All'inizio, si tenne a Bruxelles, ma, avendo la polizia invitato i delegati a lasciare il Belgio, si trasferì a Londra.
Complessivamente, si erano presentati al congresso 43 delegati di 26 organizzazioni. Ogni comitato aveva il diritto di inviare al congresso due delegati, ma certi comitati ne avevano mandato uno solo. Così 43 delegati disponevano di 51 voti deliberativi.
Il compito principale del congresso consisteva nel «creare un vero partito sui fondamenti di dottrina e d'organizzazione che erano stati formulati ed elaborati dall'Iskra» (Lenin, «Opere», voI. VI, pag. 164 ed. russa).
La composizione del congresso non era omogenea. In conseguenza della disfatta subìta, non si vedevano rappresentati al congresso gli «economisti» dichiarati. Durante quel tempo, si erano però camuffati così abilmente che erano riusciti a introdurvi alcuni dei loro delegati. Inoltre, i delegati del Bund si differenziavano solo a parole dagli «economisti»; di fatto sostenevano I'«economismo».
AI congresso partecipavano quindi non solo i partigiani dell'Iskra, ma anche i suoi avversari. I partigiani dell'Iskra erano 33, ossia in maggioranza. Però non tutti coloro che si dichiaravano iskristi erano dei veri iskristi-leninisti. I delegati si divisero in vari gruppi. I partigiani di Lenin, gli iskristi fermi, disponevano di 24 voti; 9 iskristi seguivano Martov, ed erano gli iskristi instabili. Una parte dei delegati oscillava fra l'Iskra e i suoi avversari: essi disponevano di 10 voti, formando il centro. Gli avversari dichiarati dell'Iskra disponevano di 8 voti (3 «economisti» e 5 bundisti). Se gli iskristi si fossero divisi, i nemici dell'Iskra avrebbero potuto prendere il. sopravvento.
Ecco, dunque, quanto era complicata la situazione al congresso. Lenin dovette svolgere uno estremo lavoro per assicurarvi la vittoria dell'Iskra .
Il problema più importante che il congresso dovette affrontare fu quello del programma del partito. E, durante la discussione del programma, la questione centrale che suscitò le obiezioni dell'ala opportunista del congresso fu quella della dittatura del proletariato. Gli opportunisti non erano d'accordo con l'ala rivoluzionaria del congresso neanche su parecchie altre questioni programmatiche. Ma avevano deciso di dare battaglia principalmente sulla questione della dittatura del proletariato, partendo dalla premessa che parecchi partiti socialdemocratici dell'estero non avevano inserito nel loro programma un articolo sulla dittatura del proletariato e affermando che lo si poteva, di conseguenza, omettere anche nel programma della socialdemocrazia russa.
Gli opportunisti si opponevano pure all'inclusione nel programma delle rivendicazioni riguardanti la questione contadina. Non volendo la rivoluzione, costoro respingevano gli alleati della classe operaia, i contadini, verso i quali dimostravano soltanto ostilità.
I bundisti e i socialdemocratici polacchi si pronunziavano, d'altra parte, contro il diritto delle nazioni all'autodecisione. Lenin aveva sempre insegnato che la classe operaia aveva il dovere di lottare contro l'oppressione nazionale. Opporsi all'inclusione nel programma di tale rivendicazione, voleva dire rinnegare l'internazionalismo proletario e rendersi complice dell'oppressione nazionale.
Lenin demolì tutte queste obiezioni.
E il congresso adottò il programma proposto dall'Iskra.
Il programma si componeva di due parti: programma massimo e programma minimo. Il programma massimo proclamava compito essenziale del partito della classe operaia: la rivoluzione socialista, il rovesciamento del regime capitalistico, l'instaurazione della dittatura del proletariato. Il programma minimo stabiliva i compiti immediati del partito, che si dovevano tradurre in atto prima ancora che fosse abbattuto il regime capitalistico e fosse instaurata la dittatura del proletariato: rovesciare, cioè, l'autocrazia zarista, instaurare la repubblica democratica, applicare la giornata lavorativa di otto ore per gli operai, sopprimere nelle campagne tutte le sopravvivenze della servitù della gleba, restituire ai contadini gli appezzamenti («otrezki » ) onde erano stati spogliati dai proprietari fondiari.
In seguito, i bolscevichi sostituirono la rivendicazione della riconsegna degli «otrezki » con la rivendicazione della confisca di tutte le terre dei grandi proprietari.
Il programma approvato al II Congresso era veramente il programma rivoluzionario del partito della classe operaia.
E rimase in vigore fino all'VIlI Congresso, quando il nostro partito, conseguita la vittoria della rivoluzione proletaria ne approvò uno nuovo.
Approvato il programma, il II Congresso passò a discutere il progetto dello statuto del partito. Dal momento che aveva adottato il programma e gettato i fondamenti dell'unificazione ideologica del partito, il congresso doveva approvare anche lo statuto per mettere risolutamente da parte il modo artigiano di lavoro, lo spirito di gruppo, lo sbriciolamento organizzativo e per introdurre una disciplina ferrea nel partito.
Ma, se il programma era stato approvato senza soverchie difficoltà, lo statuto del partito suscitò nel congresso una lotta accanita. Le divergenze più aspre scoppiarono a proposito della redazione dell'articolo primo dello statuto che stabiliva le condizioni per l'appartenenza al partito. Chi poteva essere membro del partito? Quale doveva essere la composizione del partito? Come doveva essere organizzativamente il partito? Un tutto organizzato o qualcosa di amorfo? Ecco quali questioni erano sorte sull'articolo primo dello statuto. Due formule si trovavano di fronte: quella di Lenin, sostenuta da Plekhanov e dagli iskristi fermi, e quella di Martov, sostenuta da Axelrod, dalla Zassulic, dagli iskristi instabili, da Trotzki e da tutta l'ala apertamente opportunista del congresso.
La formula di Lenin diceva: può essere membro del partito chiunque accetta il programma del partito, sostiene materialmente il partito ed è membro di una delle sue organizzazioni. La formula di Martov, pur ritenendo l'accettazione del programma e il sostegno materiale al partito, come condizioni indispensabili per l'iscrizione al partito, non riteneva però che l'appartenenza ad una delle sue organizzazioni fosse condizione necessaria per l'adesione e riteneva che un membro del partito potesse anche non essere membro di una delle sue organizzazioni.
Lenin considerava il partito come un reparto organizzato , i cui membri non si attribuiscono da soli la qualità dei membri di partito, ma devono essere accettati nel partito da una delle sue organizzazioni e sottomettersi dunque alla disciplina di partito. Martov, invece, considerava il partito come qualche cosa di amorfo sotto l'aspetto organizzativo, i cui membri si qualificano tali da se stessi e non sono obbligati quindi a sottomettersi alla disciplina di partito, poiché non fanno parte di una delle sue organizzazioni.
Cosicché, la formula proposta da Martov, a differenza di quella di Lenin, spalancava le porte del partito agli elementi oscillanti, non proletari. Alla vigilia della rivoluzione democratico-borghese, tra gli intellettuali borghesi vi era chi simpatizzava momentaneamente con la rivoluzione. Costoro potevano anche, di quando in quando, rendere qualche servizio al partito. Ma però non avrebbero mai aderito ad un'organizzazione del partito, obbedito alla disciplina del partito, adempiuto i compiti assegnati dal partito e affrontato i pericoli derivanti dai compiti stessi. È questa gente che Martov e gli altri menscevichi proponevano di considerare come membri del partito. Ed è a questa gente che essi intendevano dare il diritto e la possibilità di influire sulla vita del partito. Martov e gli altri menscevichi proponevano persino di dare ad ogni scioperante il diritto di «attribuirsi» la qualità di membri del partito, sebbene agli scioperi partecipassero anche non socialisti, anarchici, socialisti-rivoluzionari.
Invece del Partito monolitico, combattivo, ben organizzato, per il quale lottavano Lenin e i leninisti, i seguaci di Martov volevano quindi un partito non omogeneo, mal definito, amorfo, che non poteva essere un partito combattivo, non fosse che per la sua eterogeneità e per l'assenza di una ferrea disciplina nel suo seno.
L'abbandono degli iskristi fermi da parte degli iskristi instabili, il blocco dei secondi col centro e l'adesione a questa alleanza degli opportunisti dichiarati, diedero su questo punto la prevalenza a Martov. Il congresso con 28 voti contro 22 e con un astenuto, approvò, per l'articolo primo dello statuto, la formula proposta da Martov.
Dopo la divisione degli iskristi sull'articolo primo dello statuto, la lotta s'inasprì ancor di più. Giunto quasi alla fine dei lavori, il congresso stava per procedere all'elezione degli organismi dirigenti del partito - la redazione dell'organo centrale del partito ( l'Iskra) e il Comitato Centrale - quando, prima che si precedesse alle elezioni, dei nuovi avvenimenti modificarono il rapporto delle forze in lotta.
In relazione allo statuto del partito, il congresso dovette occuparsi del Bund , che pretendeva una situazione particolare nel partito, esigendo di essere riconosciuto come l'unico rappresentante degli operai ebrei in Russia. Accettare una simile richiesta, voleva dire dividere gli operai, nelle organizzazioni del partito secondo il principio della nazionalità, e rinunciare quindi alle organizzazioni di classe uniche, della classe operaia, su di una base territoriale. Il congresso respinse il nazionalismo del Bund nel campo organizzativo. Allora, i bundisti abbandonarono il congresso. Anche due «economisti» - il congresso essendosi rifiutato di riconoscere la loro Unione nell'emigrazione come una rappresentanza del partito all'estero - abbandonarono i lavori.
L'uscita dal congresso di 7 opportunisti modificò il rapporto delle forze in favore dei leninisti.
Fin dall'inizio, l'attenzione di Lenin si era concentrata sul problema della composizione degli organismi centrali del partito. Lenin riteneva indispensabile eleggere al Comitato Centrale dei rivoluzionari fermi e conseguenti. I seguaci di Martov si sforzavano invece di far prevalere nel Comitato Centrale gli elementi instabili e opportunisti. La maggioranza del congresso, su questo punto, fu d'accordo con Lenin e al Comitato Centrale furono eletti dei partigiani di Lenin.
Su proposta di Lenin, furono eletti alla redazione dell'lskra Lenin, Plekhanov e Martov. Martov aveva insistito al congresso perché i sei ex-redattori dell'Iskra , la maggioranza dei quali erano suoi seguaci, fossero rieletti nella redazione. Ma il congresso, a maggioranza, aveva respinto la proposta ed eletto i tre candidati proposti da Lenin. Allora, Martov dichiarò che egli pure non avrebbe partecipato alla redazione dell'organo centrale.
Così, con l'elezione degli organismi centrali del partito, il congresso consacrò la sconfitta dei seguaci di Martov e la vittoria dei partigiani di Lenin.
Da quel momento, i partigiani di Lenin, che avevano ottenuto la maggioranza nelle elezioni congressuali, furono chiamati «bolscevichi» (dalla parola bolscinstvò , maggioranza); e gli avversari di Lenin, rimasti in minoranza, furono chiamati «menscevichi» (dalla parola menscinstvò , minoranza).
Tirando le somme, si possono ricavare le seguenti conclusioni sul II Congresso:
1) Il congresso consacrò la vittoria del marxismo sull'«economismo», sull'opportunismo dichiarato;
2) Il congresso adottò il programma e lo statuto; fondò un partito socialdemocratico e costituì, in tal modo, il quadro d'un partito unico;
3) Il congresso rivelò le gravi divergenze sulle questioni organizzative che divisero il partito in bolscevichi e menscevichi; i primi difendevano i princìpi organizzativi della socialdemocrazia rivoluzionaria, mentre i secondi scivolavano verso uno stato di delinquenza organizzativa, rotolavano nel pantano dell'opportunismo;
4) Il congresso mostrò che i vecchi opportunisti già battuti dal partito, gli «economisti», erano, a poco a poco, sostituiti nel partito da nuovi opportunisti: i menscevichi;
5) Il congresso non si mostrò all'altezza della situazione nei problemi organizzativi, esitò, dando talvolta la prevalenza ai menscevichi, e, quantunque rimessosi in carreggiata, alla fine, non soltanto non seppe smascherare l'opportunismo dei menscevichi nei problemi organizzativi, e isolarli nel partito, ma non seppe neppure porre di fronte al partito questo compito.
Il che costituì una delle principali ragioni del fatto che la lotta tra bolscevichi e menscevichi, non solo, dopo il congresso, non si attenuò, ma, al contrario, si inasprì ancor di più.
 


4. Gli atti scissionisti dei capi menscevichi. «L'inasprirsi della lotta in seno al partito dopo il II Congresso. L'opportunismo dei menscevichi. Il libro di Lenin «Un passo avanti e due indietro». I princìpi organizzativi del partito marxista.
Dopo il Il Congresso, la lotta in seno al partito diventò ancora più acuta. I menscevichi cercavano con tutti i mezzi di mandare a monte le decisioni del Il Congresso e di impadronirsi dei centri dirigenti del partito. Essi pretendevano che i loro rappresentanti fossero inclusi nella redazione dell'Iskra e nel Comitato Centrale, in una proporzione che assicurasse loro la maggioranza nella redazione e la parità con i bolscevichi nel Comitato Centrale. Siccome ciò era contrario alle precise deliberazioni del II Congresso, i bolscevichi respinsero queste pretese. I menscevichi costituirono allora, all'insaputa del partito, un'organizzazione frazionistica, ostile al partito, alla cui testa si trovavano Martov, Trotzki e Axelrod, e «scatenarono - come scriveva Martov - una sollevazione contro il leninismo». Il metodo di lotta contro il partito che essi prescelsero era quello di «disorganizzare tutto il lavoro del partito, di danneggiarlo, di frenarlo in tutto e per tutto» (espressione di Lenin). Trinceratisi nella «Lega all'estero» dei socialdemocratici russi, per nove decimi intellettuali emigrati, staccati dall'azione in Russia, aprirono, da quelle posizioni, il fuoco contro il partito, contro Lenin, contro i leninisti.
Plekhanov prestava manforte ai menscevichi. Al II Congresso, egli era stato a fianco di Lenin. Ma, in seguito, si era lasciato intimidire dai menscevichi, che minacciavano la scissione. Egli aveva quindi deciso di «riconciliarsi» ad ogni costo coi menscevichi. Il peso dei suoi vecchi errori opportunistici lo faceva gravitare verso i menscevichi. Dapprima conciliatore verso i menscevichi opportunisti, ben presto Plekhanov divenne egli stesso un menscevico. Egli insistette perché tutti gli ex redattori menscevichi dell'Iskra , non rieletti dal congresso, fossero ammessi nella redazione. Lenin non poteva, certo, accettare questa condizione e uscì dalla redazione dell'lskra , per rafforzare le sue posizioni in seno al Comitato Centrale e di là battere gli opportunisti. Plekhanov, calpestando la volontà del congresso, cooptò, di sua testa, nella redazione deIl'Iskra gli ex redattori menscevichi. Da allora, a cominciare dal N. 52 dell'Iskra , i menscevichi fecero di questo giornale il loro organo e se ne servirono per diffondere le loro concezioni opportunistiche.
Ormai, si parlò nel partito della vecchia Iskra , l'lskra leninista, bolscevica, e della nuova Iskra , l'Iskra menscevica, opportunista.
Il giornale, caduto nelle mani dei menscevichi, divenne un organo di lotta contro Lenin, contro i bolscevichi, un organo di propaganda dell'opportunismo menscevico, soprattutto sull'arena organizzativa. I menscevichi, alleatisi con gli «economisti» e i bundisti, mossero guerra, sulle pagine dell'Iskra , contro il leninismo, come essi dicevano. Plekhanov non poté mantenersi su posizioni conciliatrici e dopo qualche tempo si unì egli pure a quella campagna. E così doveva infatti accadere per la logica delle cose: chi insiste per la conciliazione con gli opportunisti finisce per scivolare nell'opportunismo. Dalla nuova Iskra piovevano, come dal corno dell'abbondanza, dichiarazioni e articoli affermanti che il partito non doveva essere un tutto organizzato; che bisognava ammettere in seno al partito l'esistenza di gruppi e di individui liberi, non obbligati a sottomettersi alle decisioni degli organismi del partito: che bisognava lasciare ad ogni intellettuale simpatizzante col partito, come ad «ogni scioperante» e ad «ogni manifestante», tutte le possibilità di autoproclamarsi membro del partito; che esigere la sottomissione a tutte le decisioni del partito era dar prova di «formalismo burocratico»; che esigere la sottomissione della minoranza alla maggioranza equivaleva a «soffocare meccanicamente» la volontà dei membri del partito; che esigere da tutti i membri, capi e semplici iscritti, un'eguale sottomissione alla disciplina del partito, voleva dire instaurare il «servaggio» nel partito; che, infine, ciò ch'era necessario, «a noi», nel partito, non era il centralismo, ma l'«autonomismo» anarchico; il quale dà il diritto agli aderenti e alle organizzazioni del partito di non applicare le decisioni del partito stesso.
Era una propaganda sfrenata di rilassatezza in materia d'organizzazione, era rovinare lo spirito di partito e la disciplina di partito, esaltare l'individualismo intellettualistico, giustificare lo spirito anarchico di indisciplina.
Rispetto al II Congresso, i menscevichi, evidentemente, volevano far retrocedere il partito verso lo sbriciolamento organizzativo, verso lo spirito di gruppo e verso i metodi artigiani di lavoro.
Bisognava, dunque, battere in breccia i menscevichi in modo decisivo.
Ed è ciò che fece Lenin nel suo celebre libro «Un passo avanti e due indietro», uscito nel maggio del 1904.
Ecco i princìpi organizzativi essenziali che furono sviluppati da Lenin in quel libro e che dovevano diventare i princìpi organizzativi del partito bolscevico:
1) Il partito marxista è parte integrante della classe operaia, un suo reparto. Ma la classe operaia ha numerosi reparti; ne deriva che non tutti i reparti della classe operaia possono essere chiamati partito della classe operaia. Il partito si distingue dagli altri reparti della classe operaia, prima di tutto, perché non è un semplice reparto ma il reparto d'avanguardia , il reparto cosciente , il reparto marxista, della classe operaia, armato della conoscenza della vita sociale, armato della conoscenza delle leggi dello sviluppo della vita sociale, armato della conoscenza delle leggi della lotta di classe e capace, perciò, di guidare la classe operaia, di dirigerne la lotta. Non si devono quindi confondere il partito e la classe operaia, come non si deve confondere la parte con il tutto; non si deve pretendere che ogni scioperante possa autoproclamarsi membro del partito, poiché chi confonde il partito con la classe abbassa il livello della coscienza del partito al livello di «ogni scioperante», distrugge il partito come avanguardia cosciente della classe operaia. Il compito del partito consiste non nell'abbassare il suo livello fino al livello di «ogni scioperante», ma nell'elevare le masse operaie, nell'elevare «ogni scioperante» al livello del partito.
 
Noi siamo - scriveva Lenin - il partito della classe e, perciò, quasi tutta la classe (e in tempo di guerra, nell'epoca della guerra civile, la classe tutt'intera) deve agire sotto la direzione del nostro partito, deve stringersi il più solidamente che è possibile attorno al nostro partito. Ma sarebbe del «manilovismo» [indifferenza, inerzia, vuoto fantasticare. Manilov è uno dei personaggi delle «anime morte», di Gogol] e del «codismo» pensare che, in regime capitalistico, quasi tutta o tutta la classe possa mai elevarsi alla coscienza e all'attività della propria avanguardia, del proprio partito socialdemocratico. Nessun socialdemocratico ragionevole ha mai posto in dubbio che, in regime capitalistico, neanche l'organizzazione sindacale (più primitiva, più accessibile alla coscienza degli strati arretrati) non è in grado di abbracciare quasi tutta o tutta la classe operaia. Dimenticare la differenza che passa tra l'avanguardia e le masse che gravitano verso di essa, dimenticare il costante dovere dell'avanguardia di elevare degli strati sempre più larghi fino a questo livello dell'avanguardia, vorrebbe dire ingannar se stessi, chiudere gli occhi di fronte alla grandiosità dei nostri compiti, restringere questi compiti. (Lenin, «Opere», vol. VI, pagg. 205-206 ed. russa).
 
2) Il partito non è soltanto il reparto cosciente, di avanguardia, della classe operaia, ma è in pari tempo il reparto organizzato della classe operaia, con una propria disciplina obbligatoria per i suoi membri. Perciò, i membri del partito devono obbligatoriamente essere membri di una delle sue organizzazioni. Se il partito non fosse un reparto organizzato della classe, né un sistema d'organizzazione , ma una semplice somma di individui che si dichiarano essi stessi membri del partito, senza aderire a nessuna delle sue organizzazioni, e che, perciò, non sono organizzati , e non sono quindi tenuti a sottomettersi alle decisioni del partito, il partito non avrebbe mai un'unica volontà, non potrebbe mai realizzare l'unità d'azione dei suoi aderenti; di conseguenza, gli sarebbe impossibile dirigere la lotta della classe operaia. Il partito può dirigere praticamente la lotta della classe operaia e rivolgerla verso un unico scopo, solo se tutti i suoi membri sono organizzati in un solo reparto comune, saldato dall'unità di volontà, dall'unità d'azione, dall'unità di disciplina.
Quando i menscevichi obiettano che, in questo caso, molti intellettuali, come, ad esempio, professori, studenti, universitari o liceali, ecc. rimarrebbero fuori del partito, non volendo aderire a questa o quella organizzazione locale, sia che la disciplina del partito sia loro di peso, sia che, come diceva Plekhanov al II Congresso, «l'aderire a questa o a quella organizzazione locale lo considerino come un'umiliazione», questa obiezione dei menscevichi si ritorce contro di loro, poiché il partito non sa che farsene di membri cui pesi la sua disciplina e che temano di aderire a una delle sue organizzazioni. Gli operai non temono né la disciplina né l'organizzazione; e non appena hanno deciso di diventare membri del partito, aderiscono volentieri alle sue organizzazioni. Temono la disciplina e l'organizzazione solo gli intellettuali di spirito individualistico, i quali effettivamente rimarranno fuori del partito. E sarà tanto di guadagnato: il partito si libererà infatti dall'afflusso di elementi instabili, accentuatosi soprattutto oggi, mentre comincia l'ascesa della rivoluzione democratico-borghese.
 
Se io dico - scriveva Lenin - che il partito deve essere una somma (e non una semplice somma aritmetica, ma un complesso) d'organizzazioni... affermo con ciò, in modo del tutto chiaro e preciso, che desidero, esigo che il partito, come avanguardia della classe, sia una cosa il più possibile organizzata , che il partito ammetta nel suo seno solo quegli elementi che accettino anche sia pure un minimo d'organizzazione... (Lenin, «Opere», vol. VI, pag. 203 ed. russa).
 
E più avanti:
 
A parole , la formula di Martov corrisponde agli interessi dei larghi strati del proletariato; di fatto , questa formula servirà gli interessi degli intellettuali borghes i che temono la disciplina proletaria e l'organizzazione. Nessuno oserà negare che gli intellettuali, come strato particolare nelle società capitalistiche contemporanee, sono contraddistinti, in generale, proprio dall'individualismo e dall'inadattabilità alla disciplina e alla organizzazione. (Ibidem , pag. 212).
 
E ancora:
 
Il proletariato non teme né l'organizzazione né la disciplina... Al proletariato non importa che i signori professori e studenti, i quali non desiderano aderire ad un'organizzazione, siano riconosciuti membri del partito, solo perché lavorano sotto il controllo di un'organizzazione... Non è il proletariato, ma sono certi intellettuali del nostro partito che mancano di autoeducazione , sotto l'aspetto dell'organizzazione e della disciplina. (Ibidem , pag. 307).
 
3) Tra tutte le altre organizzazioni della classe operaia, il partito non è semplicemente un reparto organizzato, ma è «la forma suprema d'organizzazione », destinata a dirigere tutte le altre organizzazioni della classe operaia. Il partito, come forma suprema d'organizzazione, composta dai migliori elementi della classe, armata d'una teoria d'avanguardia, della conoscenza delle leggi della lotta di classe e dell'esperienza del movimento rivoluzionario, ha tutte le possibilità di dirigere - e ha il dovere di dirigere - tutte le altre organizzazioni della classe operaia. La tendenza dei menscevichi a sminuire, ad abbassare la funzione dirigente del partito, porta a indebolire tutte le altre organizzazioni proletarie dirette dal partito e di conseguenza, indebolisce e disarma il proletariato poiché «il proletariato, nella sua lotta per il potere non ha altra arma che l'organizzazione». (Ibidem , pag. 328)
4) Il partito incarna il legame dell'avanguardia della classe operaia con le masse innumerevoli della classe operaia . Anche essendo il miglior reparto d'avanguardia e quello più perfettamente organizzato, il partito non potrebbe tuttavia né vivere né svilupparsi, senza essere legato alle masse dei senza partito, senza moltiplicare questi legami, senza consolidarli. Un partito, rinchiuso in se stesso, isolato dalle masse, e che perdesse o semplicemente indebolisse i legami con la classe, perderebbe la fiducia e l'appoggio delle masse e dovrebbe, quindi, inevitabilmente perire. Per vivere una vita piena e svilupparsi, il partito deve moltiplicare i suoi legami con le masse, conquistarsi la fiducia delle innumerevoli masse della propria classe.
 
Per essere un partito socialdemocratico - diceva Lenin - bisogna ottenere il sostegno della classe . (Ibidem , pag. 208).
 
5) Il partito, per poter funzionare bene e dirigere le masse secondo un piano, deve essere organizzato conformemente ai princìpi del centralismo , avere uno statuto unico, un'unica disciplina, un unico organismo dirigente, rappresentato dal suo congresso, e, negli intervalli tra i congressi, dal Comitato Centrale; occorre che la minoranza si sottometta alla maggioranza, le varie organizzazioni al centro, le organizzazioni inferiori a quelle superiori. Senza queste condizioni, il partito della classe operaia non può essere un vero partito, non può adempiere il suo compito di dirigere la classe.
Siccome il partito, sotto l'autocrazia zarista, era illegale, le organizzazioni del partito non potevano certo in quell'epoca formarsi mediante l'elezione dal basso, dovendo il partito essere rigorosamente clandestino. Ma Lenin pensava che quelle condizioni momentanee nella vita del nostro partito sarebbero sparite, non appena lo zarismo fosse stato abbattuto, quando il partito fosse divenuto legale e le sue organizzazioni avessero applicato il principio delle elezioni democratiche, il principio del centralismo democratico .
 
Prima - scriveva Lenin - il nostro partito non era un tutto formalmente organizzato, ma soltanto una somma di gruppi particolari, e perciò tra questi gruppi non potevano esservi altri rapporti che di influenza ideologica. Oggi siamo diventati un partito organizzato, e questo significa creazione dell'autorità, trasformazione del prestigio delle idee in prestigio dell'autorità, sottomissione delle istanze inferiori del partito a quelle superiori. (Ibidem , pag. 291).
 
Attaccando i menscevichi per il loro nichilismo nelle questioni organizzative e per il loro anarchismo da gran signore, che non ammette l'idea della sottomissione alla autorità del partito e alla sua disciplina, Lenin scriveva:
 
Quest'anarchismo da gran signore è caratteristico del nichilista russo. L'organizzazione del partito gli sembra una «fabbrica» mostruosa; la sottomissione della parte al tutto e della minoranza alla maggioranza gli appare come una «servitù».... la divisione del lavoro, sotto la direzione di un centro, provoca da parte sua degli strilli tragicomici contro la trasformazione degli uomini in «viti e rotelline» (e ne vede una forma assolutamente intollerabile nella trasformazione dei redattori in collaboratori); la sola menzione dello statuto di organizzazione del partito, suscita in lui una smorfia sdegnosa e la sprezzante osservazione (rivolta ai «formalisti») che si potrebbe benissimo anche fare a meno dello statuto. (Ibidem . pag. 310).
 
6) Il partito, nella sua attività pratica, se vuole conservare l'unità delle sue file, deve applicare una disciplina proletaria unica , egualmente obbligatoria per tutti i membri del partito, tanto per i capi, quanto per i semplici membri. Perciò, nel partito non deve esservi alcuna divisione in «membri dell'élite », per i quali la disciplina non sia obbligatoria, e in non «membri dell'élite », che debbano sottomettersi alla disciplina. Senza questa condizione non è possibile salvaguardare l'integrità del partito e l'unità delle sue file.
 
L'assenza totale, in Martov e consorti, di argomenti ragionevoli , contro la redazione nominata dal congresso - scriveva Lenin - è resa evidente meglio di tutto dal loro stesso motto: "Noi non siamo dei servi! "... La psicologia dell'intellettuale borghese, che si ritiene un'"anima eletta" posta al disopra dell'organizzazione di massa e dalla disciplina di massa, appare qui chiarissima... Per l'individualismo intellettualistico... ogni organizzazione e ogni disciplina proletaria s'identificano con la servitù . (Ibidem , pag. 282).
 
E più avanti:
 
Via via che si forma nel nostro paese un vero partito, l'operaio cosciente deve imparare a distinguere tra la psicologia del combattente dell'esercito proletario e la psicologia dell'intellettuale borghese che fa pompa di frasi anarchiche; egli deve imparare a esigere che gli obblighi i quali incombono ai membri di partito siano adempiuti, non solo dai semplici aderenti, ma anche da “coloro che stanno in alto”. (Ibidem , pag. 312).
 
Riassumendo l'analisi delle divergenze e definendo le posizioni dei menscevichi come dell'«opportunismo nelle questioni organizzative», Lenin considerava che uno dei peccati essenziali del menscevismo era quello di sottovalutare l'importanza dell'organizzazione di partito, in quanto arma del proletariato nella lotta per la propria emancipazione. I menscevichi erano del parere che l'organizzazione di partito del proletariato non era di grande importanza per la vittoria della rivoluzione. Contrariamente ai menscevichi, Lenin pensava: l'unità ideologica del proletariato, di per se stessa, non basta per assicurare la vittoria; per vincere, è indispensabile «cementare» l'unità ideologica mediante l'«unità materiale dell'organizzazione » del proletariato. Soltanto a questa condizione - Lenin pensava - il proletariato può diventare una forza invincibile.
 
Il proletariato, nella sua lotta per il potere, - scriveva Lenin, - ha soltanto un'arma: l'organizzazione. Il proletariato, diviso dalla concorrenza anarchica che regna nel mondo borghese, schiacciato sotto il peso di un lavoro forzato a favore del capitale, sospinto continuamente «nei bassifondi» d'una miseria nera, dell'abbruttimento e della degenerazione, può diventare e diventerà inevitabilmente una forza invincibile soltanto perché la sua unione ideologica, fondata sui princìpi del marxismo, è cementata dall'unità materiale dell'organizzazione che raggruppa i milioni di lavoratori in un esercito della classe operaia. A questo esercito non potranno resistere né il potere già decrepito dell'autocrazia russa, né il potere del capitale internazionale che sta per diventarlo. (Ibidem, pag. 328).
 
È con queste parole profetiche che Lenin chiude il suo libro.
Questi sono i princìpi organizzativi essenziali sviluppati da Lenin nel suo celebre libro «Un passo avanti e due indietro».
L'importanza di questo libro sta innanzitutto nel fatto che esso ha salvaguardato lo spirito di partito da quello ristretto di gruppo e il partito dai disorganizzatori, ha battuto in pieno l'opportunismo menscevico sulle questioni organizzative e ha gettato le basi organizzative del partito bolscevico.
Ma non è importante solo per questo. Il suo significato storico è dato dal fatto che Lenin vi ha, per primo nella storia del marxismo, elaborato la dottrina del partito , in quanto organizzazione dirigente del proletariato, in quanto arma essenziale nelle mani del proletariato, senza la quale è impossibile vincere nella lotta per la dittatura proletaria.
La diffusione tra i militanti dell'opera di Lenin «Un passo avanti e due indietro», fece sì che la maggior parte delle organizzazioni locali si raggruppò attorno a Lenin.
Ma più le organizzazioni si raggruppavano strettamente attorno ai bolscevichi, più rabbioso si faceva l'atteggiamento dei capi menscevichi.
Nell'estate del 1904, i menscevichi, con l'aiuto di Plekhanov e in seguito al tradimento di due bolscevichi degeneri, Krassin e Noskov, si impadronirono della maggioranza del Comitato Centrale. Era evidente che i menscevichi si orientavano verso la scissione. La perdita dell'Iskra e del Comitato Centrale mise i bolscevichi in una situazione difficile. Era evidentemente indispensabile fondare un proprio giornale bolscevico. Era indispensabile organizzare un nuovo congresso, il III Congresso del partito, per formare un nuovo Comitato Centrale del partito e regolare i conti coi menscevichi.
È ciò che intraprese Lenin, è ciò che intrapresero i bolscevichi.
I bolscevichi impegnarono la lotta per la convocazione del III Congresso del partito. Nell'agosto del 1904, si tenne in Svizzera, diretta da Lenin, una conferenza di 22 bolscevichi; la conferenza approvò un messaggio «Al partito» che divenne per i bolscevichi un programma di lotta per la convocazione del III Congresso.
In tre conferenze regionali dei comitati bolscevichi (le conferenze del Sud, del Caucaso e del Nord) fu eletto un «Ufficio dei comitati della maggioranza», che procedette alla preparazione pratica del III Congresso del partito.
Il 4 gennaio 1905 uscì il primo numero del giornale bolscevico Vperiod («Avanti»).
In questo modo si formarono in seno al partito due frazioni distinte - bolscevichi e menscevichi - con i loro centri dirigenti e i loro giornali rispettivi.
 


Conclusioni riassuntive
Nel periodo che corre dal 1901 al 1904, favorite dalla ascesa del movimento operaio rivoluzionario, le organizzazioni socialdemocratiche marxiste in Russia crescono e si rafforzano. In una lotta tenace di principio contro gli «economisti», la linea rivoluzionaria dell'Iskra di Lenin trionfa; la confusione ideologica e i metodi di lavoro primitivi, da artigiani, sono eliminati.
L'lskra collega tra di loro i circoli e i gruppi socialdemocratici dispersi e prepara il II Congresso del partito. In questo congresso nel 1903, si forma il Partito Operaio Socialdemocratico di Russia, si adottano il programma e lo statuto del partito, si formano gli organismi dirigenti centrali del partito.
Nella lotta che si svolge al Il Congresso per la vittoria definitiva della linea iskrista, in seno al P.O.S.D.R. due gruppi si presentano: quello dei bolscevichi e quello dei menscevichi.
Le divergenze essenziali tra bolscevichi e menscevichi, dopo il Il Congresso, si riferiscono alle questioni organizzative.
I menscevichi si ravvicinano agli «economisti» e ne prendono il posto nel partito. L'opportunismo dei menscevichi si manifesta, per il momento, sulle questioni organizzative. I menscevichi sono contro il partito rivoluzionario di lotta di tipo leninista. Essi sono per un partito dai contorni vaghi, per un partito non organizzato, per un partito «codista». Essi applicano una linea scissionistica. Con l'aiuto di Plekhanov, s'impadroniscono dell'Iskra e del Comitato Centrale e utilizzano questi centri per iscopi scissionistici.
Di fronte alla minaccia della scissione da parte dei menscevichi, i bolscevichi prendono provvedimenti per disarmare gli scissionisti: mobilitano le organizzazioni locali per la convocazione del III Congresso e pubblicano il loro giornale Vperiod .
Così, alla vigilia della prima rivoluzione russa, mentre era già cominciata la guerra russo-giapponese, i bolscevichi e i menscevichi si presentavano come gruppi politici distinti l'uno dall'altro.
III.
Menscevichi e bolscevichi durante la guerra russo-giapponese e la prima rivoluzione russa
(1904-1907)


1. La guerra russo-giapponese. Continua l'ascesa del movimento rivoluzionario. Gli scioperi di Pietroburgo. Dimostrazione degli operai dinanzi al Palazzo d'Inverno il 9 gennaio 1905. Massacro dei manifestanti. Inizio della rivoluzione.
Verso la fine del XIX secolo, gli Stati imperialisti impegnarono una lotta accanita per il dominio dell'Oceano Pacifico e la spartizione della Cina. Anche la Russia dello zar partecipò alla lotta. Nel 1900, le truppe zariste, insieme a quelle giapponesi, tedesche, inglesi e francesi, soffocarono, con ferocia inaudita, l'insurrezione popolare in Cina, rivolta soprattutto contro gli imperialisti stranieri. Già in precedenza, il governo dello zar aveva costretto la Cina a cedergli la penisola del Liao - Tung e la fortezza di Port - Arthur, e si era riservato il diritto di costruire delle strade ferrate sul territorio cinese. Nella Manciuria settentrionale fu quindi costruita la linea ferroviaria Orientale - Cinese e vi furono mandate delle truppe russe per difenderla. La Manciuria settentrionale fu, così, occupata militarmente dalla Russia zarista, che tendeva gli artigli sulla Corea. La borghesia russa progettava la fondazione di una «Russia gialla» in Manciuria.
Ma, nel corso delle sue conquiste in Estremo Oriente, lo zarismo cozzò contro un altro predone, il Giappone, che si era rapidamente trasformato in un paese imperialistico e voleva esso pure espandersi nel territorio asiatico, soprattutto a spese della Cina. Il Giappone, del pari che la Russia dello zar, voleva impadronirsi della Corea e della Manciuria; e già sognava la conquista dell'isola Sakhalin e dell'Estremo Oriente. L'Inghilterra, nel timore che la Russia dello zar si rafforzasse in Estremo Oriente, appoggiava in segreto il Giappone. La guerra russo-giapponese era imminente. Il governo zarista vi era spinto dalla grande borghesia avida di nuovi sbocchi, quanto dagli strati più reazionari dei proprietari fondiari.
Il Giappone, senza attendere che il governo dello zar dichiarasse la guerra, aprì le ostilità. Esso disponeva di una larga rete di spionaggio in Russia, e aveva calcolato che in questa lotta si sarebbe trovato di fronte ad un avversario impreparato. E, senza dichiarare la guerra, nel gennaio del 1904, attaccò all'improvviso la fortezza russa di Port Arthur, infliggendo gravi perdite alla flotta russa che vi si trovava.
Così incominciò la guerra russo- giapponese.
Il governo dello zar calcolava che la guerra l'avrebbe aiutato a consolidare la sua situazione politica e ad arrestare la rivoluzione. Ma aveva fatto i conti senza l'oste. La guerra scosse ancor più lo zarismo.
Male armato e male istruito, guidato da generali venduti e incapaci, l'esercito russo subì una sconfitta dopo l'altra.
La guerra arricchì i capitalisti, gli alti funzionari, i generali: dappertutto si rubava a man bassa. Le truppe erano male equipaggiate e, mentre mancava di munizioni, l'esercito, come per beffa, riceveva vagoni di icone. I soldati dicevano con amarezza: «I giapponesi ci tirano del piombo e noi rispondiamo con delle icone». E anzi che evacuare i feriti, treni speciali trasportavano il bottino rubato dai generali dello zar.
I giapponesi investirono, e in seguito occuparono, la fortezza di Port Athur. Sconfitto più volte l'esercito dello zar, lo misero in rotta presso Mukden. L'esercito dello zar, composto di 300 mila uomini, ne perdette in quella battaglia circa 120 mila fra morti, feriti e prigionieri. Seguì, nello stretto di Zusima, la completa disfatta, lo sfacelo della flotta russa, fatta salpare dal Baltico in aiuto all'assediata Port Arthur. La sconfitta di Zusima fu una vera catastrofe: di 20 navi da guerra inviate dallo zar, 13 furono affondate e distrutte, 4 catturate. Ormai, la guerra era definitivamente perduta per la Russia dello zar.
Il governo zarista fu costretto a concludere una pace vergognosa e il Giappone occupò la Corea e si fece cedere Port Arthur e metà dell'isola di Sakhalin.
Le masse popolari non avevano voluto quella guerra e sapevano quale danno recava alla Russia: il popolo pagava a caro prezzo l'arretratezza della Russia zarista!
Di fronte alla guerra russo-giapponese, l'atteggiamento dei bolscevichi e dei menscevichi non fu Io stesso.
I menscevichi compreso Trotzki, scivolarono su posizioni guerrafondaie, cioè erano disposti a difendere la «patria» dello zar, dei proprietari fondiari e dei capitalisti.
Lenin e i bolscevichi, al contrario, ritenevano utile la sconfitta del governo zarista, in quella guerra brigantesca, perché avrebbe indebolito lo zarismo e rafforzato la rivoluzione.
Le sconfitte delle truppe zariste svelarono alle grandi masse popolari tutta la putredine dello zarismo. L'odio delle grandi masse del popolo verso lo zarismo cresceva di giorno in giorno. La caduta di Port Arthur, scriveva Lenin, rappresenta l'inizio della caduta dell'autocrazia.
Lo zar, volendo, con la guerra, soffocare la rivoluzione raggiunse il risultato opposto. La guerra russo-giapponese affrettò la rivoluzione.
Nella Russia d'allora, l'oppressione capitalistica era resa ancor più dura dai ceppi zaristi. Gli operai languivano non solo sotto il peso dello sfruttamento capitalistico e del lavoro da forzati a cui erano sottoposti, ma anche sotto il peso del regime autocratico che gravava su tutto il popolo. Ecco perché gli operai coscienti cercavano di porsi alla testa del movimento rivoluzionario contro lo zarismo di tutti gli elementi democratici, nelle città e nelle campagne. La fame di terra, i numerosi residui della servitù della gleba attanagliavano i contadini, in balìa dei proprietari fondiari e dei kulak. I popoli non russi, imprigionati nell'impero dello zar, erano curvi sotto il duplice giogo dei proprietari e dei capitalisti russi e non russi. La crisi economica del 1900-1903 aveva acuito le sofferenze delle masse lavoratrici; la guerra le aveva aggravate ancora. Le sconfitte militari esasperavano nelle masse l'odio contro lo zarismo. Il popolo non ne poteva più.
Vi erano dunque cause più che sufficienti per lo scoppio della rivoluzione.
Nel dicembre del 1904, diretto dal Comitato bolscevico della città, scoppiò uno sciopero grandioso e ben preparato degli operai di Bakù. Il movimento si chiuse con la vittoria degli scioperanti, che, per i primi nella storia del movimento operaio della Russia, stipularono un contratto collettivo di lavoro con gli industriali del petrolio.
Lo sciopero di Bakù segnò l'inizio dell'ascesa rivoluzionaria nella Transcaucasia e in parecchie regioni della Russia.
 
Lo sciopero di Bakù fu il segnale per i movimenti gloriosi di gennaio-febbraio che si svolsero in tutta la Russia. (Stalin ).
 
Quello sciopero fu come il lampo preannunciatore della burrasca alla vigilia della grande tempesta.
Il 3 (16) gennaio 1905, gli operai della grande officina Putilov (ora officina Kirov), di Pietroburgo, si posero in isciopero, in seguito al licenziamento di quattro loro compagni di lavoro, e furono sostenuti da altre fabbriche e officine di Pietroburgo. Lo sciopero divenne generale. Il governo dello zar decise di soffocare fin dall'inizio il movimento fattosi minaccioso.
Già nel 1904, cioè prima dello sciopero alla Putilov, la polizia aveva creato, con la complicità di un provocatore, il pope Gapon, una propria organizzazione tra gli operai, la «Riunione degli operai russi d'officina». Questa organizzazione aveva costituito le sue sezioni in tutti i rioni di Pietroburgo. Scoppiato lo sciopero, il pope Gapon, nelle assemblee della sua associazione, propose un piano provocatorio: il 9 gennaio, tutti gli operai si sarebbero dovuti recare in processione pacifica al Palazzo d'Inverno, portando stendardi religiosi e ritratti dello zar, per consegnargli una petizione che esponesse i loro bisogni. Lo zar - diceva Gapon - si sarebbe mostrato al popolo, avrebbe ascoltato le sue rivendicazioni e le avrebbe soddisfatte. Gapon si proponeva di aiutare l'Okhrana zarista: provocare un eccidio e soffocare nel sangue il movimento. Ma il piano poliziesco si ritorse contro il governo dello zar.
La petizione venne discussa nelle riunioni operaie, che vi apportarono emendamenti e modificazioni. E in quelle riunioni i bolscevichi presero anch'essi la parola, senza dichiararsi apertamente tali. Essi fecero sì che dalla petizione fossero rivendicate anche la libertà di parola e di stampa, la libertà sindacale, la convocazione di un'Assemblea costituente destinata a modificare il regime politico della Russia, l'eguaglianza di tutti di fronte alle leggi, la separazione della Chiesa dallo Stato; la cessazione della guerra, le 8 ore di lavoro, la terra ai contadini.
In quelle riunioni, i bolscevichi dimostravano agli operai che la libertà non si ottiene con qualche petizione allo zar, ma si conquista con le armi alla mano. I bolscevichi mettevano in guardia gli operai, li avvertivano che si stava preparando il loro eccidio. Ma non riuscirono ad impedire la processione al Palazzo d'Inverno. Moltissimi operai credevano ancora che lo zar li avrebbe aiutati. Il movimento trascinava irresistibilmente le masse.
La petizione diceva:
 
Noi, operai di Pietroburgo, le nostre donne, i nostri bambini e i nostri vecchi genitori privi di qualsiasi aiuto, siamo venuti a chiederti, Sovrano, giustizia e protezione. Noi siamo ridotti all'estrema miseria, siamo oppressi, siamo sottoposti ad un lavoro superiore alle nostre forze, siamo maltrattati, non siamo considerati come uomini... Noi abbiamo sofferto in silenzio, ma ci spingono sempre più in basso, nel baratro della miseria, della servitù, dell'ignoranza; il dispotismo e l'arbitrio ci soffocano... La nostra pazienza è esaurita. Per noi è giunto quel terribile momento, in cui è meglio morire che soffrire ancora questi insopportabili tormenti....
 
Il 9 (22) gennaio 1905, all'alba, gli operai si avviarono al Palazzo d'Inverno, dove si trovava allora lo zar. Gli operai si recavano dallo zar con le loro famiglie: donne, bimbi e vecchi; portavano ritratti dello zar e stendardi religiosi, cantavano preghiere ed erano inermi. Più di 140 mila persone erano discese nelle strade.
Ma Nicola II fece loro ostile accoglienza. Ordinò di sparare sugli operai inermi. Più di mille operai caddero quel giorno uccisi dalle truppe dello zar, più di duemila furono i feriti. Le strade di Pietroburgo erano un mare di sangue operaio.
I bolscevichi avevano marciato con gli operai e molti furono uccisi o arrestati. Nelle stesse strade, inondate dal sangue operaio, essi spiegavano agli operai chi era il responsabile di quella spaventosa strage e come si doveva lottare contro di lui.
Da allora, il 9 gennaio venne chiamato «la domenica sanguinosa». Gli operai avevano ricevuto una lezione tremenda. Ciò che si era spento a fucilate in quel giorno era la fiducia degli operai nello zar. Da quel giorno essi compresero che solo con la lotta potevano conquistare i loro diritti. Nella sera stessa del 9 gennaio, delle barricate si innalzarono nei quartieri operai. Gli operai dicevano: «Lo zar ce le ha date, ma noi gliele renderemo!».
La notizia tremenda della strage sanguinosa perpetrata dallo zar si diffuse fulminea ovunque. La classe operaia, tutto il paese fremettero di indignazione e di orrore. Non vi fu città ove gli operai non scioperassero in segno di protesta contro il delitto dello zar e non formulassero delle rivendicazioni politiche. Gli operai scendevano in piazza al grido di «Abbasso l'autocrazia». Nel gennaio fu raggiunto il numero altissimo di 440 mila scioperanti. In un mese scioperarono più operai che nei dieci anni precedenti. La marea operaia ingrossava e saliva.
In Russia era incominciata la rivoluzione.
 


2. Scioperi politici e dimostrazioni operaie. L'ondata del movimento rivoluzionario contadino. Rivolta sulla corazzata «Potiomkin».
Dopo il 9 gennaio, la lotta rivoluzionaria degli operai si inasprì, assumendo un carattere politico. Dagli scioperi economici e dagli scioperi di solidarietà, gli operai passavano agli scioperi politici, alle dimostrazioni e, in alcune località, alla resistenza armata contro le truppe dello zar. Particolarmente ben organizzati e accaniti furono gli scioperi nelle grandi città, dove si addensavano masse considerevoli di operai: a Pietroburgo, Mosca, Varsavia, Riga e Bakù. I metallurgici erano nelle prime file del proletariato in lotta. Gli operai d'avanguardia incitavano con i loro scioperi gli strati operai meno avanzati, spingevano alla lotta tutta la classe operaia. L'influenza della socialdemocrazia andò rapidamente crescendo.
Le dimostrazioni del 1° Maggio furono seguite, in parecchie località, da conflitti con la polizia e con la truppa. A Varsavia, una dimostrazione venne repressa nel sangue: vi furono alcune centinaia di morti e feriti. Al massacro di Varsavia, gli operai, accogliendo l'appello della socialdemocrazia polacca, risposero con uno sciopero generale di protesta. Durante tutto il mese di maggio, gli scioperi e le dimostrazioni si susseguirono ininterrotte. Vi parteciparono più di 200 mila operai. Scioperi generali di operai avvennero a Bakù, Lodz, Ivanovo-Voznessensk. Sempre più sovente, gli scioperanti e i dimostranti si scontravano con le truppe dello zar. I conflitti scoppiavano in molte città: a Odessa, Varsavia, Riga, Lodz, ecc.
Asprissima fu la lotta a Lodz, grande centro industriale polacco. Gli abitanti della città innalzarono decine di barricate nelle strade e combatterono per tre giorni (22-24 giugno 1905) contro le truppe dello zar. La lotta armata si unì allo sciopero generale, Lenin giudicò quelle lotte come la prima azione armata degli operai in Russia.
Tra gli scioperi di quell'estate, particolare importanza ebbe lo sciopero di Ivanovo-Voznessensk che durò dalla fine di maggio al principio di agosto del 1905, ossia quasi due mesi e mezzo. Vi parteciparono circa 70 mila operai tra cui molte donne. Era diretto dal Comitato bolscevico del Nord. Quasi giornalmente, alla periferia, sulla riva del fiume Talka, migliaia di operai si radunavano per discutere sulle loro esigenze, e in quelle riunioni i bolscevichi prendevano la parola. Per soffocare lo sciopero, le autorità zariste ordinarono di disperdere gli operai, facendo uso delle armi. Vi furono diverse decine di morti e alcune centinaia di feriti. Nella città si proclamò lo stato d'assedio, ma gli operai resistettero coraggiosamente e non ripresero il lavoro. Soffrirono la fame con le loro famiglie, ma non si arresero. E ripresero il lavoro solo quando furono ridotti all'estremo. Lo sciopero li aveva temprati, ne aveva dimostrato il coraggio, la fermezza, la compattezza, la solidarietà ed era stato per questi operai una vera scuola di educazione politica.
Durante lo sciopero, gli operai di Ivanovo-Voznessensk avevano costituito un Soviet di delegati, che fu di fatto uno dei primi Soviet dei deputati operai in Russia.
Gli scioperi politici operai misero in moto tutto il paese.
Dopo le città, anche le campagne si sollevarono. In primavera cominciarono i movimenti contadini. Raccoltisi in masse enormi, i contadini marciavano contro i proprietari fondiari, saccheggiandone i poderi, le raffinerie di zucchero e di alcool, incendiandone le ville e le proprietà. In molte località, occupavano le terre dei proprietari fondiari, abbattevano i boschi, esigevano che le terre dei grandi proprietari fondiari fossero date al popolo, si impadronivano del grano e di altre derrate e le spartivano tra gli affamati. In preda allo spavento, i proprietari fondiari si rifugiavano nelle città. Il governo zarista inviava soldati e cosacchi a soffocare le rivolte contadine. Avvenivano molti eccidi; gli «istigatori» erano arrestati, staffilati e torturati, ma i contadini continuavano la lotta.
Il movimento contadino si estendeva sempre più nel centro della Russia, nel bacino del Volga, nella Transcaucasia, soprattutto in Georgia.
I socialdemocratici penetravano sempre più nelle più sperdute campagne. Il Comitato Centrale del partito aveva lanciato un proclama ai contadini: «Contadini! È a voi che rivolgiamo la nostra parola!». I comitati socialdemocratici di Tver, Saratov, Poltava, Cernigov, Iekaterinoslaw, Tiflis e di molti altri governatorati lanciarono degli appelli ai contadini. Nelle campagne i socialdemocratici organizzavano riunioni, circoli e comitati di contadini. Nell'estate del 1905, scoppiarono, in diverse località, parecchi scioperi di operai agricoli, organizzati dai socialdemocratici.
Ma la lotta dei contadini era soltanto all'inizio. Il movimento contadino non s'era esteso che a 85 distretti, ossia pressappoco ad un settimo dei distretti della Russia europea.
Il movimento operaio e contadino e le numerose sconfitte subìte nella guerra russo-giapponese, ebbero la loro influenza anche sull'esercito. Questo baluardo dello zarismo cominciò a vacillare.
Nel giugno del 1905, scoppiò una rivolta nella flotta del Mar Nero, sulla corazzata «Potiomkin». La corazzata era ancorata non lungi da Odessa, dove era scoppiato lo sciopero generale. I marinai in rivolta aggiustarono i conti con gli ufficiali più odiati e diressero la corazzata nel porto di Odessa, passando dalla parte della rivoluzione.
Lenin dava a quella rivolta un'immensa importanza. Egli considerava indispensabile che i bolscevichi ne assumessero la direzione e la collegassero con il movimento degli operai, dei contadini e delle guarnigioni locali.
Lo zar inviò contro il «Potiomkin» diverse navi da guerra, ma i marinai si rifiutarono di sparare sui loro compagni insorti. Per alcuni giorni sulla corazzata «Potiomkin» sventolò la rossa bandiera della rivoluzione. Ma allora, nel 1905, il partito bolscevico non era il solo partito che dirigesse il movimento, come avvenne più tardi, nel 1917. Sul «Potiomkin» si trovavano molti menscevichi, socialisti-rivoluzionari e anarchici. Perciò questa rivolta, sebbene alcuni socialdemocratici vi partecipassero, mancava di una buona direzione, sufficientemente capace. Una parte dei marinai, al momento decisivo, esitò e le altre navi della flotta del Mar Nero non si unirono alla corazzata in rivolta. Mancando di carbone e di viveri, la corazzata rivoluzionaria fu costretta ad approdare in Romania, consegnandosi alle autorità del luogo.
La rivolta dei marinai sulla corazzata «Potiomkin» si concluse con la sconfitta. I marinai che caddero, in seguito, nelle mani del governo zarista, furono processati; alcuni furono condannati a morte, altri ai lavori forzati. Ma il fatto stesso della rivolta ebbe un'importanza immensa. Era il primo movimento rivoluzionario di massa nell'esercito e nella flotta. Era la prima volta che un'unità importante delle truppe zariste passava dalla parte della rivoluzione. Agli operai, ai contadini e soprattutto alle masse dei soldati e dei marinai la rivolta rese più comprensibile e più familiare l'idea che l'esercito e la flotta dovevano unirsi alla classe operaia, al popolo.
Il passaggio degli operai agli scioperi e alle dimostrazioni politiche di massa, il dilagare del movimento contadino, i conflitti armati del popolo con la polizia e le truppe e, infine, la rivolta nella flotta del Mar Nero, - tutto ciò costituiva la prova che le condizioni per l'insurrezione armata del popolo stavano maturando. La borghesia liberale fu quindi costretta a muoversi seriamente. Spaventata dalla rivoluzione, ma volendo contemporaneamente intimidire lo zar con la minaccia della rivoluzione, cercava con lui un accordo contro la rivoluzione e reclamava alcune piccole riforme «per il popolo», per «calmare» il popolo, per scindere le forze della rivoluzione e prevenire così gli «orrori della rivoluzione». «Bisogna spezzettare della terra per i contadini, sennò saremo noi ad essere fatti a pezzi», dicevano i proprietari fondiari liberali. La borghesia liberale si preparava a dividere il potere con lo zar. Il proletariato lotta, la borghesia si insinua verso il potere», scriveva Lenin in quei giorni, a proposito della tattica della classe operaia e della tattica della borghesia liberale.
Il governo dello zar continuava le repressioni contro gli operai e i contadini con selvaggia crudeltà. Ma non poteva non vedere che le sole repressioni non avrebbero domato la rivoluzione. Perciò, oltre che alle repressioni, ricorse a una politica di manovre. Da un lato, con l'aiuto dei provocatori, aizzava gli uni contro gli altri i popoli della Russia e organizzava i pogrom contro gli ebrei e i massacri armeno-tartari; dall'altro, prometteva di convocare un «organo rappresentativo», come uno Zemski Sobor [Assemblea dei rappresentanti delle caste che veniva convocata nei secoli XVI e XVII per essere consultata dal governo] o una Duma di Stato. Il ministro Bulyghin fu infatti incaricato di elaborare il progetto per questa Duma, la quale, però, non avrebbe dovuto avere poteri legislativi. Tutti questi provvedimenti miravano solo a dividere le forze della rivoluzione e a distaccarne gli strati moderati del popolo.
I bolscevichi chiamarono al boicottaggio della Duma di Bulyghin, ponendosi lo scopo di far abortire quella caricatura di rappresentanza popolare.
I menscevichi invece avevano deciso di non sabotare la Duma, e avevano considerato necessario parteciparvi.
 


3. Le divergenze tattiche tra bolscevichi e menscevichi. Il III Congresso del partito. Il libro di Lenin «Le due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica». I princìpi tattici del partito marxista.
La rivoluzione aveva messo in moto tutte le classi sociali. La svolta provocata dalla rivoluzione nella vita politica del paese le aveva smosse dalle loro vecchie posizioni tradizionali e le aveva spinte a raggrupparsi secondo la nuova situazione. Ogni classe, ogni partito si sforzava di stabilire la propria tattica, la linea di condotta, i rapporti con le altre classi, col governo. Perfino il governo dello zar fu costretto ad adottare una tattica nuova ben lontana dalle sue abitudini, promettendo di convocare un «organo rappresentativo», la Duma di Bulyghin.
Anche il partito socialdemocratico doveva elaborare la propria tattica. Lo imponeva l'ascesa sempre più vigorosa della rivoluzione. Lo imponevano le questioni pratiche che si ponevano con urgenza di fronte al proletariato: organizzazione dell'insurrezione armata, rovesciamento del governo zarista, formazione di un governo rivoluzionario provvisorio, partecipazione della socialdemocrazia a questo governo, atteggiamento da assumere verso i contadini, verso la borghesia liberale, ecc. Era indispensabile elaborare una tattica socialdemocratica marxista, unica, frutto di mature riflessioni.
Ma l'opportunismo e l'azione scissionistica dei menscevichi fecero sì che la socialdemocrazia della Russia si trovasse, in quel periodo, divisa in due frazioni. Senza dubbio, la scissione non si poteva ancora considerare come completa; le due frazioni infatti non erano ancora ufficialmente due partiti distinti, ma in realtà ne avevano quasi tutte le caratteristiche, possedendo ognuna il proprio centro direttivo e i propri giornali.
Il fatto che alle vecchie divergenze con la maggioranza del partito sui problemi d'organizzazione , i menscevichi avevano aggiunto nuove divergenze sulle questioni tattiche , approfondiva la scissione.
Dalla mancanza di un partito unico derivava la mancanza di una tattica unica.
Per trovare una soluzione a questo stato di cose, era necessario convocare d'urgenza il III Congresso ordinario del partito, stabilire al congresso una tattica unica e costringere la minoranza ad applicare onestamente le decisioni del congresso e a sottomettersi alle decisioni della maggioranza. I bolscevichi ne fecero la proposta ai menscevichi. Ma costoro non volevano sentir parlare di III Congresso. Cosicché, ritenendo che sarebbe stato delittuoso lasciare più a lungo il partito senza una tattica approvata e obbligatoria per tutti i suoi iscritti, i bolscevichi decisero di prendere l'iniziativa della convocazione del III Congresso.
Al III Congresso vennero convocate tutte le organizzazioni del partito, bolsceviche e mensceviche. Ma i menscevichi si rifiutarono di parteciparvi e decisero di convocare un congresso proprio, al quale, dato il piccolo numero dei delegati, dettero il nome di conferenza, mentre di fatto era un congresso, il congresso del partito menscevico, le cui decisioni erano considerate obbligatorie per tutti i menscevichi.
Nell'aprile del 1905, si riunì a Londra il III Congresso del Partito socialdemocratico di Russia, a cui parteciparono 24 delegati di 20 comitati bolscevichi. Tutte le organizzazioni importanti del partito vi erano rappresentate.
Il congresso, dopo aver condannato i menscevichi come «una parte dissidente del partito», passò all'esame dei problemi posti all'ordine del giorno allo scopo di stabilire la tattica del partito.
Contemporaneamente al Congresso di Londra, si svolgeva a Ginevra la conferenza dei menscevichi.
«Due congressi - due partiti», così Lenin aveva definito la situazione.
Tanto il congresso che la conferenza, discussero, in sostanza, le stesse questioni tattiche, ma le decisioni prese furono assolutamente opposte. Le due serie di risoluzioni, approvate dal congresso e dalla conferenza, rivelarono quanto profonde fossero le divergenze tattiche tra il III Congresso del partito e la conferenza dei menscevichi, tra bolscevichi e menscevichi.
Ecco i punti essenziali di queste divergenze.
Linea tattica del III Congresso del partito. - Il congresso diceva: nonostante il carattere democratico-borghese della rivoluzione in corso, e sebbene essa non possa, in questo momento, uscire dal quadro di ciò che è possibile sotto il capitalismo, alla sua vittoria totale è interessato innanzi tutto il proletariato, poiché la vittoria di questa rivoluzione deve dare al proletariato la possibilità di organizzarsi, di elevarsi politicamente, di acquistare l'esperienza e la pratica della direzione politica delle masse lavoratrici e di passare dalla rivoluzione borghese alla rivoluzione socialista.
La tattica del proletariato, che mira alla piena vittoria della rivoluzione democratica-borghese può essere appoggiata solo dai contadini, giacché questi non possono né vincere i proprietari fondiari né impadronirsi dei loro fondi, senza la vittoria completa della rivoluzione. I contadini sono, quindi, gli alleati naturali del proletariato.
La borghesia liberale non è interessata alla vittoria completa di questa rivoluzione, dato che essa ha bisogno del potere zarista per servirsene come di uno staffile contro gli operai e i contadini che essa teme più di ogni altra cosa. La borghesia liberale si sforzerà quindi di conservare il potere dello zar, limitandone un po' le prerogative. La borghesia liberale si sforzerà di risolvere il problema mediante un'intesa con lo zar, sulla base di una monarchia costituzionale.
La rivoluzione vincerà solo se il proletariato si metterà alla sua testa; se il proletariato, come capo della rivoluzione, saprà assicurarsi l'alleanza con i contadini; se la borghesia liberale sarà isolata; se la socialdemocrazia parteciperà attivamente all'organizzazione dell'insurrezione popolare contro lo zarismo; se sarà creato, in seguito alla vittoria dell'insurrezione, un governo rivoluzionario provvisorio, capace di sradicare la controrivoluzione e di riunire l'Assemblea costituente di tutto il popolo; se la socialdemocrazia non si rifiuterà, le condizioni permettendolo, di partecipare al governo rivoluzionario provvisorio, per condurre fino in fondo la rivoluzione.
Linea tattica della conferenza menscevica. - Siccome si tratta di una rivoluzione borghese, solo la borghesia liberale può esserne il capo. Il proletariato non deve avvicinarsi ai contadini, ma alla borghesia liberale. Ciò che importa soprattutto è che non spaventi la borghesia liberale col suo spirito rivoluzionario e che non le dia un pretesto per distaccarsi dalla rivoluzione, perché in tal caso, la rivoluzione s'indebolirà.
È possibile che l'insurrezione sia vittoriosa, ma la socialdemocrazia, dopo la vittoria dell'insurrezione, deve mettersi in disparte, per non spaventare la borghesia liberale. È possibile che, in seguito all'insurrezione, sia creato un governo rivoluzionario provvisorio, ma la socialdemocrazia non potrà parteciparvi in nessun caso, dato che tale governo non avrà un carattere socialista e che, soprattutto, con la partecipazione e con il suo spirito rivoluzionario, la socialdemocrazia potrebbe spaventare la borghesia liberale e compromettere in tal modo la rivoluzione.
Dal punto di vista delle prospettive della rivoluzione, sarebbe preferibile che fosse convocato qualche organo rappresentativo come uno Zemski sobor o una Duma di Stato, sul quale la classe operaia potrebbe premere dal di fuori, per trasformarlo in un'Assemblea costituente o per spingerlo a convocare questa Assemblea.
Il proletariato ha i suoi interessi particolari, prettamente operai; e dovrebbe occuparsi precisamente di questi interessi e non aspirare a divenire il capo della rivoluzione borghese, che è una rivoluzione politica generale e riguarda, quindi, tutte le classi e non il solo proletariato.
Queste, in breve, le due tattiche delle due frazioni del Partito Operaio Socialdemocratico di Russia.
La critica classica della tattica dei menscevichi e la dimostrazione geniale della giustezza della tattica bolscevica sono esposte da Lenin nel suo storico libro: «Due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica».
Questo libro fu pubblicato nel luglio del 1905, ossia due mesi dopo il III Congresso del partito. Dal titolo del libro, si potrebbe pensare che Lenin vi esamini solo le questioni tattiche che si riferiscono al periodo della rivoluzione democratico-borghese, ed ai menscevichi russi. Ma, in realtà, criticando la tattica dei menscevichi, egli denuncia, al tempo stesso, la tattica dell'opportunismo internazionale. Inoltre, gettando le basi della tattica dei marxisti nel periodo della rivoluzione borghese e distinguendo la rivoluzione borghese dalla rivoluzione socialista, egli formula, in pari tempo, i princìpi della tattica marxista nel periodo di transizione della rivoluzione borghese alla rivoluzione socialista.
Ecco i princìpi tattici fondamentali sviluppati da Lenin nella sua opera: «Due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica».
1. - Il principio tattico essenziale che ispira tutto il libro di Lenin risiede nell'idea che il proletariato può e deve essere il capo della rivoluzione democratico-borghese, il dirigente della rivoluzione democratico-borghese in Russia.
Lenin riconosceva il carattere borghese di quella rivoluzione, dato che essa, come egli scriveva, «non era capace di uscire direttamente dal quadro di una rivoluzione semplicemente democratica». Egli considerava però che non si trattava di una rivoluzione degli strati superiori ma di una rivoluzione popolare, che metteva in moto tutto il popolo, tutta la classe operaia, tutti i contadini. Perciò, i tentativi dei menscevichi di diminuire l'importanza per il proletariato della rivoluzione borghese, di abbassare le funzioni del proletariato nella rivoluzione stessa e di tenerlo in disparte, erano considerati da Lenin come un tradimento degli interessi del proletariato.
 
Il marxismo - scriveva Lenin - insegna al proletario non ad appartarsi dalla rivoluzione borghese, a rimanere indifferente nei suoi riguardi, a lasciarne la direzione alla borghesia, ma, al contrario, a parteciparvi nel modo più energico, a lottare nel modo più deciso per il democratismo proletario conseguente, per condurre fino in fondo la rivoluzione. (Lenin - «Opere», vol. VIII, pag. 58 ed. russa).
Noi non dobbiamo dimenticare - scriveva più avanti Lenin - che oggi il solo mezzo per affrettare il socialismo è, e non può che essere, la completa libertà politica, una repubblica democratica. (Ibidem , pag. 104).
 
Lenin prevedeva due possibili soluzioni della rivoluzione:
1) o la vittoria decisiva sullo zarismo, l'abbattimento dello zarismo e l'instaurazione della repubblica democratica;
2) o, se le forze non bastassero, una conciliazione dello zar colla borghesia a spese del popolo, a mezzo di una costituzione mutilata o, piuttosto, di una caricatura di costituzione.
Il proletariato era interessato alla soluzione migliore, ossia alla vittoria definitiva sullo zarismo. Ma essa era possibile solo se il proletariato sapeva diventare il capo, il dirigente della rivoluzione.
 
L'esito della rivoluzione - scriveva Lenin - dipende da ciò: rivestirà la classe operaia la funzione di un ausiliario della borghesia, di un ausiliario potente nell'assalto all'autocrazia, ma politicamente impotente; oppure quella di dirigente della rivoluzione popolare? (Ibidem , pag. 32).
 
Lenin considerava che il proletariato aveva tutte le possibilità di sfuggire alla sorte di ausiliario della borghesia e di diventare il dirigente della rivoluzione democratico-borghese. Queste possibilità, secondo Lenin, erano le seguenti:
In primo luogo, «il proletariato, essendo, per la sua situazione, la classe rivoluzionaria più avanzata e la sola conseguente, è destinato, per questo fatto stesso, a svolgere una funzione dirigente nel movimento rivoluzionario democratico generale della Russia». (Ibidem , pag. 75).
In secondo luogo, il proletariato ha il suo partito politico, indipendente dalla borghesia, partito che gli dà la possibilità di raggrupparsi «in una forza politica unita e indipendente». (Ibidem , pag. 75).
In terzo luogo, il proletariato è più interessato della borghesia alla vittoria decisiva della rivoluzione; perciò «la rivoluzione borghese è, in un certo senso, più vantaggiosa , al proletariato che alla borghesia» (Ibidem , pag. 57).
 
È utile per la borghesia - scriveva Lenin - di appoggiarsi su alcuni residui del passato contro il proletariato, ad esempio sulla monarchia, sull'esercito permanente, ecc. Alla borghesia è utile che la rivoluzione borghese non spazzi via troppo risolutamente tutti i residui del passato, ma ne lasci sussistere qualcuno, ossia che la rivoluzione non sia del tutto conseguente e completa, non sia risoluta ed implacabile... Per la borghesia, è più utile che le trasformazioni necessarie, nel senso della democrazia borghese, avvengano più lentamente, più gradualmente, più prudentemente, meno risolutamente, per mezzo di riforme, e non con una rivoluzione... che queste trasformazioni contribuiscano il meno possibile a sviluppare l'azione rivoluzionaria, l'iniziativa e l'energia della plebe, ossia dei contadini e soprattutto degli operai. Perché, altrimenti, sarebbe tanto più facile agli operai «passare il fucile da una spalla all'altra», come dicono i francesi, ossia rivolgere contro la stessa borghesia le armi che la rivoluzione borghese fornirebbe loro, le libertà che essa darebbe, le istituzioni democratiche sorte sul terreno sbarazzato dal servaggio. Per la classe operaia, al contrario, è più utile che le trasformazioni necessarie nel senso della democrazia borghese si realizzino, non per mezzo delle riforme, ma con la rivoluzione, perché la via delle riforme è la via degli indugi, delle tergiversazioni e della morte lenta e dolorosa delle parti incancrenite dell'organismo nazionale. Il proletariato e i contadini soffrono della cancrena per i primi e più di tutti. La via della rivoluzione è la via dell'operazione chirurgica più rapida, meno dolorosa per il proletariato, quella che consiste nell'amputare risolutamente la parte cancrenosa, la via del minimo di concessioni e di riguardi verso la monarchia e le sue istituzioni infami, abbiette e cancrenose, il cui fetore appesta l'atmosfera. (Ibidem , pagg. 57-58).
Ecco perché - continuava Lenin - il proletariato lotta nelle prime file per la repubblica, respingendo con disprezzo il consiglio sciocco e indegno di temere una possibile defezione della borghesia. (Ibidem , pag. 94).
 
Perché le possibilità di una direzione proletaria si trasformino in realtà , perché il proletariato diventi realmente il capo, il dirigente della rivoluzione borghese, sono necessarie, secondo Lenin, almeno due condizioni.
È necessario, in primo luogo, che il proletariato abbia un alleato interessato alla vittoria decisiva sullo zarismo e propenso ad accettare la direzione proletaria. Ciò era richiesto dal concetto stesso di direzione, perché il dirigente cessa di essere un dirigente se non ha nessuno da dirigere, il capo cessa di essere un capo se non ha nessuno da guidare. I contadini erano, secondo Lenin, questo alleato.
È necessario, in secondo luogo, che la classe che contende al proletariato la direzione della rivoluzione e vuol esserne l'unico dirigente, sia scartata dalla direzione e isolata. Ciò era richiesto anche dal concetto stesso di direzione, che esclude la possibilità di due dirigenti nella rivoluzione. Questa classe era, secondo Lenin, la borghesia liberale.
 
Solo il proletariato - scriveva Lenin - può combattere in modo conseguente per la democrazia. Ma potrà vincere in questo combattimento solo se le masse contadine si uniranno alla sua lotta rivoluzionaria. (Ibidem , pag. 65).
 
E più avanti:
 
Tra i contadini vi è una massa di elementi semiproletari accanto a elementi piccolo-borghesi. Ciò li rende pure essi instabili, obbligando il proletariato a raggrupparsi in un partito di classe rigorosamente definito. Ma l'instabilità dei contadini differisce in modo radicale dell'instabilità della borghesia, perché essi, nel momento attuale, sono interessati non tanto alla conservazione assoluta della proprietà privata, quanto alla confisca delle terre dei proprietari fondiari, una delle forme principali di questa proprietà. Senza diventare con ciò socialisti, senza cessare di essere piccolo-borghesi, i contadini possono diventare dei seguaci decisi e tra i più radicali della rivoluzione democratica. Essi lo diventeranno inevitabilmente, purché la marcia degli avvenimenti rivoluzionari che li stanno educando non sia interrotta troppo presto dal tradimento della borghesia e dalla disfatta del proletariato. A questa condizione, i contadini diventeranno certamente il baluardo della rivoluzione e della repubblica, perché solo una rivoluzione completamente vittoriosa potrà dar loro tutto nel dominio delle riforme agrarie, tutto ciò che essi desiderano, che sognano, che è loro veramente indispensabile. (Ibidem , pagg. 94-95).
 
Analizzando le obiezioni dei menscevichi i quali pretendevano che questa tattica dei bolscevichi «avrebbe obbligato le classi borghesi ad allontanarsi dalla rivoluzione e ne avrebbe quindi ristretto l'ampiezza», e definendole come «una tattica di tradimento della rivoluzione», come una «tattica trasformante il proletariato in una miserevole appendice delle classi borghesi», Lenin scriveva:
 
Chi comprende veramente la funzione dei contadini nella rivoluzione russa vittoriosa, non dirà mai che l'ampiezza della rivoluzione si restringerà quando la borghesia se ne sarà allontanata. Perché la rivoluzione russa si svilupperà veramente nel modo più ampio e raggiungerà veramente la massima ampiezza possibile nell'epoca della rivoluzione democratico borghese, solo quando la borghesia se ne sarà allontanata e quando i contadini, a fianco del proletariato, vi assumeranno una funzione rivoluzionaria attiva. Affinché la nostra rivoluzione democratica sia condotta sino in fondo e in modo conseguente, deve basarsi su forze capaci di paralizzare l'inevitabile inconseguenza della borghesia, ossia capaci precisamente di «obbligarla ad allontanarsene». (Ibidem , pagg. 95-96).
 
Questo è il principio tattico fondamentale riguardante il proletariato come capo della rivoluzione borghese, il principio tattico essenziale sull'egemonia (funzione dirigente) del proletariato nella rivoluzione borghese, principio sviluppato da Lenin nel suo libro «Due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica».
Questa era la nuova posizione del partito marxista sui problemi della tattica durante la rivoluzione democratico-borghese, posizione fondamentalmente distinta dalle concezioni tattiche preesistenti nell'arsenale marxista. Fino a quel tempo le cose si erano presentate così: nelle rivoluzioni borghesi, per esempio in Occidente, la direzione era esercitata dalla borghesia, mentre il proletariato, volente o nolente, era l'ausiliario e i contadini la riserva della borghesia. I marxisti consideravano più o meno inevitabile una tale situazione, con la riserva, però, che il proletariato doveva difendere il più possibile le proprie rivendicazioni immediate di classe e possedere un proprio partito politico. Ma ora, nella nuova situazione storica, le cose, secondo la concezione di Lenin, si presentavano così: il proletariato diveniva la forza dirigente della rivoluzione borghese; la borghesia era sempre più scartata dalla direzione della rivoluzione, mentre i contadini si trasformavano in una riserva del proletariato.
L'affermazione che Plekhanov «era anche lui» per l'egemonia del proletariato è basata su di un malinteso. Plekhanov civettava con l'idea dell'egemonia del proletariato e non mancava di riconoscerla a parole: ciò è vero; ma, in realtà, era contro la sostanza di questa idea. L'egemonia del proletariato è la funzione dirigente del proletariato nella rivoluzione borghese, quando il proletariato conduce una politica di alleanza con i contadini, e una politica di isolamento della borghesia liberale. Invece Plekhanov era, com'è noto, contro la politica di isolamento della borghesia liberale per la politica di intesa con essa, contro la politica di alleanza del proletariato con i contadini. In realtà, la posizione tattica di Plekhanov era una posizione menscevica di negazione dell'egemonia del proletariato.
2. - Il mezzo essenziale per rovesciare lo zarismo e per arrivare alla repubblica democratica, Lenin lo scorgeva nella vittoria dell'insurrezione armata del popolo. All'opposto dei menscevichi, Lenin considera che «il movimento rivoluzionario democratico generale ha già portato alla necessità di una insurrezione armata», che «l'organizzazione del proletariato per l'insurrezione» è già «posta all'ordine del giorno come uno dei compiti principali, essenziali e necessari del partito», che è necessario «prendere i provvedimenti più energici per armare il proletariato e per assicurare la direzione immediata dell'insurrezione». (Ibidem , pag. 75).
Per condurre le masse all'insurrezione e fare in modo che l'insurrezione fosse opera di tutto il popolo, Lenin riteneva necessario lanciare delle parole d'ordine, degli appelli capaci di sprigionare l'iniziativa rivoluzionaria delle masse, di organizzarle per l'insurrezione e di disorganizzare l'apparato del potere zarista. Tali parole d'ordine dovevano riassumere, secondo Lenin, le risoluzioni tattiche del III Congresso del partito, alla cui difesa era consacrato il suo libro «Due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica».
Secondo Lenin, quelle parole d'ordine erano:
a) attuare degli «scioperi politici di massa che possono avere una grande importanza all'inizio e nel corso stesso dell'insurrezione». (Ibidem , pag. 75);
b) procedere all'«applicazione immediata, con metodi rivoluzionari, della giornata lavorativa di 8 ore e delle altre rivendicazioni urgenti della classe operaia». (Ibidem , pag.47);
c) «procedere all'organizzazione immediata dei comitati contadini rivoluzionari per compiere», con metodi rivoluzionari, «tutte le trasformazioni democratiche», fino e compresa la confisca delle terre dei grandi proprietari fondiari. (Ibidem , pag. 88);
d) armare gli operai.
E qui sono soprattutto importanti due elementi.
In primo luogo: la tattica dell'applicazione rivoluzionaria della giornata lavorativa di 8 ore nelle città e delle trasformazioni democratiche nelle campagne, ossia di una applicazione che non tenga conto delle autorità, non tenga conto della legge, ignori e i poteri costituiti e la legalità, spezzi le leggi esistenti e stabilisca un nuovo ordine di cose, secondo la volontà e l'autorità delle masse. Nuovo sistema tattico, la cui applicazione paralizzò l'apparato del potere zarista e diede libero corso all'attività e all'iniziativa creatrice delle masse. È sulla base di questa tattica che sorsero i comitati rivoluzionari di sciopero nelle città e i comitati rivoluzionari contadini nelle campagne, di cui i primi divennero in seguito i Soviet dei deputati operai e i secondi i Soviet dei deputati contadini.
In secondo luogo: l'applicazione degli scioperi politici di massa, degli scioperi politici generali che ebbero poi, nel corso della rivoluzione, una funzione di prim'ordine per la mobilitazione rivoluzionaria delle masse. Arma nuova, molto importante nelle mani del proletariato, sconosciuta sino ad allora nella pratica dei partiti marxisti e che acquistò in seguito diritto di cittadinanza.
Lenin riteneva che, dopo la vittoria delI'insurrezione popolare, il governo dello zar doveva essere sostituito da un governo rivoluzionario provvisorio, che avrebbe dovuto consolidare le conquiste della rivoluzione, schiacciare la resistenza della controrivoluzione e applicare il programma minimo del Partito Operaio Socialdemocratico in Russia. Lenin riteneva che senza adempiere a questi compiti non era possibile la vittoria decisiva sullo zarismo. E, per adempiere a questi compiti e riportare una vittoria decisiva sullo zarismo, il governo rivoluzionario provvisorio non doveva essere un governo ordinario, ma un governo della dittatura delle classi vittoriose, degli operai e dei contadini; doveva essere la dittatura rivoluzionaria del proletariato e dei contadini. Richiamandosi alla notissima tesi di Marx, che «ogni organizzazione provvisoria dello Stato, dopo la rivoluzione, esige la dittatura, e una dittatura energica», Lenin concludeva che il governo rivoluzionario provvisorio, se voleva assicurare la vittoria definitiva sullo zarismo, non poteva essere che la dittatura del proletariato e dei contadini.
 
La vittoria definitiva della rivoluzione sullo zarismo - scriveva Lenin, - è la dittatura democratico-rivoluzionaria del proletariato e dei contadini ... E questa vittoria sarà precisamente una dittatura, ossia dovrà di necessità appoggiarsi sulla forza armata, sull'armamento delle masse, sull'insurrezione, e non su queste o quelle istituzioni, costituite per «vie legali» o «pacifiche». Non può essere che una dittatura, perché alle trasformazioni immediatamente e assolutamente necessarie per il proletariato e i contadini, i proprietari fondiari, la grande borghesia e lo zarismo opporranno una resistenza disperata. Senza la dittatura, sarebbe impossibile spezzare questa resistenza e respingere gli attacchi della controrivoluzione. Non sarà, però, evidentemente, una dittatura socialista, ma una dittatura democratica. Essa non potrà intaccare (prima che la rivoluzione non abbia percorso diverse tappe intermedie) le basi del capitalismo. Essa potrà, nel migliore dei casi: procedere a una ridistribuzione radicale della proprietà fondiaria a vantaggio dei contadini; applicare a fondo un democratismo conseguente, fino (e compresa) la proclamazione della repubblica; sradicare le sopravvivenze del dispotismo asiatico, non solo dalla vita delle campagne, ma anche da quella delle fabbriche: cominciare a migliorare seriamente le condizioni degli operai, ed elevare il loro livello di vita; e, infine - ultimo ma non meno importante - estendere l'incendio rivoluzionario all'Europa. Questa vittoria non farà ancora affatto della nostra rivoluzione borghese una rivoluzione socialista; la rivoluzione democratica non uscirà direttamente dal quadro dei rapporti sociali ed economici borghesi, e tuttavia questa vittoria avrà un'importanza immensa per lo sviluppo futuro della Russia e di tutto il mondo. Nulla rafforzerà maggiormente l'energia rivoluzionaria del proletariato mondiale, nulla ne accorcerà tanto il cammino verso la vittoria completa, quanto questa vittoria decisiva della rivoluzione cominciata in Russia. (Ibidem , pagg. 62-63).
 
Circa l'atteggiamento della socialdemocrazia verso il governo rivoluzionario provvisorio e la possibilità per essa di parteciparvi, Lenin difendeva in pieno la risoluzione del III Congresso del partito su questa questione dove è detto:
 
Secondo il rapporto di forza e altri fattori che non si possono stabilire con precisione in anticipo si potrebbe ammettere la partecipazione a un governo rivoluzionario provvisorio di delegati del nostro partito allo scopo di lottare a fondo contro tutti i tentativi controrivoluzionari e di difendere gli interessi autonomi della classe operaia. Le condizioni indispensabili per una tale partecipazione sono il controllo severo del partito sui propri delegati e la salvaguardia costante dell'indipendenza della socialdemocrazia che, tendendo a una rivoluzione socialista completa, è, per questo fatto stesso, irriducibilmente ostile a tutti i partiti borghesi. Indipendentemente dalla possibilità di una partecipazione della socialdemocrazia al governo rivoluzionario provvisorio, occorre diffondere fra i più larghi strati del proletariato l'idea della necessità di una continua pressione sul governo provvisorio da parte del proletariato armato e diretto dalla socialdemocrazia, per proteggere, consolidare e allargare le conquiste della rivoluzione. (Ibidem, pag. 37).
 
I menscevichi obiettavano che il governo provvisorio sarebbe stato, ad ogni modo, un governo borghese, che non si sarebbe potuto ammettervi la partecipazione dei socialdemocratici, per non ricadere nell'errore del socialista francese Millerand, che aveva partecipato al governo borghese in Francia. Ma Lenin replicava, dimostrando che i menscevichi confondevano due cose diverse , e rivelavano in pieno la loro incapacità ad affrontare marxisticamente la questione: in Francia, si trattava della partecipazione dei socialisti a un governo borghese reazionario in un periodo in cui, nel paese, la situazione non era rivoluzionaria, il che imponeva ai socialisti di non parteciparvi: in Russia si tratta, invece, della partecipazione dei socialisti a un governo borghese rivoluzionario , lottante per la vittoria della rivoluzione ; nella fase culminante della rivoluzione - circostanza che rende ammissibile e, in condizioni favorevoli, obbligatoria la partecipazione dei socialdemocratici a tale governo, per battere la controrivoluzione non solo «dal basso» dal di fuori, ma anche «dall'alto», dal seno del governo.
3. - Sebbene lottasse per la vittoria della rivoluzione borghese e l'avvento della repubblica democratica, Lenin non pensava affatto di fermarsi alla tappa democratica e di limitare lo slancio del movimento rivoluzionario al raggiungimento degli obiettivi democratici borghesi. Anzi, Lenin pensava che, una volta raggiunti gli obiettivi democratici, doveva incominciare la lotta del proletariato e delle altre masse sfruttate per la rivoluzione socialista . Di ciò Lenin aveva chiara consapevolezza e riteneva necessario che la socialdemocrazia prendesse tutti i provvedimenti utili perché la rivoluzione democratico-borghese cominciasse a trasformarsi in rivoluzione socialista. La dittatura del proletariato e dei contadini era necessaria, secondo Lenin, non per terminare la rivoluzione con la vittoria sullo zarismo, ma per prolungare il più possibile lo stato di rivoluzione, per ridurre in polvere i rottami della controrivoluzione, per estendere all'Europa la fiamma della rivoluzione e - dopo aver dato nel frattempo, al proletariato la possibilità di istruirsi politicamente e di organizzarsi in un grande esercito - per passare direttamente alla rivoluzione socialista.
A proposito dell'ampiezza della rivoluzione borghese e del carattere che il partito marxista doveva dare a questa ampiezza, Lenin scriveva:
 
Il proletariato deve condurre in fondo la rivoluzione democratica, unendo a sé le masse dei contadini, per schiacciare con la forza la resistenza dell'autocrazia e paralizzare l'instabilità della borghesia. Il proletariato deve compiere la rivoluzione socialista, unendo a sé tutte le masse semiproletarie della popolazione, per spezzare con la forza la resistenza della borghesia e paralizzare l'instabilità, dei contadini e della piccola borghesia. Sono questi i compiti del proletariato, compiti che la gente della nuova Iskra [cioè i menscevichi] presenta in modo così ristretto in tutti i suoi ragionamenti e risoluzioni sull'ampiezza della rivoluzione. (Ibidem , pag. 96).
 
E ancora:
 
Alla testa di tutto il popolo e, soprattutto, dei contadini, per la libertà completa, per una rivoluzione democratica conseguente, per la repubblica! Alla testa di tutti i lavoratori e di tutti gli sfruttati, per il socialismo! Questa deve essere praticamente la politica del proletariato rivoluzionario, questa la parola d'ordine di classe che deve dominare e determinare la soluzione di tutti i problemi tattici, tutta l'attività pratica del partito operaio durante la rivoluzione. (Ibidem , pag. 105).
 
Per dissipare qualsiasi dubbio, Lenin, due mesi dopo la pubblicazione del suo libro «Due tattiche», nel suo articolo «L'atteggiamento della socialdemocrazia verso il movimento contadino» diede ancora le spiegazioni seguenti:
 
Compiuta la rivoluzione democratica, noi passeremo subito - nella misura precisa delle nostre forze, cioè nella misura delle forze del proletariato cosciente e organizzato - sulla via della rivoluzione socialista. Noi siamo per la rivoluzione ininterrotta. Noi non ci arresteremo a mezza strada. (Ibidem , pag. 186).
 
Era una nuova concezione dei rapporti tra la rivoluzione borghese e quella socialista, una nuova teoria del raggruppamento delle forze intorno al proletariato, verso la fine della rivoluzione borghese, per passare direttamente alla rivoluzione socialista - la teoria della trasformazione della rivoluzione democratico-borghese in rivoluzione socialista.
Stabilendo questa nuova concezione, Lenin si basava, in primo luogo, sulla celebre tesi a proposito della rivoluzione ininterrotta, formulata da Marx verso il 1850 nell'«Indirizzo alla Lega dei comunisti» e, in secondo luogo, sull'altra idea nota di Marx, circa la necessità di combinare il movimento rivoluzionario contadino con la rivoluzione proletaria, idea che egli espresse in una lettera ad Engels del 1856, nella quale diceva: «Tutto in Germania dipenderà dalla possibilità di appoggiare la rivoluzione proletaria con una specie di seconda edizione della guerra dei contadini». Ma questi geniali pensieri di Marx non furono ulteriormente sviluppati nelle opere di Marx e di Engels e i teorici della Il Internazionale fecero di tutto per seppellirli e farli dimenticare. Fu a Lenin che spettò il compito di riportare alla luce quelle tesi dimenticate di Marx e di ristabilirle integralmente. Però, ristabilendole, Lenin non si limitò - né poteva del resto limitarsi - a ripeterle semplicemente, ma le sviluppò ulteriormente e le trasformò in una teoria armonica della rivoluzione socialista, introducendo un nuovo fattore obbligatorio per la rivoluzione socialista - l'alleanza del proletariato con gli elementi semiproletari delle città e delle campagne come una condizione per la vittoria della rivoluzione proletaria.
Questa concezione frantumava le posizioni tattiche della socialdemocrazia dell'Europa occidentale, la quale sosteneva che, dopo la rivoluzione borghese, le masse contadine, comprese quelle dei contadini poveri, dovevano di necessità allontanarsi dalla rivoluzione, e alla rivoluzione borghese doveva perciò subentrare un lungo periodo di tregua , un lungo periodo di «calma» di 50-100 anni se non più, durante il quale il proletariato sarebbe stato «pacificamente» sfruttato mentre la borghesia si sarebbe arricchita «legittimamente» fino a che non fosse scoccata l'ora di una nuova rivoluzione, la rivoluzione socialista.
Questa concezione di Lenin era la nuova teoria della rivoluzione socialista , realizzata non dal proletariato isolato contro tutta la borghesia, ma dal proletariato egemone che ha per alleati gli elementi semiproletari della popolazione, ossia innumerevoli «masse di lavoratori e di sfruttati».
Secondo questa teoria, l'egemonia del proletariato nella rivoluzione borghese, - il proletariato avendo i contadini come alleati , - doveva trasformarsi in egemonia del proletariato nella rivoluzione socialista, il proletariato avendo le altre masse di lavoratori e di sfruttati come alleate , e la dittatura democratica del proletariato e dei contadini doveva preparare il terreno per la dittatura socialista del proletariato.
Questa teoria demoliva quella in auge tra i socialdemocratici dell'Europa occidentale, i quali negavano le possibilità rivoluzionarie delle masse semiproletarie urbane e rurali e muovevano dall'idea che segue: «Oltre la borghesia e il proletariato, noi non vediamo altre forze sociali sulle quali possano appoggiarsi, nel nostro paese, le combinazioni d'opposizione o rivoluzionarie» (dichiarazione di Plekhanov, tipica per i socialdemocratici dell'Europa occidentale).
I socialdemocratici dell'Europa occidentale ritenevano che, nella rivoluzione socialista, il proletariato sarebbe stato solo contro tutta la borghesia, senza alleati, contro tutte le classi e gli strati non proletari. Essi non volevano tener conto del fatto che il capitale sfrutta non soltanto i proletari, ma anche le masse innumerevoli degli strati semiproletari urbani e rurali, oppressi dal capitalismo e che possono essere gli alleati del proletariato nella lotta che sostiene per la liberazione della società dal giogo capitalistico. I socialdemocratici dell'Europa occidentale ritenevano perciò che le condizioni per la rivoluzione socialista in Europa non fossero ancora mature, e lo sarebbero divenute solo allorché il proletariato fosse divenuto la maggioranza della nazione, la maggioranza della società conseguentemente al futuro sviluppo economico della società.
Questa concezione putrida e antiproletaria dei socialdemocratici dell'Europa occidentale era decisamente demolita dalla teoria della rivoluzione socialista formulata da Lenin.
La teoria di Lenin non portava alla diretta conclusione che la vittoria del socialismo in un solo paese preso separatamente era possibile. Ma conteneva già tutti, o quasi, gli elementi essenziali, necessari per giungere, presto o tardi, a questa conclusione.
Com'è noto, a tale conclusione Lenin giunse nel 1915, ossia dieci anni dopo.
Sono questi i princìpi tattici essenziali sviluppati da Lenin, nel suo libro magistrale «Due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica».
L'importanza storica di quest'opera di Lenin consiste, innanzi tutto, nel fatto che demolì ideologicamente la concezione tattica piccolo-borghese dei menscevichi; che armò la classe operaia di Russia per lo sviluppo ulteriore della rivoluzione democratico-borghese, per un nuovo assalto allo zarismo; e che prospettò chiaramente ai socialdemocratici russi la necessità di trasformare la rivoluzione borghese in rivoluzione socialista.
Ma l'importanza del libro di Lenin non si limita solo a ciò. Il suo valore è inapprezzabile per aver arricchito il marxismo di una nuova teoria della rivoluzione, per aver gettato le fondamenta della tattica rivoluzionaria del partito bolscevico, di quella tattica che ha portato il proletariato del nostro paese alla vittoria, nel 1917, sul capitalismo.




4. Prosegue l'ascesa della rivoluzione. Lo sciopero politico generale nell'ottobre 1905. Lo zarismo batte in ritirata. Il manifesto dello zar. La formazione dei Soviet dei deputati operai.
Nell'autunno del 1905, il movimento rivoluzionario si era esteso a tutto il paese, dilagando con forza irresistibile.
Il 19 settembre cominciò a Mosca lo sciopero dei tipografi, che si estese a Pietroburgo e ad altre numerose città. A Mosca, lo sciopero dei tipografi, sostenuto dagli operai delle altre industrie, si trasformò in uno sciopero politico generale.
Nei primi giorni d'ottobre cominciò lo sciopero sulla ferrovia Mosca-Kazan. Il giorno dopo, scioperava tutta la rete ferroviaria di Mosca. Il movimento si estese ben presto a tutte le ferrovie del paese. Anche negli uffici postali e telegrafici era stato abbandonato il lavoro. Nelle diverse città della Russia, migliaia di operai si riunivano a comizio e decidevano l'abbandono del lavoro. Lo sciopero si estendeva di fabbrica in fabbrica, di officina in officina, di città in città, di distretto in distretto. Agli operai scioperanti si univano i piccoli impiegati, gli studenti, gli intellettuali: avvocati, ingegneri, medici.
Lo sciopero politico d'ottobre divenne generale in quasi tutto il paese, persino nelle regioni più remote, raggiungendo quasi tutti gli operai, anche degli strati più arretrati. Vi partecipava circa un milione di soli operai industriali, oltre i ferrovieri, gli impiegati delle poste e dei telegrafi e di altre istituzioni che abbracciavano pure un gran numero di scioperanti. Tutta la vita del paese era come sospesa, le forze del governo come colpite da paralisi.
Era la classe operaia che assumeva la direzione della lotta delle masse popolari contro l'autocrazia.
La parola d'ordine dei bolscevichi sullo sciopero politico di massa recava i suoi frutti.
Lo sciopero generale d'ottobre, dimostrando la forza, la potenza del movimento operaio, obbligò lo zar, morto di spavento, a lanciare il manifesto del 17 ottobre 1905. Lo zar vi prometteva al popolo «le basi intangibili dei diritti civili: vera inviolabilità della persona, libertà di coscienza, di parola, di riunione e d'associazione» e s'impegnava di riunire una Duma con poteri legislativi, facendo partecipare alle elezioni tutte le classi della popolazione.
Così era spazzata via dalla pressione rivoluzionaria la Duma consultiva di Bulyghin. La tattica bolscevica di boicottaggio di questa Duma si era dimostrata giusta.
Tuttavia, il manifesto del 17 ottobre era una mistificazione delle masse popolari, uno stratagemma dello zar, una tregua singolare di cui lo zar aveva bisogno per ingannare gli ingenui, guadagnar tempo, raccogliere le forze allo scopo di potere in seguito scagliarsi contro la rivoluzione. Il governo dello zar aveva promesso, a parole, la libertà, ma, di fatto, nulla diede di sostanziale. Gli operai e i contadini, intanto, non ricevettero nulla dal governo se non alcune promesse. Invece della larga amnistia politica attesa, il 21 ottobre, furono amnistiati solo pochissimi detenuti politici. Nello stesso tempo, per dividere le forze del popolo, il governo organizzava molti sanguinosi progrom contro gli ebrei durante i quali venivano massacrate migliaia e migliaia di persone; inoltre, per reprimere la rivoluzione creava delle organizzazioni poliziesche di mazzieri: l'«Unione del popolo russo», l'«Unione dell'Arcangelo Michele». Queste organizzazioni, in cui i proprietari terrieri reazionari, i grossi commercianti, i popi, insieme agli elementi spostati, semicriminali, avevano una funzione importante, furono battezzate dal popolo col nome di «Cento-neri». I Cento-neri, con la complicità della polizia, bastonavano, massacravano impunemente gli operai d'avanguardia, gli intellettuali rivoluzionari, gli studenti, provocavano incendi e sparavano sui cittadini nei comizi e nelle riunioni. Ecco cosa aveva dato il manifesto dello zar!
Un ritornello era allora in voga tra il popolo:
 
Lo zar s'è spaventato,
Ha fatto un manifesto,
La libertà pei morti,
Per i vivi l'arresto.
 
I bolscevichi spiegavano alle masse che il manifesto del 17 ottobre era una trappola e denunciavano la condotta del governo dopo il manifesto come una provocazione. I bolscevichi chiamavano gli operai a impugnare le armi, a preparare l'insurrezione armata.
E gli operai si misero ancora più energicamente a creare delle squadre di combattimento. Avevano compreso che la prima vittoria del 17 ottobre, strappata con lo sciopero generale politico, imponeva nuovi sforzi, una nuova lotta per il rovesciamento dello zarismo.
Lenin pensava che il momento in cui era stato lanciato il manifesto del 17 ottobre segnava un certo equilibrio di forze; in quel momento, il proletariato e i contadini, strappando allo zar il manifesto, non erano ancora abbastanza forti per abbattere lo zarismo, mentre lo zarismo non poteva più governare soltanto con i vecchi mezzi ed era costretto a promettere a parole i «diritti civili» e una Duma «legislativa».
Durante le giornate burrascose dello sciopero politico d'ottobre, nell'infuriare della lotta contro lo zarismo, il genio creatore delle masse rivoluzionarie aveva forgiato una nuova arma potente: i Soviet dei deputati operai.
I Soviet dei deputati operai, che riunivano i delegati di tutte le fabbriche e officine, erano un'organizzazione politica di massa della classe operaia, senza esempi nella storia. I Soviet, apparsi per la prima volta nel 1905, erano il prototipo del potere sovietico, che doveva poi creare il proletariato nel 1917, sotto la direzione del partito bolscevico. I Soviet erano una nuova forma rivoluzionaria del genio creatore del popolo. Essi erano creati esclusivamente dagli strati rivoluzionari della popolazione, e cancellavano tutte le leggi e le norme dello zarismo. Erano una manifestazione dell'iniziativa del popolo che sorgeva alla lotta contro lo zarismo.
Per i bolscevichi, i Soviet erano gli embrioni del potere rivoluzionario, la forza ed importanza dei quali dipendevano completamente dalla forza e dai successi dell'insurrezione.
I menscevichi non consideravano i Soviet né come organi embrionali del potere rivoluzionario, né come organi dell'insurrezione. I Soviet non erano per i menscevichi che organi d'autoamministrazione locale, qualcosa come dei comuni democratizzati.
Il 13 (26) ottobre 1905, in tutte le fabbriche e officine di Pietroburgo si svolsero le elezioni del Soviet dei deputati operai. Nella stessa notte, si tenne la prima seduta del Soviet. Seguendo l'esempio di Pietroburgo, un Soviet di deputati operai fu costituito a Mosca.
Il Soviet dei deputati operai di Pietroburgo, essendo il Soviet del massimo centro industriale e rivoluzionario della Russia, della capitale dell'impero zarista, avrebbe dovuto svolgere una funzione decisiva nella rivoluzione del 1905. Invece, non adempì ai suoi compiti, data la sua direzione cattiva, menscevica. Com'è noto, Lenin, in quel tempo, non si trovava a Pietroburgo; egli era ancora all'estero. I menscevichi approfittarono della sua assenza per insinuarsi nel Soviet di Pietroburgo ed impadronirsi della direzione. Non è quindi strano che, in tali condizioni, i menscevichi Khrustalev, Trotzki, Parvus e altri potessero orientare il Soviet di Pietroburgo contro la politica dell'insurrezione. Invece di avvicinare al Soviet i soldati, di unirli in una lotta comune, essi richiesero che i soldatì fossero allontanati da Pietroburgo. Invece di armare gli operai e di prepararli all'insurrezione, il Soviet segnava il passo, opponendosi ai preparativi d'insurrezione.
Ben altra funzione ebbe nella rivoluzione il Soviet dei deputati operai di Mosca, che, fin dall'inizio, condusse, diretto dai bolscevichi, una politica rivoluzionaria conseguente. Grazie all'attività bolscevica, si costituì a Mosca, a fianco del Soviet dei deputati operai, il Soviet dei deputati soldati. Il Soviet di Mosca divenne l'organo dell'insurrezione armata.
Dall'ottobre al dicembre 1905, i Soviet dei deputati operai vennero creati in molte città importanti e in quasi tutti i centri operai. Si tentò pure di creare dei Soviet di deputati soldati e marinai e di unirli con i Soviet dei deputati operai. Qua e là furono fondati dei Soviet di deputati operai e contadini.
L'influenza dei Soviet era immensa. Sebbene il loro sorgere fosse sovente spontaneo, non avessero una forma ben definita e la loro composizione fosse abbastanza vaga, essi agivano in quanto potere. I Soviet realizzavano la libertà di stampa di propria autorità, applicavano la giornata lavorativa di 8 ore, invitavano il popolo a non pagare le tasse al governo dello zar. In certi casi confiscavano i fondi del governo zarista, impiegandoli per gli scopi della rivoluzione.
 


5. Insurrezione armata di dicembre. Sconfitta dell'insurrezione. La rivoluzione in declino. La I Duma di Stato. Il IV Congresso (Congresso d'unificazione) del partito.
Nei mesi di ottobre e novembre 1905, la lotta rivoluzionaria delle due masse continuò a svilupparsi in modo irresistibile. Gli scioperi degli operai si susseguivano.
La lotta dei contadini contro i proprietari fondiari aveva assunto nell'autunno del 1905, vaste proporzioni. Il movimento contadino si estese ad oltre un terzo dei distretti di tutto il paese. Vere sollevazioni contadine dilagavano nei governatorati di Saratov, Tambov, Cernigov, Tiflis, Kutais e in altri. Eppure, la spinta delle masse contadine non era ancora sufficiente. Il movimento mancava di organizzazione e di direzione.
In molte città - Tiflis, Vladivostok, Taskent, Samarcanda, Kursk, Sukhum, Varsavia, Kiev, Riga - i movimenti si moltiplicavano pure tra i soldati. Un'insurrezione scoppiò a Kronstadt e un'altra a Sebastopoli, tra i marinai della flotta del Mar Nero (nel novembre del 1905). Ma, per non essere state collegate tra di loro, vennero soffocate dallo zarismo.
Le rivolte, nelle diverse unità dell'esercito e della flotta, erano provocate non di rado dalla brutalità degli ufficiali, dal vitto cattivo («le rivolte dei ceci»), ecc. La massa dei soldati e dei marinai insorti non era ancora chiaramente consapevole della necessità di rovesciare il governo zarista, della necessità di continuare con energia la lotta armata. Ancora troppo bonari e pacifici, spesso commettevano l'errore di rimettere in libertà gli ufficiali arrestati all'inizio della rivolta e si lasciavano imbonire dalle promesse e dalle esortazioni dei comandanti.
Si era alla vigilia dell'insurrezione armata. I bolscevichi chiamavano le masse all'insurrezione armata contro lo zar e i proprietari fondiari, spiegavano loro che essa era inevitabile. Senza tregua, i bolscevichi la preparavano; svolgevano un'attività rivoluzionaria tra i soldati e i marinai; costituivano nell'esercito delle orgnizzazioni militari del partito. In molte città venivano formate squadre di combattimento tra gli operai, a cui si insegnava l'uso delle armi. Veniva inoltre organizzata la compera all'estero delle armi e la loro introduzione clandestina in Russia. All'organizzazione del trasporto delle armi partecipavano dei militanti del partito che ricoprivano cariche di grande importanza.
Nel novembre del 1905, Lenin rientrò in Russia. Sfuggendo ai gendarmi e alle spie dello zar, egli partecipò direttamente in quei giorni alla preparazione dell'insurrezione armata. I suoi articoli nel giornale bolscevico Novaia Gizn («La Vita nuova») davano le direttive per l'attività quotidiana del partito.
In quel tempo, il compagno Stalin svolgeva un'immensa attività rivoluzionaria nella Transcaucasia. Egli smascherava e denunziava i menscevichi come avversari della rivoluzione e dell'insurrezione armata e preparava con fermezza gli operai alla battaglia decisiva contro l'autocrazia. Il giorno in cui il manifesto dello zar fu reso pubblico, il compagno Stalin, in un comizio a Tiflis, disse agli operai:
 
Che cosa ci è necessario per vincere effettivamente? Tre cose: prima cosa: armarci; seconda cosa: armarci; terza cosa: ancora e ancora una volta armarci.
 
Nel dicembre del 1905, a Tammerfors, in Finlandia, si riunì una conferenza bolscevica. Benché i bolscevichi e i menscevichi appartenessero ufficialmente a un solo partito socialdemocratico, di fatto, formavano due partiti distinti, con i loro rispettivi centri direttivi. In quella conferenza, Lenin e Stalin si incontrarono per la prima volta. Fino a quel giorno, essi erano stati in relazione o per lettera o attraverso dei compagni.
Due decisioni della conferenza di Tammerfors meritano soprattutto di essere segnalate: l'una col ristabilimento dell'unità del partito, di fatto scisso in due, e l'altra sul boicottaggio della I Duma, la cosiddetta Duma di Witte.
Siccome a Mosca era già incominciata in quei giorni l'insurrezione armata, la conferenza, per consiglio di Lenin, chiuse rapidamente i propri lavori e i delegati se ne tornarono per partecipare personalmente all'insurrezione.
Però, neanche il governo dello zar dormiva. Esso pure si preparava alla lotta decisiva. Dopo aver concluso la pace col Giappone e reso così meno difficile la sua situazione, passò all'offensiva contro gli operai e i contadini. Proclamò la legge marziale in parecchi governatorati dove i contadini erano insorti, diede la feroce consegna di «non fare prigionieri», di «non risparmiare le cartucce» e ordinò di arrestare i dirigenti del movimento rivoluzionario e di sciogliere i Soviet dei deputati operai.
I bolscevichi di Mosca e il Soviet di Mosca dei deputati operai da essi diretto, decisero allora, legati come erano alle larghe masse operaie, di procedere alla immediata preparazione dell'insurrezione armata. Il 5 (18) dicembre, il comitato di Mosca prese la seguente decisione: proporre al Soviet di proclamare lo sciopero generale politico, per trasformarlo, nel corso della lotta, in insurrezione. La decisione riscosse il consenso delle numerose riunioni operaie. Il Soviet di Mosca, conformandosi alla volontà della classe operaia, decise all'unanimità di scatenare lo sciopero generale politico.
Il proletariato di Mosca, iniziando l'insurrezione, aveva la propria organizzazione di combattimento - quasi mille uomini, di cui più della metà bolscevichi. Squadre di combattimento esistevano pure in diverse fabbriche di Mosca. Complessivamente, gli insorti disponevano, nelle loro squadre di combattimento, di quasi duemila uomini. Gli operai pensavano di poter neutralizzare la guarnigione, di staccarne una parte e portarla al loro seguito.
Lo sciopero politico scoppiò a Mosca il 7 (20) dicembre. Ma non si poté estenderlo a tutto il paese. poiché Pietroburgo l'appoggiò insufficientemente. Così, già fin dall'inizio, l'insurrezione ebbe minori probabilità di successo. La ferrovia Nikolaievskaia, oggi Oktiabrskaia, rimase nelle mani del governo dello zar. Il movimento su quella linea non si arrestò e il governo poté inviare da Pietroburgo a Mosca i reggimenti della guardia alla scopo di schiacciare l'insurrezione.
A Mosca stessa, la guarnigione esitava. Se gli operai avevano scatenato l'insurrezione, era perché in parte avevano contato sull'aiuto dei soldati. Ma i rivoluzionari si lasciarono sfuggire il momento propizio e il governo dello zar represse i movimenti fra la guarnigione.
Il 9 (22) dicembre, si innalzarono a Mosca le prime barricate che ricopersero presto le strade. Il governo dello zar ricorse allora al cannone. Le autorità disponevano di truppe molto più numerose degli insorti. Tuttavia per nove giorni, alcune migliaia di operai armati lottarono da eroi. E soltanto grazie ai reggimenti giunti da Pietroburgo, da Tver e dalla regione occidentale, lo zarismo poté soffocare l'insurrezione. Degli organi dirigenti dell'insurrezione, gli uni erano stati, proprio alla vigilia della battaglia, arrestati, gli altri dispersi. Il Comitato bolscevico di Mosca venne arrestato e la lotta armata si trasformò in varie insurrezioni di singoli rioni isolati l'uno dall'altro. Privi di un centro dirigente, mancando di un piano di lotta per tutta la città, gli insorti nei vari rioni si limitarono soprattutto alla difensiva. Fu questa, come rilevò più tardi Lenin, la causa essenziale della debolezza dell'insurrezione di Mosca e una delle cause della sua sconfitta.
L'insurrezione fu soprattutto tenace e accanita nel rione Kràsnaia-Prèsnia. Questo quartiere di Mosca fu il centro, la cittadella principale dell'insurrezione. Vi si erano concentrate le migliori squadre di combattimento, dirette dai bolscevichi. Ma il rione di Kràsnaia-Prèsnia, messo a ferro e fuoco e inondato di sangue, era in fiamme per gli incendi provocati dall'artiglieria. L'insurrezione di Mosca era domata.
Tuttavia, l'insurrezione non era stata scatenata soltanto a Mosca. Sollevazioni rivoluzionarie scoppiarono in molte città e regioni. Insurrezioni armate si ebbero a Krasnoiarsk, Motovilikha (Perm), Novorossiisk, Sormovo, Sebastopoli, Kronstadt.
Le nazionalità oppresse della Russia impugnarono a loro volta le armi. L'insurrezione dilagò in quasi tutta la Georgia. Un'insurrezione importante scoppiò in Ucraina, nel bacino del Donez: a Gorlovka, Alessandrovsk, Lugansk (ora Voroscilovgrad). Accanita fu la lotta in Lettonia. In Finlandia, gli operai crearono la guardia rossa ed insorsero.
Ma tutte queste insurrezioni, come quella di Mosca, furono soffocate dallo zarismo con bestiale ferocia.
I menscevichi e i bolscevichi dettero un diverso apprezzamento dell'insurrezione armata di dicembre.
Il menscevico Plekhanov, dopo l'insurrezione armata, lanciò questo rimprovero al partito: «Non si doveva impugnare le armi». I menscevichi cercavano di dimostrare che l'insurrezione era inutile e dannosa; che si poteva fare a meno della rivoluzione; che si poteva vincere non coll'insurrezione armata, ma con metodi pacifici di lotta.
I bolscevichi invece bollarono a fuoco questo giudizio come un tradimento. Essi pensavano che l'esperienza dell'insurrezione armata di Mosca aveva confermato che la classe operaia poteva vincere nella lotta armata. Al rimprovero di Plekhanov che «non si dovevano impugnare le armi», Lenin rispose:
 
Al contrario, le armi si dovevano impugnare più risolutamente, più energicamente e con uno spirito più offensivo; bisognava spiegare alle masse l'impossibilità di limitarsi a uno sciopero pacifico e la necessità di una lotta armata, intrepida e implacabile. (Lenin, «Opere», vol. X, pag. 50 ed. russa).
 
L'insurrezione del dicembre 1905 segnò il punto culminante della rivoluzione: l'autocrazia zarista aveva trionfato. In seguito alla sconfitta si operò una svolta: la rivoluzione incominciò a poco a poco a ripiegare. Il flusso della rivoluzione veniva trasformandosi in un progressivo riflusso.
Il governo dello zar si affrettò ad approfittare di questa disfatta per dare il colpo di grazia alla rivoluzione. I carnefici e i carcerieri zaristi consumarono la loro sanguinosa bisogna. Le spedizioni punitive in Polonia, Lettonia, Estonia, Transcaucasia, Siberia si scatenarono in pieno.
Ma la rivoluzione non era ancora schiacciata. Gli operai e i contadini rivoluzionari ripiegavano lentamente, ripiegavano combattendo. Entravano in lotta nuovi strati operai. Nel 1906, agli scioperi parteciparono oltre un milione di operai, nel 1907 vi parteciparono 740 mila operai. Il movimento contadino, nel primo semestre del 1906. si estese a quasi la metà dei distretti della Russia zarista; nel secondo semestre, a un quinto di tutti i distretti. Continuarono le agitazioni nell'esercito e nella flotta.
Il governo dello zar non si limitò a lottare contro la rivoluzione soltanto con misure repressive. Dopo aver ottenuto con questi mezzi un primo successo, decise di assestare un altro colpo alla rivoluzione, convocando una nuova Duma, la Duma «legislativa». Sperava così di staccare i contadini dalla rivoluzione per schiacciarla completamente. Nel dicembre del 1905, promulgò la legge per la convocazione della nuova Duma cosiddetta legislativa a differenza della vecchia Duma «consultiva» di Bolyghin, che era stata spazzata via dal boicottaggio bolscevico. La legge elettorale zarista era, s'intende, antidemocratica. Le elezioni non si svolgevano a suffragio universale. Oltre la metà della popolazione era puramente e semplicemente priva del diritto di voto: per esempio le donne e più di due milioni di operai. Il voto di ogni cittadino non aveva uguale valore. Gli elettori erano divisi, come si diceva allora, in quattro curie: la curia della proprietà terriera (proprietari fondiari), la curia della città (borghesia), la curia contadina e la curia operaia. Le elezioni non erano dirette, ma a più gradi. Lo scrutinio, in realtà, non era segreto. Nella Duma, la legge elettorale assicurava a un pugno di proprietari fondiari e di capitalisti una prevalenza enorme su milioni di operai e di contadini.
Lo zar voleva, a mezzo della Duma, distogliere le masse dalla rivoluzione. Molti contadini in quel tempo credevano possibile ottenere la terra dalla Duma. Cadetti, menscevichi e socialisti-rivoluzionari ingannavano gli operai e i contadini, dicendo che si poteva, senza insurrezione e senza rivoluzione, realizzare il regime voluto dal popolo. Per impedire che il popolo fosse in tal modo ingannato, i bolscevichi proclamarono e attuarono il boicottaggio della I Duma di Stato, secondo la decisione presa dalla Conferenza di Tammerfors.
Mentre lottavano contro lo zarismo, gli operai esigevano in pari tempo che fosse attuata l'unità delle forze del partito, che il partito del proletariato fosse unificato. Forti della decisione, già da noi ricordata, della Conferenza di Tammerfors sull'unità, i bolscevichi appoggiarono questa rivendicazione degli operai e proposero ai menscevichi di convocare un congresso d'unificazione del partito. E, sotto la spinta delle masse operaie, i menscevichi dovettero accettare l'unificazione.
Lenin era per l'unificazione, ma voleva una unificazione che non nascondesse le divergenze sui problemi della rivoluzione. I conciliatori (Bogdanov, Krassin e altri), i quali si sforzavano di dimostrare che non esistevano seri contrasti tra bolscevichi e menscevichi, erano stati di gran danno al partito. Lottando contro i conciliatori, Lenin esigeva dai bolscevichi che si presentassero al congresso con una propria piattaforma, affinché gli operai potessero vedere in modo chiaro su quali posizioni si trovassero i bolscevichi e su quale base avvenisse l'unificazione. I bolscevichi elaborarono la loro piattaforma e la misero in discussione fra gli iscritti al partito.
Così, nell'aprile del 1906, si tenne a Stoccolma il IV Congresso del P.O.S.D.R., detto congresso d'unità, a cui partecipavano 111 delegati con voto deliberativo, rappresentanti 57 organizzazioni locali del partito, e i delegati dei partiti socialdemocratici nazionali: 3 del Bund , 3 del partito socialdemocratico polacco e 3 dell'organizzazione socialdemocratica di Lettonia.
In seguito alle repressioni subìte durante e dopo l'insurrezione di dicembre, non tutte le organizzazioni bolsceviche avevano potuto inviare i loro delegati. Inoltre, i menscevichi, nei «giorni della libertà» del 1905, avevano accolto nelle loro file una massa di intellettuali piccolo-borghesi che non avevano nulla a che fare col marxismo rivoluzionario. Basti dire che i menscevichi di Tiflis (e a Tiflis non vi erano molti operai industriali) avevano inviato al congresso tanti delegati quanti ne aveva inviati la massima organizzazione proletaria, ch'era quella di Pietroburgo. Così, i menscevichi al congresso ebbero una maggioranza, per quanto insignificante.
Questa composizione del congresso determinò il carattere menscevico delle decisioni prese su un'intera serie di questioni.
In quel congresso, l'unità si realizzò solo formalmente . In realtà, bolscevichi e menscevichi conservavano le loro concezioni rispettive e le loro proprie organizzazioni.
Le questioni principali, esaminate dal IV Congresso, furono le seguenti: questione agraria, situazione in corso e obiettivi di classe del proletariato, atteggiamento da assumersi di fronte alla Duma di Stato, questioni organizzative.
Quantunque fossero in maggioranza, i menscevichi, affinché gli operai non si allontanassero da loro, dovettero accettare la formula proposta da Lenin per l'articolo primo dello statuto, sulla qualità di membro del partito.
Sulla questione agraria, Lenin sostenne la nazionalizzazione della terra. Egli pensava che la nazionalizzazione della terra era possibile soltanto con la vittoria della rivoluzione e soltanto dopo il rovesciamento dello zarismo. La nazionalizzazione della terra, in questo caso avrebbe agevolato alla classe operaia, alleata ai contadini poveri, il passaggio alla rivoluzione socialista. La nazionalizzazione della terra implicava la confisca, senza indennità, delle terre dei proprietari fondiari, a favore dei contadini. Il programma agrario bolscevico chiamava i contadini alla rivoluzione contro lo zar e i proprietari fondiari.
Ben altre erano le posizioni dei menscevichi. Essi sostenevano un programma di municipalizzazione . Secondo il loro programma, le terre dei proprietari fondiari non erano poste a disposizione, e nemmeno concesse in godimento delle comunità contadine, ma erano poste a disposizione dei municipi (ossia delle amministrazioni autonome locali o zemstvo ) e i contadini dovevano pretendere in affitto quelle terre, ognuno secondo le proprie disponibilità.
Il programma menscevico di municipalizzazione era un programma di conciliazione ed era, perciò, un programma dannoso alla rivoluzione. Non poteva mobilitare i contadini per la lotta rivoluzionaria; non mirava alla soppressione completa della proprietà dei signori della terra. Il programma menscevico aveva come prospettiva un esito bastardo della rivoluzione. I menscevichi non volevano spingere i contadini alla rivoluzione.
Il congresso accettò a maggioranza il programma menscevico.
I menscevichi rivelarono la loro sostanza antiproletaria, opportunistica, soprattutto nei dibattiti suscitati dalla risoluzione sulla situazione in corso e sulla Duma di Stato. Il menscevico Martynov insorse apertamente contro l'egemonia del proletariato nella rivoluzione. Rispondendo ai menscevichi, il compagno Stalin pose la questione in modo nettissimo:
 
O l'egemonia del proletariato, o l'egemonia della borghesia democratica - ecco come si pone la questione nel partito, ecco la sostanza delle nostre divergenze.
 
In quanto alla Duma, i menscevichi la esaltavano, nella loro rivoluzione, come il mezzo migliore per risolvere i problemi della rivoluzione, per liberare il popolo dallo zarismo. Per i bolscevichi, invece, la Duma non era che un'appendice impotente dello zarismo, un paravento per nascondere le piaghe dello zarismo, che lo zarismo stesso avrebbe gettato via, non appena gli fosse divenuto incomodo.
Il Comitato Centrale eletto al IV Congresso comprendeva 3 bolscevichi e 6 menscevichi. E soltanto i menscevichi entrarono nella redazione dell'organo centrale.
Era chiaro che la lotta nel seno del partito sarebbe continuata.
E infatti la lotta tra bolscevichi e menscevichi, dopo il IV Congresso, raddoppiò di vigore. Sovente, nelle organizzazioni locali, ufficialmente unificate, parlavano sulla relazione congressuale due relatori: l'uno per i bolscevichi e l'altro per i menscevichi. Dopo la discussione sulle due diverse linee politiche, la maggioranza degli iscritti alle organizzazioni si schierava, il più sovente, dalla parte dei bolscevichi.
La vita dimostrava sempre più che i bolscevichi avevano ragione. Il Comitato Centrale menscevico, eletto al IV Congresso, rivelò sempre più il proprio opportunismo, la sua completa incapacità nel dirigere la lotta rivoluzionaria delle masse. Nell'estate e nell'autunno del 1906, la lotta rivoluzionaria delle masse ridiventò intensa. A Kronstadt e a Sveaborg, i marinai insorsero. La lotta dei contadini contro i proprietari fondiari divampò. Ma il Comitato Centrale menscevico lanciava delle parole d'ordine opportunistiche che non erano seguite dalle masse!
 


6. Scioglimento della I Duma di Stato. Convocazione della II Duma di Stato. Il V Congresso del partito. Scioglimento della II Duma. Cause della sconfitta della prima rivoluzione russa.
Poiché la I Duma di Stato non si era mostrata abbastanza docile, il governo dello zar nell'estate del 1906 ne decise lo scioglimento. Esso aggravò ancora la repressione contro il popolo, scatenò in tutto il paese le spedizioni punitive e proclamò la sua decisione di convocare a breve scadenza una II Duma di Stato. Il governo dello zar perdeva evidentemente l'ultimo senso di pudore e non temeva più la rivoluzione che vedeva declinare.
I bolscevichi dovettero risolvere il quesito se partecipare alla II Duma o boicottarla. Parlando di boicottaggio, i bolscevichi intendevano di consueto il boicottaggio attivo e non una semplice astensione passiva dalle elezioni. Essi consideravano il boicottaggio attivo come un mezzo rivoluzionario per mettere in guardia il popolo contro i tentativi zaristi di farlo passare dalla via rivoluzionaria sulla via della «costituzione» zarista, come un mezzo per far fallire questo tentativo e preparare un nuovo assalto del popolo allo zarismo.
L'esperienza del boicottaggio della Duma di Bulyghin aveva dimostrato che il boicottaggio «era l'unica tattica giusta, confermata pienamente dagli avvenimenti». (Lenin, «Opere», vol. X, pag. 27 ed. russa). Il boicottaggio era riuscito, non soltanto perché aveva messo in guardia il popolo contro il pericolo rappresentato dalla via della «costituzione zarista», ma perché aveva fatto fallire la Duma prima ancora che fosse sorta. Era riuscito perché era stato applicato, non già in periodo di declino, bensì in un periodo di ascesa continua della rivoluzione e si era basato su questa ascesa. Soltanto, infatti, in un periodo di ascesa rivoluzionaria si poteva far fallire la Duma.
Il boicottaggio della Duma di Witte, cioè della I Duma, era stato attuato dopo la sconfitta dell'insurrezione di dicembre, che lo zar aveva soffocata, ossia quando si poteva pensare che la rivoluzione stesse declinando.
 
Ma è chiaro - scriveva Lenin - che non vi erano ancora ragioni sufficienti per considerare quella vittoria dello zar - come una vittoria decisiva. L'insurrezione di dicembre del 1905 aveva avuto come suo prolungamento tutta la serie delle rivolte militari e degli scioperi, isolati e parziali, dell'estate 1906. La parola d'ordine del boicottaggio della Duma di Witte era stata la parola d'ordine della lotta per la concentrazione e la generalizzazione di quei sollevamenti. (Lenin, «Opere», vol. XII, pag. 20 ed. russa).
 
Il boicottaggio non aveva potuto far fallire la Duma, pur indebolendone in modo notevole l'autorità e diminuendo la fiducia che una parte della popolazione riponeva in essa; non aveva potuto farlo perché attuato, come era apparso evidente in seguito, in un periodo di riflusso, di declino della rivoluzione. Ecco perché il boicottaggio della I Duma, nel 1906, non riuscì. Su questo tema, nel suo celebre libro «L'estremismo, malattia infantile del comunismo», Lenin scrisse:
 
Il boicottaggio bolscevico del «Parlamento» nel 1905 arricchì il proletariato rivoluzionario di un'esperienza politica straordinariamente preziosa, mostrando che, nell'usare simultaneamente le forme di lotta legali ed illegali, parlamentari ed extraparlamentari, è talora utile, e persino necessario, saper rinunziare a quelle parlamentari... Un errore, per quanto piccolo e facile a correggersi, fu già il boicottaggio della Duma da parte dei bolscevichi nel 1906... Si può applicare alla politica e ai partiti, a parità di ogni altra condizione, ciò che vale per le singole persone. Saggio non è colui che non fa errori: di tali uomini non ce ne sono e non ce ne possono essere. Saggio è colui che commette degli errori non troppo sostanziali e sa correggerli rapidamente e facilmente. (Lenin, «Opere scelte», vol. X, pag. 91, Cooperativa Editrice dei Lavoratori Esteri nell' URSS, ed. italiana).
 
Circa la II Duma di Stato, Lenin considerò che, in seguito al mutamento della situzione e al declino della rivoluzione, i bolscevichi «dovevano riesaminare la questione del boicottaggio della Duma dello Stato». (Lenin, «Opere», vol. X, pag. 26 ed. russa).
 
La storia ha dimostrato - scriveva Lenin - che quando la Duma è convocata, un'agitazione utile nel suo interno e attorno ad essa è possibile; che la tattica di avvicinamento con i contadini rivoluzionari contro i cadetti è possibile in seno alla Duma. (Ibidem , pag. 29).
 
Tutto ciò dimostrava che bisogna sapere, non soltanto andare all'attacco con risolutezza, andare all'attacco nelle prime file, quando la rivoluzione è in ascesa, ma anche ritirarsi in ordine, ritirarsi per ultimi, quando l'ascesa è finita, cambiando la tattica secondo la situazione mutata, ritirarsi non in disordine, ma in modo organizzato, con calma, senza panico, utilizzando le minime possibilità per sottrarre i quadri ai colpi del nemico, riorganizzarsi, raccogliere forze e prepararsi a una nuova offensiva contro il nemico.
I bolscevichi decisero di partecipare alle elezioni della Il Duma.
Ma essi andavano alla Duma, non già per svolgervi un'attività «legislativa» organica, in blocco con i cadetti, come avevano fatto i menscevichi, ma per servirsi della Duma come di una tribuna nell'interesse della rivoluzione.
Il Comitato Centrale menscevico, invece, invitò a concludere degli accordi elettorali con i cadetti e ad appoggiarli nella Duma che considerava come un organo legislativo capace di mettere a posto il governo dello zar.
La maggioranza delle organizzazioni del partito insorse contro la politica del Comitato Centrale menscevico.
I bolscevichi reclamarono la convocazione di un nuovo congresso del partito.
Nel maggio del 1907 si riunì a Londra il V Congresso del partito. Il P.O.S.D.R. contava in quel momento (con le organizzazioni socialdemocratiche nazionali) circa 150 mila membri. In complesso, assistevano al congresso 336 delegati. I bolscevichi erano 105; 97 i menscevichi. Gli altri delegati rappresentavano le organizzazioni socialdemocratiche nazionali, quella dei socialdemocratici polacchi e lettoni e il Bund , che erano stati ammessi nel P.O.S.D.R. durante il congresso precedente.
Trotzki tentò di costituire al congresso un suo gruppetto centrista, cioè semimenscevico, ma nessuno volle seguirlo.
I bolscevichi, che erano appoggiati dai polacchi e dai lettoni, ottennero una stabile maggioranza al congresso.
Una delle principali questioni dibattute fu l'atteggiamento da assumere verso i partiti borghesi. Il problema era già stato al II Congresso motivo di lotta tra bolscevichi e menscevichi. Il V Congresso diede un apprezzamento bolscevico di tutti i partiti non proletari - Cento-neri, ottobristi, cadetti, socialisti-rivoluzionari - e stabilì una tattica bolscevica nei loro riguardi.
Il congresso approvò la politica dei bolscevichi e decise di lottare a fondo, sia contro i partiti dei Cento-neri («Unione del popolo russo», monarchici, Consiglio della nobiltà unificata); sia contro l'«Unione del 17 ottobre» (ottobristi), il partito industriale e commerciale e il partito del «rinnovamento pacifico»: tutti partiti apertamente controrivoluzionari.
Circa la borghesia liberale, cioè il partito dei cadetti, il congresso decise di lottare senza tregua per smascherarlo. Il congresso decise di denunciare il «democratismo» ipocrita e menzognero del partito dei cadetti e di lottare contro i tentativi della borghesia liberale di mettersi a capo del movimento contadino.
Quanto ai partiti cosiddetti populisti o del lavoro (socialisti popolari, Gruppo del lavoro, socialisti-rivoluzionari), il congresso raccomandò di denunciare i loro tentativi di camuffarsi da socialisti. Tuttavia, ammetteva certi accordi, su singole questioni, con questi partiti per la preparazione di un assalto comune e simultaneo contro lo zarismo e contro la borghesia cadetta, dato che questi partiti erano allora partiti democratici ed esprimevano gli interessi della piccola borghesia urbana e rurale.
Già prima del congresso, i menscevichi avevano proposto di convocare un cosiddetto «congresso operaio», a cui avrebbero dovuto partecipare socialdemocratici, socialisti-rivoluzionari e anarchici. Questo congresso «operaio» doveva creare qualcosa come un «partito senza partito», oppure un «largo» partito operaio piccolo-borghese senza programma. Lenin denunciò questo perniciosissimo tentativo menscevico di liquidare il partito operaio socialdemocratico e di dissolvere il reparto d'avanguardia della classe operaia nella massa piccolo-borghese. Il congresso condannò recisamente la parola d'ordine menscevica del «congresso operaio».
La questione sindacale prese un posto particolare nei lavori congressuali. I menscevichi sostenevano la «neutralità» dei sindacati, vale a dire si dichiaravano contro la funzione dirigente del partito nei sindacati. Il congresso respinse la proposta menscevica ed approvò la risoluzione bolscevica sui sindacati, secondo la quale il partito doveva conquistare la direzione ideologica e politica dei sindacati.
Il V Congresso significò una grande vittoria dei bolscevichi nel movimento operaio, ma essi non se ne insuperbirono, né dormirono sugli allori. Non era questo che Lenin aveva loro insegnato. I bolscevichi sapevano che dovevano ancora lottare contro i menscevichi.
Il compagno Stalin, nel suo articolo «Note di un delegato», apparso nel 1907, diede il seguente apprezzamento sui risultati del congresso:
 
L'unificazione effettiva degli operai d'avanguardia di tutta la Russia in un unico partito sotto la bandiera della socialdemocrazia rivoluzionaria ; questo è il significato del Congresso di Londra questo ne è il carattere generale.
 
Il compagno Stalin citava alcuni dati sulla composizione del congresso. Egli constatava che i delegati bolscevichi erano stati inviati al congresso soprattutto dalle grandi regioni industriali (Pietroburgo, Mosca, Urali, Ivanovo-Voznessensk e altre), mentre i menscevichi erano stati delegati dalle regioni della piccola produzione dove predominavano gli artigiani, i semiproletari, e anche da una serie di regioni prettamente contadine.
 
È evidente - concludeva il compagno Stalin facendo il bilancio del congresso - che la tattica dei bolscevichi è la tattica dei proletari della grande industria, la tattica di quelle regioni dove le contraddizioni di classe sono particolarmente evidenti e la lotta di classe particolarmente acuta. Il bolscevismo è la tattica dei veri proletari. D'altra parte, non è meno evidente che la tattica dei menscevichi è soprattutto la tattica degli artigiani e dei semi-proletari contadini, la tattica di quelle regioni dove le contraddizioni di classe non sono completamente evidenti e la lotta di classe è velata. Il menscevismo è la tattica degli elementi semi-borghesi del proletariato. È questo che attestano le cifre. («Resoconto del V Congresso del P.O S.D.R.», pagg. XI e XII ed. russa, 1935).
 
Sciogliendo la I Duma, lo zar voleva averne una seconda più docile. Ma neanche la II Duma corrispose alle sue aspettative. Lo zar decise allora di scioglierla a sua volta e di convocarne una terza mediante una legge elettorale ancora più reazionaria, e nella speranza che questa Duma sarebbe stata finalmente più docile.
A breve distanza dal V Congresso, il governo dello zar operò il cosiddetto colpo di Stato del 3 giugno. Infatti, il 3 giugno 1907, lo zar proclamò lo scioglimento della II Duma di Stato. Il gruppo socialdemocratico alla Duma, composto di 65 deputati, fu arrestato e deportato in Siberia. Fu promulgata una nuova legge elettorale che restringeva ancor più i diritti degli operai e dei contadini. Il governo dello zar continuava la sua offensiva.
Il ministro zarista Stolypin scatenò una reazione sanguinosa contro gli operai e i contadini. Migliaia di operai e di contadini rivoluzionari furono fucilati o impiccati durante le spedizioni punitive. Nelle galere dello zar, i rivoluzionari erano seviziati e torturati. Soprattutto feroci furono le persecuzioni contro le organizzazioni operaie e, in primo luogo, contro i bolscevichi. I sicari della polizia zarista ricercavano Lenin che viveva illegalmente in Finlandia, volevano sopprimere il capo della rivoluzione. Ma, esponendosi a mille pericoli, Lenin riuscì, nel dicembre 1907, a ripassare la frontiera e tornare nell'emigrazione.
E si ebbero gli anni tenebrosi della reazione di Stolypin.
La prima rivoluzione russa si era conclusa con la sconfitta.
Quali cause vi avevano contribuito?
1. Nella rivoluzione, non vi era ancora tra gli operai ed i contadini una salda alleanza contro lo zarismo. I contadini erano entrati in lotta contro i proprietari fondiari ed accettavano l'alleanza con gli operai in questa lotta, ma non comprendevano ancora che, senza il rovesciamento dello zar, non era possibile vincere i proprietari fondiari; non comprendevano che lo zar faceva causa comune coi proprietari fondiari. In parte considerevole, i contadini avevano ancora fiducia nello zar e fondavano le loro speranze sulla Duma zarista. Perciò, molti contadini non volevano un'alleanza con gli operai che si proponesse il rovesciamento dello zarismo. I contadini prestavano fede più al partito conciliatore dei socialisti-rivoluzionari che ai veri rivoluzionari, i bolscevichi. Ne risultava che la lotta dei contadini contro i proprietari fondiari non era sufficientemente organizzata. Lenin lo mise in rilievo:
 
… i contadini agivano in modo troppo disperso, non organizzato; la loro offensiva non si spingeva a sufficienza in avanti; e questa fu una delle cause essenziali della sconfitta della rivoluzione. (Lenin, «Opere», vol. XIX, pag. 854, ed. russa).
 
2. La riluttanza di una parte notevole dei contadini a marciare con gli operai per rovesciare lo zarismo si ripercuoteva anche nell'atteggiamento dell'esercito, la cui maggioranza era composta di figli di contadini, sotto la casacca del soldato. In alcune unità dell'esercito zarista, erano scoppiati movimenti e insurrezioni, ma la maggioranza dei soldati aiutava ancora lo zar a soffocare gli scioperi e le insurrezioni operaie.
3. Gli operai, essi pure, non agivano con sufficiente coesione. I distaccamenti d'avanguardia della classe operaia avevano affrontato nel 1905 una lotta rivoluzionaria eroica. Gli strati più arretrati - i salariati delle provincie meno industriali, i salariati delle campagne - furono più lenti a mettersi in movimento. La loro partecipazione alla lotta rivoluzionaria si sviluppò soprattutto nel 1906, ma in quel tempo l'avanguardia della classe operaia si era già sensibilmente indebolita.
4. La classe operaia era la forza d'avanguardia, la forza essenziale della rivoluzione, ma il P.O.S.D.R., il partito della classe operaia non era unito e compatto come sarebbe stato necessario. Il P.O.S.D.R. era diviso in due gruppi: i bolscevichi e i menscevichi. I bolscevichi seguivano una linea rivoluzionaria conseguente e chiamavano gli operai a rovesciare lo zarismo. I menscevichi, con la loro tattica di conciliazione, frenavano la rivoluzione, seminavano la confusione nello spirito di molti operai, dividevano la classe operaia. Ecco perché l'azione degli operai nella rivoluzione non fu sempre coerente e la classe operaia, che mancava ancora di unità nelle sue proprie file, non era potuta diventare il vero capo della rivoluzione.
5. L'autocrazia dello zar fu aiutata dagli imperialisti dell'Europa occidentale a reprimere la rivoluzione del 1905. I capitalisti stranieri temevano per i loro capitali investiti in Russia e per i loro enormi profitti. Inoltre, essi temevano che, nel caso di una vittoria della rivoluzione russa, anche gli operai degli altri paesi si sollevassero. Ecco perché gli imperialisti dell'Europa occidentale aiutarono lo zar-carnefice. I banchieri francesi gli concessero un grosso prestito destinato a soffocare la rivoluzione. Il kaiser teneva mobilitato un esercito di migliaia e migliaia di uomini pronto ad intervenire in aiuto dello zar.
6. La pace firmata col Giappone nel settembre 1905 fu di grande aiuto allo zar. La sconfitta militare e l'ascesa minacciosa della rivoluzione lo avevano spinto ad affrettare la conclusione della pace. La disfatta aveva indebolito lo zarismo; la conclusione della pace rafforzò la situazione dello zar.
 


Conclusioni riassuntive
La prima rivoluzione russa segna tutto un periodo storico nello sviluppo del nostro paese. Questo periodo storico è composto di due fasi: la prima, quando la rivoluzione, approfittando della debolezza dello zar, disfatto sui campi della Manciuria, spazzando via la Duma di Bulyghin e strappando allo zar una concessione dopo l'altra, sale dallo sciopero generale politico dell'ottobre all'insurrezione armata di dicembre; la seconda fase, quando lo zar, ristabilita la sua situazione dopo la conclusione della pace col Giappone, approfitta della paura della borghesia liberale di fronte alla rivoluzione, sfrutta le oscillazioni dei contadini, getta loro come in elemosina la Duma di Witte e sferra l'offensiva contro la classe operaia, contro la rivoluzione.
In soli tre anni di rivoluzione (1905-1907), la classe operaia e i contadini acquistano una ricca educazione politica che non avrebbe potuto dare loro 30 anni di sviluppo pacifico ordinario. Pochi anni di rivoluzione avevano reso evidente ciò che decine di anni di sviluppo pacifico non avrebbero potuto rendere evidente.
La rivoluzione mostrò che lo zarismo era il nemico giurato del popolo, che lo zarismo era, come si dice, quel gobbo che solo la tomba può raddrizzare.
La rivoluzione mostrò che la borghesia liberale voleva allearsi non con il popolo, ma con lo zar, che essa era una forza controrivoluzionaria e intendersi con essa voleva dire tradire il popolo.
La rivoluzione mostrò che soltanto la classe operaia può essere il capo della rivoluzione democratico-borghese, che essa sola è capace di isolare la borghesia liberale cadetta, di strappare i contadini alla sua influenza, di annientare i proprietari fondiari e di condurre la rivoluzione fino in fondo, aprendo il cammino al socialismo.
La rivoluzione mostrò infine che i contadini lavoratori, nonostante le loro oscillazioni, sono, tuttavia, l'unica forza seria, capace di allearsi con la classe operaia.
Durante la rivoluzione, due linee si affrontarono nel P.O.S.D.R., quella dei bolscevichi e quella dei menscevichi. I bolscevichi miravano a sviluppare la rivoluzione, a rovesciare lo zarismo con l'insurrezione armata, a realizzare l'egemonia della classe operaia, a isolare la borghesia cadetta, a stabilire l'alleanza con i contadini, a creare un governo rivoluzionario provvisorio composto dei rappresentanti degli operai e dei contadini, a condurre la rivoluzione fino alla vittoria finale. I menscevichi, all'opposto, miravano a contenere la rivoluzione. Invece di rovesciare lo zarismo con l'insurrezione, proponevano di riformarlo e di «migliorarlo»; invece dell'egemonia del proletariato, l'egemonia della borghesia liberale; invece dell'alleanza con i contadini, l'alleanza con la borghesia cadetta; invece del governo rivoluzionario provvisorio, la Duma di Stato, come centro delle «forze rivoluzionarie» del paese.
Così i menscevichi sono rotolati nel pantano della conciliazione e sono divenuti i portavoce dell'influenza borghese nella classe operaia, sono divenuti, di fatto, gli agenti della borghesia tra la classe operaia.
I bolscevichi vennero a costituire l'unica forza marxista rivoluzionaria, nel partito e nel paese.
Si capisce che, dopo sì gravi divergenze, il P.O.S.D.R. si sia trovato in pratica diviso in due partiti, il partito bolscevico e il partito menscevico. Il IV Congresso del partito non cambiò minimamente la situazione di fatto che regnava in seno al partito. Non poté che conservare e consolidare un poco l'unità formale del partito. Il V Congresso fece un passo in avanti verso l'unificazione effettiva del partito, che fu realizzata sotto la bandiera del bolscevismo.
Stabilendo il bilancio del movimento rivoluzionario, il V Congresso del partito condannò la linea menscevica come una linea di conciliazione ed approvò la linea bolscevica, come la linea marxista rivoluzionaria. Così facendo, confermava ancora una volta ciò che era già stato confermato nel corso della prima rivoluzione russa.
La rivoluzione mostrò che i bolscevichi sanno attaccare quando la situazione lo esige, che essi hanno imparato a marciare nelle prime file ed a condurre il popolo all'assalto. Ma la rivoluzione mostrò inoltre che i bolscevichi sanno pure ritirarsi in buon ordine, quando la situazione diventa sfavorevole, quando la rivoluzione declina; che i bolscevichi hanno imparato a ritirarsi ordinatamente, senza panico e senza precipitazione, per conservare i quadri, raccogliere le forze e, dopo aver ricostituito le file, tenendo conto della nuova situazione, riprendere l'offensiva.
Non si può vincere il nemico senza saper bene condurre l'offensiva.
Non si può sfuggire allo sfacelo, in caso di disfatta, se non si sa ripiegare in ordine, senza panico, senza confusione.
 
IV.
Menscevichi e bolscevichi durante il periodo della reazione di Stolypin. I bolscevichi si costituiscono in un partito marxista indipendente
(1908-1912)
 


1. La reazione di Stolypin. Decomposizione nei ceti intellettuali di opposizione. Abbattimento morale. Passaggio di una parte degli intellettuali aderenti al partito nel campo dei nemici del marxismo e tentativi di revisione della teoria marxista. Lenin batte in breccia i revisionisti nel suo libro «Materialismo e empiriocriticismo». Difesa dei princìpi teorici del partito marxista.
La Il Duma fu sciolta dal governo dello zar il 3 giugno 1907, che, nella storia, passò come il giorno del colpo di Stato del 3 giugno. Il governo zarista promulgò una nuova legge elettorale per la III Duma, violando così il suo stesso manifesto del 17 ottobre 1905, nel quale proclamava che solo col consenso della Duma avrebbe promulgato nuove leggi. Il gruppo socialdemocratico della Il Duma fu deferito al tribunale; i rappresentanti della classe operaia furono deportati o condannati ai lavori forzati.
Grazie ai dispositivi della nuova legge elettorale, il numero dei rappresentanti dei proprietari fondiari e della borghesia industriale e commerciale aumentava considerevolmente, mentre il numero dei rappresentanti dei contadini e degli operai, già così esiguo, era ridotto al minimo.
E nel modo ch'era composta, la III Duma fu una Duma di Cento-neri e di cadetti. Dei 442 deputati che ne fecero parte, 171 appartenevano alla destra (Cento-neri); 113 erano ottobristi e membri dei gruppi affini; 101 cadetti e membri di gruppi simpatizzanti; 13 trudovikì [gruppo piccolo-borghese costituito nel 1906 alla I Duma di Stato, composto di una parte dei deputati contadini e diretto da intellettuali socialisti-rivoluzionari]; 18 socialdemocratici.
Gli uomini della destra (così chiamati perché sedevano nel settore di destra dell'Assemblea), erano i rappresentanti dei peggiori nemici degli operai e dei contadini: erano i proprietari fondiari ultrareazionari feudali, che avevano fatto frustare e fucilare a migliaia i contadini, durante la repressione dei movimenti nelle campagne, che avevano scatenato i pogrom contro gli ebrei, gli eccidi di operai dimostranti, i barbari incendi dei locali dove si svolgevano i comizi nelle giornate della rivoluzione. Gli uomini della destra volevano la più feroce repressione contro i lavoratori, erano fautori di un illimitato potere dello zar e avversi al manifesto zarista del 17 ottobre 1905.
Il partito degli ottobristi, ossia l'«Unione del 17 ottobre», era vicino ai destri. Gli ottobristi esprimevano gli interessi del grande capitale industriale e di quei grandi proprietari terrieri che dirigevano le loro aziende con metodi capitalistici (all'inizio della rivoluzione del 1905 molti cadetti, grandi proprietari fondiari, erano passati al partito degli ottobristi). Questo partito differiva dai destri soltanto perché accettava - del resto, a parole - il manifesto del 17 ottobre. Gli ottobristi appoggiavano del tutto la politica interna ed estera del governo zarista.
I cadetti, o partito «costituzionale-democratico», disponevano nella III Duma di un numero inferiore di seggi che nella I e nella II, avendo i grandi proprietari fondiari trasferito, in parte, i propri voti dai cadetti agli ottobristi.
Nella III Duma, v'era anche un piccolo gruppo di democratici piccolo-borghesi, i trudovikì , che oscillavano tra i cadetti e la democrazia operaia (i bolscevichi). Lenin rilevava che i trudovikì , sebbene estremamente deboli alla Duma, rappresentavano le masse , le. masse contadine. Le oscillazioni dei trudovikì tra i cadetti e la democrazia operaia erano il risultato inevitabile della situazione di classe dei piccoli proprietari. Ai deputati bolscevichi, alla democrazia operaia, Lenin assegnava il compito di «accorrere in aiuto dei deboli democratici piccolo-borghesi, di strapparli all'influenza dei liberali e di formare un campo democratico contro i cadetti controrivoluzionari, e non solo contro i destri....». (Lenin, «Opere», vol. XV, pag. 486, ed. russa).
Nel corso della rivoluzione del 1905, e soprattutto dopo la sua sconfitta, i cadetti si rivelarono sempre più una forza controrivoluzionaria. Essi strappavano dal loro volto, risolutamente, la maschera «democratica» ed agivano da veri monarchici, difensori dello zarismo. Nel 1909, un gruppo di scrittori cadetti fra i più noti pubblicò la raccolta: Vekhi («Pietre miliari») in cui, a nome della borghesia, si ringraziava lo zarismo per aver schiacciato la rivoluzione. Servilmente proni di fronte al governo dello khnut e della forca, i cadetti scrivevano in modo aperto: è necessario «benedire questo potere che, da solo, con le sue baionette e le sue prigioni, ci difende ancora dal furore popolare». (Il «ci», voleva dire la borghesia liberale).
Sciolta la II Duma, colpito il gruppo socialdemocratico della Duma, il governo dello zar si accinse con accanimento a distruggere le organizzazioni politiche ed economiche del proletariato. Le galere, le fortezze e i luoghi di deportazione rigurgitavano di rivoluzionari, selvaggiamente percossi, torturati e suppliziati. Il terrore dei Cento-neri infuriava senza freni. Il ministro zarista Stolypin coprì il paese di forche e i rivoluzionari furono impiccati a migliaia. Il nodo scorsoio era chiamato in quei tempi «la cravatta di Stolypin».
Ma pur soffocando il movimento rivoluzionario operaio e contadino, il governo non poté limitarsi alle repressioni, alle spedizioni punitive, alle fucilazioni, alle prigioni, alle galere. E non senza una certa ansia vedeva dileguarsi sempre più l'ingenua fiducia dei contadini nello «zar piccolo padre». Perciò ricorse a una manovra in grande: garantirsi un solido sostegno nelle campagne, rafforzandovi la classe della borghesia rurale, la classe dei kulak.
Il 9 (22) novembre 1906, Stolypin promulgò una nuova legge agraria che autorizzava i contadini ad uscire dalle comunità ed a formare dei khutor (poderi separati). La legge agraria di StoIypin distruggeva la proprietà comune della terra. Ogni contadino era invitato ad uscire dalla comunità e a pretendere in proprietà personale l'appezzamento concessogli. Il contadino poteva ora venderlo, mentre prima non ne aveva diritto. Ai contadini che ne uscivano, la comunità era obbligata a dare la terra in un solo appezzamento (khutor, otrub ).
Ai contadini ricchi, ai kulak, divenne così possibile di accaparrarsi a buon mercato la terra dei piccoli contadini. Nel volgere di pochi anni, più di un milione di contadini rimasero completamente senza terra, rovinati. Le loro terre alienate servivano a potenziare i poderi dei kulak, i quali erano talvolta delle vere tenute che impiegavano largamente il lavoro salariato. Il governo obbligava i contadini a cedere ai kulak padroni di poderi le migliori terre delle comunità.
Mentre, al tempo dell'«emancipazione» dei contadini, i proprietari fondiari avevano rubato le terre dei contadini, ora i kulak, a loro volta, rubavano quelle delle comunità facendosi assegnare le terre migliori, accaparrandosi a prezzi irrisori quelle dei contadini poveri.
Il governo dello zar concedeva ai kulak dei prestiti considerevoli perché potessero comprare le terre e formarsi un podere. Stolypin voleva trasformare costoro in tanti piccoli agrari, fedeli difensori dell'autocrazia zarista.
In nove anni (dal 1906 al 1915), oltre due milioni di famiglie contadine si staccarono dalle comunità.
La politica di Stolypin peggiorò ulteriormente le condizioni dei piccoli contadini e dei contadini poveri. La differenziazione tra i contadini si accentuò e incominciarono i conflitti tra i contadini e i kulak in possesso dei poderi.
I contadini cominciavano a comprendere che non avrebbero mai ottenuto la terra dei grandi proprietari fino a che fossero esistiti il governo dello zar e la Duma dei proprietari fondiari e dei cadetti.
Negli anni in cui più largamente si sostituiscono i poderi dei kulak (1907-1909), il movimento contadino, in un primo tempo, decresce; ma, in seguito, nel 1910-11 e più tardi, sulla base dei conflitti tra i contadini delle comunità e i kulak padroni di poderi, la lotta contro i grandi proprietari fondiari e i kulak acquista di intensità e vigore.
Dopo la rivoluzione, anche nell'industria avvennero considerevoli modificazioni. La concentrazione industriale, ossia l'ingrandimento delle aziende e la loro concentrazione nelle mani di gruppi capitalistici sempre più potenti, era in notevolissimo aumento. Già prima della rivoluzione del 1905, i capitalisti avevano cominciato a stringersi in associazioni per far salire i prezzi delle merci nell'interno del paese. Essi convertivano i sovraprofitti così realizzati in un fondo di incoraggiamento per le esportazioni, allo scopo di gettare, a prezzo inferiore, le merci sui mercati esteri e conquistare, in tal guisa, nuovi sbocchi. Queste associazioni, questi gruppi capitalistici (monopoli), si chiamavano trust o sindacati. Dopo la rivoluzione del 1905, il numero dei trust e dei sindacati capitalistici aumentò ancor di più. Salì, del pari, il numero delle grandi banche, e la loro importanza nell'industria si sviluppò. I capitali stranieri affluivano in Russia.
Il capitalismo in Russia diventava dunque sempre più un capitalismo monopolistico, imperialista.
Dopo qualche anno di stagnazione, l'industria si rianimò; si accrebbero l'estrazione del carbone e della nafta, la produzione dei metalli, dei tessuti e dello zucchero; aumentò fortemente l'esportazione del grano.
Nonostante un certo progresso della sua industria in quel tempo, la Russia rimaneva però un paese arretrato, in confronto all'Europa occidentale, e sottoposto ai capitalisti stranieri. In Russia non si producevano né macchine, né macchine-utensili; le une e le altre erano importate dall'estero. Del pari non esistevano né l'industria automobilistica, né l'industria chimica; concimi chimici non se ne producevano. Anche nella produzione bellica, la Russia era arretrata rispetto agli altri paesi capitalistici.
Indicando il basso livello del consumo dei metalli in Russia come un indice dell'arretratezza del paese, Lenin scriveva:
 
Nei cinquant'anni trascorsi dall'emancipazione dei contadini, il consumo del ferro in Russia è quintuplicato, e tuttavia la Russia rimane un paese incredibilmente, inverosimilmente arretrato, povero e semiselvaggio, fornito di strumenti di produzione moderni quattro volte peggio dell'Inghilterra, cinque volte peggio della Germania, dieci volte peggio dell'America. (Lenin, «Opere», vol. XVI, pag. 543, ed. russa).
 
Il risultato diretto dell'arretratezza economica e politica della Russia era che tanto il capitalismo russo, quanto lo stesso zarismo, dipendevano dal capitalismo dell'Europa occidentale.
Di qui il fatto che dei rami particolarmente importanti dell'economia nazionale, come il carbone, la nafta, l'industria elettrica, la metallurgia, si trovavano nelle mani del capitale straniero e quasi tutte le macchine e tutta l'attrezzatura dovevano essere importate.
Di qui i prestiti onerosi contratti all'estero, per i cui interessi lo zarismo spremeva ogni anno dalla popolazione centinaia di milioni di rubli.
Di qui i trattati segreti con gli «alleati», in forza dei quali lo zarismo si era impegnato, in caso di guerra, a schierare milioni di soldati russi sui fronti imperialistici per sostenere gli «alleati» e assicurare profitti enormi ai capitalisti anglo-francesi.
Gli anni della reazione di Stolypin si distinsero soprattutto per le gesta brigantesche che gendarmi, polizia, provocatori zaristi, Cento-neri saccheggiatori perpetravano ai danni della classe operaia. Ma i sicari zaristi non erano i soli a esercitare l'opera di repressione antioperaia. Li emulavano, in questa bisogna, i proprietari di fabbriche e di officine, i quali avevano intensificato l'offensiva contro la classe operaia, soprattutto negli anni di stagnazione industriale e di crescente disoccupazione. Gli industriali licenziavano in massa gli operai (proclamando la serrata degli stabilimenti), compilavano dei «libri neri» dove erano elencati i nomi degli operai coscienti che partecipavano con fervore agli scioperi. Coloro i cui nomi figuravano in quei «libri neri» o «liste nere» non trovavano più lavoro in nessuna impresa aderente all'associazione padronale di quella determinata industria. Nel 1908, i salari erano già stati diminuiti del 10-15 per cento; la giornata lavorativa era stata prolungata dappertutto fino a 10-12 ore, mentre il sistema delle multe esorbitanti era tornato in vigore.
La sconfitta della rivoluzione del 1905 apportò disgregazione e decomposizione tra i «compagni di strada» della rivoluzione. La decomposizione, l'abbattimento morale erano profondi soprattutto nell'intellettualità. Accorsi dagli ambienti borghesi nelle file della rivoluzione nel periodo della sua ascesa travolgente, i «compagni di strada» nei giorni della reazione abbandonarono il partito. Gli uni passarono nel campo dei nemici aperti della rivoluzione; gli altri, insediatisi nelle superstiti società legali della classe operaia, cercavano di distogliere il proletariato dalla via rivoluzionaria e di screditare il partito rivoluzionario del proletariato. Abbandonando la causa rivoluzionaria, quei «compagni di strada» si sforzavano di adattarsi alla reazione, di vivere d'accordo con lo zarismo.
Il governo dello zar approfittava della sconfitta della rivoluzione per assoldare in qualità di agenti provocatori i «compagni di strada» più pusillanimi, vili. Gli infami Giuda, i provocatori che l'Okhrana inviava nelle organizzazioni operaie e in quelle del partito, spiavano dalle nostre stesse file e vendevano per trenta denari gli uomini della rivoluzione.
L'offensiva controrivoluzionaria si sferrò anche sul fronte ideologico. Si presentò alla ribalta tutta una banda di scrittori venuti di moda che si mise a «criticare» ed a «demolire» il marxismo; costoro denigravano e beffeggiavano la rivoluzione, esaltavano il tradimento e la perversità sessuale in nome del «culto dell'individuo».
Sull'arena filosofica, aumentarono i tentativi di «critica», di revisione del marxismo, e si videro pure apparire, sotto il manto di pretesi argomenti «scientifici», le correnti religiose più svariate.
La «critica» del marxismo divenne di moda.
Tutti questi signori, nonostante i loro colori disparati, si proponevano un unico scopo: distogliere le masse dalla rivoluzione.
Dall'abbattimento morale e dallo scetticismo furono colti anche taluni intellettuali aderenti al partito, che pur pretendendosi marxisti, non si erano mai tenuti fermamente sulle posizioni marxiste. Di questo numero erano degli scrittori come Bogdanov, Bazarov, Lunaciarski (che avevano aderito ai bolscevichi nel 1905), Iusckevic e Valentinov (menscevichi). Essi rivolsero una «critica» simultanea tanto ai fondamenti filosofici e teorici del marxismo, cioè al materialismo dialettico, quanto alle sue basi scientifiche e storiche, ossia al materialismo storico. La loro critica differiva da quella solita in ciò che essa non era svolta in modo aperto ed onesto, ma in modo velato ed ipocrita, sotto la bandiera della «difesa» delle posizioni marxiste fondamentali. Noi, dicevano, siamo in sostanza marxisti, ma vorremmo «migliorare» il marxismo, liberarlo da certi princìpi fondamentali. In realtà, erano ostili al marxismo, di cui cercavano scalzare le basi teoriche, sebbene a parole, con ipocrisia, negassero la loro ostilità e continuassero perfidamente a chiamarsi marxisti. Tale critica ipocrita era pericolosa poiché mirava ad ingannare i militanti della base e poteva trarli effettivamente in errore. E quanto più ipocrita diventava quella critica che mirava a scalzare le basi teoriche del marxismo, tanto più pericolosa diventava pel partito, poiché tanto più strettamente si univa alla crociata generale scatenata dai reazionari contro il partito, contro la rivoluzione. Alcuni di questi intellettuali disertori del marxismo erano giunti a predicare persino la necessità di creare una nuova religione (vennero chiamati «cercatori di Dio» e «costruttori di Dio»).
Un compito improrogabile s'imponeva ai marxisti: battere in breccia, nel modo dovuto, questi rinnegati della teoria marxista, strappare loro la maschera, metterli con le spalle al muro e salvaguardare in tal modo le basi teoriche del partito marxista.
Si poteva pensare che Plekhanov ed i suoi amici menscevichi, i quali si consideravano come «noti teorici marxisti», si sarebbero accinti a questo compito. Invece, si limitarono a rispondere, per pura formalità, con un paio di articoli insignificanti, a guisa di «note» critiche, per ritirarsi poi ciascuno nel suo guscio.
Fu Lenin che assolse questo compito, nel suo celebre libro «Materialismo e empiriocriticismo», pubblicato nel 1909.
 
In meno di sei mesi, abbiamo visto uscire - scrive Lenin - quattro libri, principalmente e quasi esclusivamente dedicati ad attaccare il materialismo dialettico. Vi è innanzi tutto la raccolta di articoli di Bazarov, Bogdanov, Lunaciarski, Bermann, Hellfond, Iusckevic, Suvorov, intitolata «Saggi sulla (si sarebbe dovuto dire: contro) filosofia marxista» (Pietroburgo, 1908). Seguono il libro di Iusckevic, «Materialismo e realismo critico»; quello di Bermann «La dialettica alla luce della teoria contemporanea della conoscenza»; e quello di Valentinov «Le costruzioni filosofiche del marxismo»... Tutti questi personaggi, uniti - nonostante le divergenze manifeste delle loro concezioni politiche - dall'ostilità verso il materialismo dialettico, pretendono ciò nondimeno di essere, in filosofia, dei marxisti. La dialettica di Engels è una «mistica», dice Bermann; le concezioni di Engels sono «invecchiate», lancia Bazarov di sfuggita, come una cosa naturale, e così il materialismo sembra confutato da questi nostri coraggiosi guerrieri, che invocano fieramente la «teoria contemporanea della conoscenza», la «filosofia moderna» (o «positivismo moderno»), la «filosofia delle scienze naturali contemporanee», o addirittura la «filosofia delle scienze naturali del XX secolo». (Lenin, «Opere», vol. XIII, pag. 11, ed. russa).
 
Rispondendo a Lunaciarski, il quale, per giustificare i suoi amici revisionisti in filosofia, aveva scritto: «Può darsi che noi ci sbagliamo, ma noi cerchiamo», Lenin scriveva:
 
Quanto a me, sono anch'io in filosofia fra coloro che «cercano». Per essere più precisi: in queste note [si tratta del libro «Materialismo e empiriocriticismo»] mi sono proposto di ricercare che cosa fa errare coloro che ci offrono, sotto il manto del marxismo, qualcosa di incredibilmente incoerente, confuso e reazionario. (Ibidem , pag. 12).
 
In realtà, il libro di Lenin ha di molto oltrepassato questo compito modesto. In realtà, il libro di Lenin non è soltanto la critica di Bogdanov, Iusckevic, Bazarov, Valentinov, e dei loro maestri di filosofia Avenarius e Mach, che avevano tentato di divulgare nei loro scritti un idealismo raffinato e levigato, in antitesi col materialismo marxista. Il libro di Lenin è, nello stesso tempo, una difesa dei princìpi teorici del marxismo - del materialismo dialettico e storico - e una generalizzazione materialistica di tutte le conquiste più importanti e sostanziali fatte dalla scienza e, innanzi tutto, dalle scienze naturali, in un intero periodo storico, dalla morte di Engels alla pubblicazione del libro di Lenin «Materialismo e empiriocriticismo».
Dopo una critica serrata degli empiriocriticisti russi e dei loro maestri stranieri, Lenin giunge alle seguenti conclusioni contro il revisionismo teorico e filosofico:
 
1) Una falsificazione sempre più sottile del marxismo, delle contraffazioni sempre più sottili del marxismo con dottrine antimaterialistiche, ecco ciò che caratterizza il revisionismo contemporaneo tanto in economia politica, quanto nelle questioni tattiche e nella filosofia in generale. (Ibidem , pag. 270).
2) Tutta la scuola di Mach e di Avenarius va verso l'idealismo. (Ibidem , pag. 291).
3) I nostri seguaci di Mach si sono impegolati nell'idealismo. (Ibidem , pag. 282).
4) Non è possibile non scorgere, dietro la scolastica genealogia dell'empiriocriticismo, la lotta dei partiti in filosofia, lotta che esprime, in ultima analisi, le tendenze e l'ideologia delle classi nemiche nella società contemporanea. (Ibidem , pag. 292).
5) La funzione oggettiva, di classe, dell'empiriocriticismo si riduce interamente a servire i fideisti [reazionari che preferiscono la fede alla scienza] nella loro lotta contro il materialismo in generale e il materialismo storico in particolare. (Ibidem , pag. 292).
6) L'idealismo filosofico è... la via dell'oscurantismo clericale. (Ibidem , pag. 304).
 
Per apprezzare l'importanza immensa dell'opera di Lenin nella storia del nostro partito e per comprendere quale tesoro teorico Lenin abbia difeso contro ogni sorta di revisionisti e di elementi degeneri nel periodo della reazione di Stolypin, è necessario conoscere, sia pure in modo sommario, i princìpi del materialismo dialettico e storico.
Ciò è ancora più necessario poiché il materialismo dialettico e il materialismo storico costituiscono la base teorica del comunismo, i princìpi teorici del partito marxista, e quindi la conoscenza di questi princìpi e la loro assimilazione costituiscono il dovere di ogni militante attivo del nostro partito.
Dunque:
1) Che cos'è il materialismo dialettico?
2) Che cos'è il materialismo storico?
 


2. Il materialismo dialettico e il materialismo storico.
Il materialismo dialettico è la teoria generale del partito marxista-leninista. Si chiama materialismo dialettico, perché, il suo metodo di considerare i fenomeni della natura, il suo metodo per investigarli e per conoscerli, è dialettico e perché la sua interpretazione, la sua concezione di questi fenomeni, la sua teoria è materialistica .
Il materialismo storico estende i princìpi del materialismo dialettico allo studio della vita sociale, li applica ai fenomeni della vita sociale, allo studio della società, allo studio della storia della società.
Definendo il loro metodo dialettico, Marx ed Engels si riferiscono di solito ad Hegel, come al filosofo che ha enunciato le caratteristiche fondamentali della dialettica. Ma da questo non deriva che la dialettica di Marx e di Engels sia identica a quella di Hegel. Infatti, Marx ed Engels hanno preso dalla dialettica di Hegel solo il «nucleo razionale», gettandone via la corteccia idealistica e sviluppando ulteriormente la dialettica per imprimerle un carattere scientifico moderno.
 
Il mio metodo dialettico - dice Marx - non solo differisce dal metodo hegeliano nella base, ma ne è diametralmente l'opposto. Per Hegel, il movimento del pensiero, che egli personifica sotto il nome di Idea, è il demiurgo della realtà, la quale è solo la forma fenomenale dell'Idea. Per me, al contrario, il movimento del pensiero non è che il riflesso del movimento reale, trasportato e trasformato nel cervello dell'uomo. (C. Marx, «Il Capitale», vol. I, p. 29 ed. francese, Bureau d'Éditions, Parigi 1938).
 
Definendo il loro materialismo, Marx ed Engels si riferiscono di solito a Feuerbach, come al filosofo che ha riabilitato il materialismo. Ma da questo non deriva che il materialismo di Marx ed Engels sia identico a quello di Feuerbach. Marx ed Engels, infatti, hanno preso dal materialismo di Feuerbach solo il «nucleo centrale», sviluppandolo ulteriormente in una teoria filosofica scientifica del materialismo e respingendone le sovrapposizioni idealistiche ed etico-religiose. È noto che Feuerbach, pur essendo fondamentalmente materialista, è insorto contro il nome di materialismo. Engels più di una volta ha detto di Feuerbach: «nonostante la sua base materialistica, non si è ancora liberato dai vecchi impacci idealistici»; «il vero idealismo di Feuerbach salta agli occhi non appena giungiamo alla sua filosofia della religione e alla sua etica». (F. Engels, «L. Feuerbach e la fine della filosofia classica tedesca»; C. Marx, «Opere scelte», vol. I, pagg. 443-445, Mosca 1934).
«Dialettica» deriva dalla parola greca «dialego», che significa conversare, polemizzare. Per dialettica, si intendeva, nell'antichità, l'arte di raggiungere la verità, scoprendo le contraddizioni racchiuse nel ragionamento dell'avversario e superandole. Alcuni filosofi antichi, ritenevano che la scoperta delle contraddizioni nel pensiero e il cozzo delle opposte opinioni rappresentassero il mezzo migliore per scoprire la verità. Questo modo dialettico di pensare, esteso in seguito ai fenomeni della natura, è diventato il metodo dialettico di conoscenza della natura, secondo il quale i fenomeni della natura sono perpetuamente in moto e in trasformazione e lo sviluppo della natura è il risultato dello sviluppo delle contraddizioni della natura, è il risultato dell'azione reciproca delle forze opposte nella natura.
Nella sua essenza, la dialettica è diametralmente l'opposto della metafisica.
1. Il metodo dialettico marxista è caratterizzato dai seguenti tratti essenziali:
a) Contrariamente alla metafisica, la dialettica considera la natura, non come un ammasso casuale di oggetti, di fenomeni, staccati gli uni dagli altri, isolati e indipendenti gli uni dagli altri, ma come un tutto unico, coerente, nel quale gli oggetti, i fenomeni sono organicamente collegati tra di loro, dipendono gli uni dagli altri e si condizionano reciprocamente.
Perciò, secondo il metodo dialettico, nessun fenomeno della natura può essere capito se preso a sé isolatamente, senza legami coi fenomeni che lo circondano, poiché qualsiasi fenomeno, in qualsiasi dominio della natura, può sembrare assurdo se .lo si considera al di fuori delle condizioni che lo circondano, distaccato da esse; e, al contrario, qualsiasi fenomeno può essere compreso e spiegato, se lo si considera sotto l'aspetto dei suoi legami inscindibili con i fenomeni che lo circondano, se lo si considera in quanto condizionato dai fenomeni che lo circondano.
b) Contrariamente alla metafisica, la dialettica considera la natura non come uno stato di quiete e di immobilità, di stagnazione e di immutabilità, ma in movimento e in cambiamento perpetui, in rinnovamento e sviluppo incessanti dove nasce e si sviluppa sempre qualche cosa, e dove sempre qualche cosa si decompone e scompare.
Perciò, secondo il metodo dialettico, i fenomeni devono essere considerati, non solo dal punto di vista dei loro mutui legami e del loro condizionamento reciproco, ma anche dal punto di vista del loro movimento, del loro cambiamento e del loro sviluppo, dal punto di vista del loro sorgere e del loro sparire.
Per il metodo dialettico, è soprattutto importante, non già ciò che, a un dato momento sembra stabile, ma comincia già a deperire; bensì ciò che nasce e si sviluppa, anche se, nel momento dato, sembra instabile, poiché, per il metodo dialettico, solo ciò che nasce e si sviluppa è invincibile.
 
La natura intiera - dice Engels - dalle sue particelle infime ai corpi più grandi, dal granellino di sabbia al sole, del protista [cellula vivente primitiva] all'uomo, si trova in un processo eterno di nascita e di dispersione, in un flusso incessante, in un movimento e cambiamento perpetuo. (F. Engels, «Anti-Dühring», «La dialettica della natura»; Marx Engels, «Opere complete», vol. speciale, pag. 491, ed. tedesca, Mosca 1935).
 
Perciò, dice Engels, la dialettica «considera le cose e il loro riflesso mentale, principalmente nelle loro relazioni reciproche, nel loro concatenamento, nel loro movimento, nel loro sorgere e sparire». (Ibidem , pag. 25).
c) Contrariamente alla metafisica, la dialettica considera il processo di sviluppo, non come un semplice processo di crescenza, nel quale i cambiamenti quantitativi non portano a cambiamenti qualitativi, ma come uno sviluppo che passa da cambiamenti quantitativi insignificanti e latenti a cambiamenti aperti e radicali, a cambiamenti qualitativi: uno sviluppo nel quale i cambiamenti qualitativi non avvengono gradualmente, ma rapidamente, improvvisamente, a salti da uno stato all'altro, e non si operano a caso, ma secondo leggi obbiettive come risultato dell'accumulazione di cambiamenti quantitativi impercettibili e graduali.
Perciò, secondo il metodo dialettico, si deve comprendere il processo di sviluppo non come un movimento circolare, non come una semplice ripetizione di ciò che è già avvenuto, ma come un movimento progressivo, ascendente, come il passaggio dal vecchio stato qualitativo a un nuovo stato qualitativo, come uno sviluppo dal semplice al complesso, dall'inferiore al superiore.
 
La natura - dice Engels - è la pietra di paragone della dialettica, e le scienze naturali moderne forniscono, per questa prova, dei materiali che sono straordinariamente ricchi e aumentano di giorno in giorno; esse hanno così dimostrato che, nella natura, in ultima istanza, tutto si compie in modo dialettico e non metafisico, che essa si muove, non in un circolo eternamente identico, che si ripeta perpetuamente, ma che essa vive una storia reale. A questo proposito, occorre innanzi tutto ricordare Darwin, che ha inferto un durissimo colpo alla concezione metafisica della natura, dimostrando che il mondo organico intero come esiste oggi, le piante e gli animali, e quindi anche l'uomo, è il prodotto di un processo di sviluppo che dura da milioni di anni. (Ibidem , pag. 25).
 
Caratterizzando lo sviluppo dialettico come il passaggio dai cambiamenti quantitativi a quelli qualitativi, Engels dice:
 
Nella fisica... ogni mutamento è un passaggio dalla quantità alla qualità: la conseguenza di un cambiamento quantitativo di una certa quantità di movimento inerente al corpo, o trasmessagli, in una forma qualunque. Così, per esempio, la temperatura dell'acqua è dapprima indifferente per il suo stato liquido; ma, aumentando o diminuendo la temperatura dell'acqua, giunge il momento in cui il suo stato di coesione si modifica e l'acqua si trasforma, nel primo caso, in vapore, nel secondo caso, in ghiaccio... Così, è necessario un minimo determinato di corrente elettrica perché un filo di platino diventi luminoso; così, ogni metallo ha la sua temperatura di fusione; così, ogni liquido, a una data pressione, ha il suo punto determinato di congelamento o di ebollizione, nella misura in cui i nostri mezzi ci permettono di ottenere le temperature necessarie; così, infine, vi è per ogni gas un punto critico, in cui, mediante una pressione e un raffreddamento adeguati, può essere trasformato allo stato liquido... Le costanti, come si dice in fisica, sono nella maggior parte dei casi, quei punti nodali, dove, in un corpo dato, l'aumento o la diminuzione di movimento (cambiamento quantitativo) provoca un cambiamento qualitativo, e dove quindi la quantità si trasforma in qualità. (F. Engels, «La dialettica della natura», Ibidem , pagg. 502-503).
 
E, a proposito della chimica:
 
La chimica si può definire la scienza dei cambiamenti qualitativi dei corpi, dovuti a cambiamenti quantitativi. Lo sapeva già anche lo stesso Hegel... Si prenda l'ossigeno: se, in una molecola, si uniscono tre atomi, invece di due, come ordinariamente, si ottiene l'ozono - un corpo che si distingue nettamente dall'ossigeno ordinario per il suo odore e per le sue reazioni. Che dire poi delle diverse combinazioni dell'ossigeno con l'azoto e con lo zolfo, ognuna delle quali forma un corpo qualitativamente differente da tutti i corpi? (Ibidem , pag. 503).
 
Infine, Engels critica Dühring che copre Hegel di invettive, pur appropriandosi sotto mano della sua celebre tesi, secondo la quale il passaggio dal regno del mondo insensibile a quello della sensazione, dal regno del mondo inorganico a quello della vita organica, è un salto a un nuovo stato:
 
È questa la linea nodale hegeliana dei rapporti di misura, in cui un aumento, o una diminuzione, puramente qualitativo, provoca, in punti nodali determinati, un salto qualitativo , come, per esempio, nel caso dell'acqua riscaldata o raffreddata, nel quale i punti di ebollizione e di congelamento rappresentano i nodi dove si compie - a una pressione normale - il salto verso un nuovo stato di aggressione, e dove, di conseguenza, la quantità si trasforma in qualità. (F. Engels, «Anti-Dühring», Ibidem , pagg. 49-50).
 
d) Contrariamente alla metafisica, la dialettica parte dal principio che gli oggetti e i fenomeni della natura implicano delle contraddizioni interne, poiché essi tutti hanno un lato negativo e un lato positivo, un passato e un avvenire, elementi che deperiscono ed elementi che si sviluppano; la lotta tra questi opposti, tra il vecchio e il nuovo, tra ciò che muore e ciò che nasce, tra ciò che deperisce e ciò che si sviluppa, è l'intimo contenuto del processo di sviluppo, il contenuto intimo della trasformazione dei cambiamenti quantitativi in cambiamenti qualitativi.
Perciò, secondo il metodo dialettico, il processo di sviluppo dall'inferiore al superiore si opera non già sulla linea di una armonica evoluzione dei fenomeni, bensì attraverso il manifestarsi delle contraddizioni inerenti agli oggetti, ai fenomeni, attraverso una «lotta» delle tendenze opposte, che agiscono sulla base di queste contraddizioni.
 
La dialettica, nel senso proprio della parola - dice Lenin - è lo studio delle contraddizioni nell'essenza stessa delle cose . (Lenin, «Quaderni filosofici», pag. 263, ed. russa).
 
E più avanti:
 
Lo sviluppo è la «lotta» degli opposti. (Lenin, «Opere», vol. XIII, pag. 301, ed. russa).
 
Tali, in breve, i tratti essenziali del metodo dialettico marxista.
Non è difficile comprendere di quale immensa importanza sia la estensione dei princìpi del metodo dialettico allo studio della vita sociale, allo studio della storia della società, di quale immensa importanza sia l'applicazione di questi princìpi alla storia della società, all'attività pratica del partito del proletariato.
Se è vero che non vi sono al mondo fenomeni isolati, e tutti i fenomeni sono collegati fra di loro, condizionandosi a vicenda, è chiaro che ogni regime sociale ed ogni movimento sociale, nella storia, devono essere giudicati, non dal punto di vista della «giustizia eterna», o di qualsiasi altra idea preconcetta, come fanno sovente gli storici, ma dal punto di vista delle condizioni che hanno generato quel regime e quel movimento sociale e con le quali essi sono legati.
Il regime schiavistico non avrebbe senso nelle condizioni attuali, sarebbe un'assurdità contro natura. Il regime schiavistico, nelle condizioni invece del regime della comunità primitiva in decomposizione, è un fenomeno perfettamente comprensibile, logico, poiché vuol dire un passo in avanti, rispetto al regime della comunità primitiva.
Il rivendicare la repubblica democratico-borghese nelle condizioni dello zarismo e della società borghese, per esempio nella Russia nel 1905, era del tutto comprensibile, giusto, rivoluzionario, perché la repubblica borghese significava allora un passo in avanti. Ma il rivendicare la repubblica democratico-borghese, nelle nostre attuali condizioni, nell'U.R.S.S., non avrebbe senso, sarebbe controrivoluzionario, poiché la repubblica borghese costituirebbe un passo indietro rispetto alla Repubblica sovietica.
Tutto dipende dalle condizioni, dal luogo e dal tempo. È chiaro che, senza questo metodo storico per studiare i fenomeni sociali, non è possibile che la scienza della storia esista e si sviluppi; poiché solo un tale metodo impedisce alla scienza storica di diventare un caos di contingenze e un cumulo di assurdi errori.
Proseguiamo. Se è vero che il mondo è in perpetuo movimento e sviluppo, se è vero che la scomparsa di ciò che è vecchio e la nascita di ciò che è nuovo sono una legge dello sviluppo, è chiaro che non vi sono più regimi sociali «immutabili»; che non vi sono più «princìpi immortali» di proprietà privata e di sfruttamento; che non vi sono più «idee eterne» di sottomissione dei contadini ai proprietari fondiari e degli operai ai capitalisti.
Ecco perché il regime capitalistico può essere sostituito dal regime socialista, nello stesso modo che il regime capitalistico ha sostituito, un tempo, il regime feudale.
Ecco perché è necessario basare la propria azione, non già sugli strati sociali che non si sviluppano più, ancorché rappresentino, in un momento dato, la forza dominante, bensì sugli strati che si sviluppano e che hanno l'avvenire di fronte, anche se, pel momento, non rappresentano la forza dominante.
Nel decennio 1880-1890, al tempo della lotta dei marxisti contro i populisti, il proletariato era in Russia una piccola minoranza rispetto alla massa dei contadini individuali, i quali formavano la stragrande maggioranza della popolazione. Ma il proletariato in quanto classe, si sviluppava, mentre i contadini, in quanto classe, si disgregavano. E proprio perché il proletariato si stava sviluppando come classe che i marxisti hanno basato la loro azione su di esso. E non si sono sbagliati, poiché, com'è noto, il proletariato, pur essendo allora una forza poco importante, è divenuto, in seguito, una forza storica e politica di prim'ordine.
Ecco perché, se non si vuole sbagliare in politica, è necessario guardare avanti e non indietro.
Proseguiamo. Se è vero che il passaggio dai lenti cambiamenti quantitativi a bruschi e rapidi cambiamenti qualitativi è una legge dello sviluppo, è chiaro che le rivoluzioni compiute dalle classi oppresse rappresentano un fenomeno assolutamente naturale ed inevitabile.
Ecco perché il passaggio dal capitalismo al socialismo e la liberazione della classe operaia dal giogo capitalistico non possono realizzarsi per mezzo di lenti cambiamenti, a mezzo di riforme, ma solo mediante un cambiamento qualitativo del regime capitalistico, con la rivoluzione.
Ecco perché, se non si vuole sbagliare in politica, è necessario essere rivoluzionari e non riformisti.
Proseguiamo. Se è vero che lo sviluppo si compie attraverso il manifestarsi delle contraddizioni interne, attraverso il conflitto delle forze opposte sulla base di queste contraddizioni, conflitto destinato a superarle, è chiaro che la lotta di classe del proletariato è un fenomeno assolutamente naturale e inevitabile.
Ecco perché non bisogna nascondere le contraddizioni del regime capitalistico, ma denunciarle e metterle in evidenza; non bisogna soffocare la lotta di classe, ma condurla fino in fondo.
Ecco perché, se non si vuole sbagliare in politica, è necessario condurre una politica proletaria di classe, una politica intransigente, e non una politica riformista di armonia tra gli interessi del proletariato e gli interessi della borghesia, una politica di conciliazione, di «integrazione» del capitalismo nel socialismo.
Ecco ciò che insegna il metodo dialettico marxista, applicato alla vita sociale, alla storia della società.
A sua volta, il materialismo filosofico marxista, per la sua base, è esattamente l'opposto dell'idealismo filosofico.
2. Il materialismo filosofico marxista è caratterizzato dai seguenti tratti fondamentali:
a) Contrariamente all'idealismo, che considera il mondo come l'incarnazione dell'«idea assoluta», dello «spirito universale», della «coscienza», il materialismo filosofico di Marx parte dal principio che il mondo è, per sua natura, materiale ; che i molteplici fenomeni del mondo rappresentano degli aspetti diversi della materia in movimento; che i mutui rapporti e il condizionamento reciproco dei fenomeni accertati col metodo dialettico, costituiscono le leggi necessarie dello sviluppo della materia in movimento; che il mondo si sviluppa secondo le leggi del movimento della materia e non ha bisogno di nessuno «spirito universale».
 
La concezione materialistica del mondo - dice Engels - significa semplicemente la comprensione della natura, quale essa è, senza alcuna aggiunta estranea. (F. Engels, «Ludovico Feuerbach e la fine della filosofia classica tedesca», Appendice, pag. 80, ed. tedesca, Mosca 1932).
 
Circa la concezione materialistica esposta dal filosofo antico Eraclito, secondo il quale «il mondo è uno, non è stato creato da alcun dio, né da alcun uomo; è stato, e sarà una fiamma eternamente viva, che si avviva e si ammorza secondo leggi determinate», Lenin scrive che è un'«eccellente esposizione dei princìpi del materialismo dialettico». (Lenin, «Quaderni di filosofia», pag. 318, ed. russa).
b) Contrariamente all'idealismo, il quale asserisce che solo la nostra coscienza esiste realmente mentre il mondo materiale, l'essere, la natura esistono solo nella nostra coscienza, sensazioni, rappresentazioni e concetti, il materialismo filosofico marxista parte dal principio che la materia, la natura, l'essere rappresentano una realtà oggettiva, esistente al di fuori e indipendentemente dalla coscienza; che la materia è il primo dato, perché è la fonte delle sensazioni, delle rappresentazioni, della coscienza, mentre la coscienza è il secondo dato, un dato derivato, poiché è il riflesso della materia, il riflesso dell'essere; che il pensiero è un prodotto della materia, quando essa ha raggiunto nel suo sviluppo un alto grado di perfezione; che, cioè, il pensiero è il prodotto del cervello, e il cervello è l'organo del pensiero; che non si può dunque separare il pensiero dalla materia, per non cadere in un errore grossolano.
 
Il quesito supremo di tutta la filosofia - dice Engels - è quello del rapporto del pensiero coll'essere, dello spirito con la natura... I filosofi si sono divisi in due grandi campi secondo come rispondevano a tale quesito. I filosofi che affermavano la priorità dello spirito rispetto alla natura... formavano il campo dell'idealismo . Gli altri che affermavano la priorità della natura... appartenevano alle diverse scuole del materialismo . (F. Engels, «L. Feuerbach e la fine della filosofia classica tedesca»; C. Marx, «Opere scelte», vol. I, pagg. 434-435, ed. tedesca, Mosca 1934).
 
E più oltre:
 
Il mondo materiale, percepibile dai sensi, al quale noi stessi apparteniamo, è l'unico mondo reale... La nostra coscienza e il nostro pensiero, per quanto trascendenti essi sembrino, sono semplicemente il prodotto di un organo materiale, corporale, il cervello... La materia non è un prodotto dello spirito, ma lo spirito non è esso stesso che il prodotto supremo della materia. (Ibidem , pag. 439).
 
Circa il problema della materia e del pensiero, Marx scrive:
 
Non si può separare il pensiero dalla materia pensante . Questa materia è il substrato di tutti i grandi cambiamenti che si operano. (F. Engels, «Sul materialismo storico», Ibidem , pag. 400).
 
Definendo il materialismo filosofico marxista, Lenin così si esprime:
 
Il materialismo ammette in generale che l'essere reale oggettivo (la materia) è indipendente dalla coscienza, dalle sensazioni, dalI'esperienza... La coscienza... è solo il riflesso dell'essere e, tutt'al più, un riflesso approssimativamente esatto (adeguato, d'una precisione ideale). (Lenin, «Opere», vol. XIII, pagg. 266-267, ed. russa).
 
E ancora:
 
1) La materia è ciò che, agendo sui nostri organi dei sensi, produce le sensazioni; la materia è una realtà oggettiva, che ci è data dalle sensazioni... la materia, la natura, l'essere, il fisico è il primo dato, mentre lo spirito, la coscienza, la sensazione, lo Psichico è il secondo dato. (Ibidem , pagg. 119-120).
2) Il quadro del mondo è il quadro che mostra come la materia si muova e come «la materia pensi », (Ibidem , pag. 288).
3) Il cervello è l'organo del pensiero. (Ibidem , pag. 125).
 
c) Contrariamente all'idealismo, che nega sia possibile di conoscere il mondo e le sue leggi, che non crede alla validità delle nostre conoscenze, che non riconosce la verità oggettiva e considera il mondo pieno di «cose in sé», le quali non potranno mai essere conosciute dalla scienza, il materialismo filosofico marxista parte dal principio che il mondo e le sue leggi sono perfettamente conoscibili, che la nostra conoscenza delle leggi della natura verificata dall'esperienza, dalla pratica, è una conoscenza valida, che ha il valore di una verità oggettiva; che al mondo non esistono cose inconoscibili, ma solo cose ancora ignote, che saranno scoperte e conosciute grazie alla scienza e alla pratica.
Engels critica la tesi di Kant e di altri idealisti, per i quali il mondo e le «cose in sé» sarebbero inconoscibili, e difende la nota tesi materialistica che le nostre conoscenze sono valide. Egli scrive:
 
La confutazione più decisiva di questa ubbia filosofica, come del resto di tutte le altre, è data dalla pratica, particolarmente dall'esperimento e dall'industria. Se possiamo dimostrare che la nostra comprensione di un dato fenomeno naturale è giusta, creandolo noi stessi, producendolo dalle sue condizioni, e, quel che più conta, facendolo servire ai nostri fini, l'inafferrabile «cosa in sé» di Kant è morta e sepolta. Le sostanze chimiche formatesi nei corpi animali e vegetali, restarono «cosa in sé» fino a che la chimica organica non si mise a prepararle l'una dopo l'altra; in tal modo, la «cosa in sé» si è trasformata in una cosa per noi, come per esempio l'alizarina, la materia colorante della garanza, che non estraiamo più dalle radici della garanza coltivata nei campi, ma molto più a buon mercato e in modo più semplice dal catrame di carbone. Il sistema solare di Copernico fu per tre secoli un'ipotesi assai verosimile, ma pur sempre un'ipotesi. Quando però Leverrier, con i dati ottenuti grazie a quel sistema, non solo dimostrò che doveva esistere un altro pianeta, ignoto fino a quel tempo, ma determinò anche il posto dove quel pianeta doveva trovarsi nello spazio celeste e quando, infatti, Galle lo scoprì, il sistema copernicano fu provato. (F. Engels, «Ludovico Feuerbach e la fine della filosofia classica tedesca»; C. Marx, «Opere scelte», vol. I, pagg. 436-437, ed. tedesca, Mosca 1934).
 
Lenin accusa di fideismo Bogdanov, Bazarov, Iuskevic e altri seguaci di Mach e difende la nota tesi materialistica: le nostre conoscenze scientifiche delle leggi della natura sono valide; le leggi della scienza sono verità oggettive.
 
Il fideismo contemporaneo - scrive Lenin - non ripudierebbe in nessun modo la scienza: ne respingerebbe soltanto «le pretese eccessive» e, cioè, la pretesa di scoprire la verità oggettiva. Se esiste una verità oggettiva (come pensano i materialisti), se le scienze della natura, riflettendo il mondo esterno nell'«esperienza» umana, sono esse sole capaci di darci la verità oggettiva, ogni fideismo deve essere respinto in modo assoluto. (Lenin, «Opere», vol. XIII, pag. 102, ed. russa).
 
Tali, in breve, i tratti caratteristici del materialismo filosofico marxista.
È facile comprendere di quale immensa importanza sia la estensione dei princìpi del materialismo filosofico allo studio della vita sociale, allo studio della storia della società, di quale enorme importanza sia l'applicazione di questi princìpi alla storia della società, all'attività pratica del partito del proletariato.
Se è vero che i reciproci legami tra i fenomeni della natura e il loro reciproco condizionamento rappresentano delle leggi necessarie dello sviluppo della natura, ne deriva che i legami e il condizionamento reciproco tra i fenomeni della vita sociale rappresentano anch'essi non delle contingenze, ma delle leggi necessarie dello sviluppo sociale.
Ecco perché la vita sociale, la storia della società cessano di essere un cumulo di «contingenze», giacché la storia della società si presenta come uno sviluppo necessario della società e lo studio della storia della società diventa una scienza.
Ecco perché l'attività pratica del partito del proletariato deve basarsi, non già sulle lodevoli aspirazioni delle «individualità eccezionali», né sulle esigenze della «ragione», della «morale universale», ecc., bensì sulle leggi dello sviluppo della società, sullo studio di queste leggi.
Proseguiamo. Se è vero che il mondo è conoscibile e se è vero che la nostra conoscenza delle leggi dello sviluppo della natura è una conoscenza valida che ha il valore di una verità oggettiva, ne deriva che la vita sociale, che lo sviluppo della società sono pure conoscibili e che i dati della scienza sulle leggi dello sviluppo della società sono dati validi, che hanno il valore di verità oggettive.
Ecco perché la scienza della storia della società, nonostante tutta la complessità dei fenomeni della vita sociale, può diventare una scienza altrettanto esatta quanto, ad esempio, la biologia, e capace di servirsi delle leggi di sviluppo della società nelle applicazioni della pratica.
Ecco perché il partito del proletariato, nella sua attività pratica, deve richiamarsi, anzi che a motivi fortuiti, alle leggi di sviluppo della società e alle conclusioni pratiche che derivano da queste leggi.
Ecco perché il socialismo, da sogno che era d'un migliore avvenire del genere umano, diventa una scienza.
Ecco perché il legame tra la scienza e l'attività pratica, il legame della teoria con la pratica, la loro unità deve diventare, per il partito del proletariato, la stella che guida la sua rotta.
Proseguiamo. Se è vero che la natura, l'essere, il mondo materiale è il primo dato e la coscienza, il pensiero è il secondo dato, derivato, se è vero che il mondo materiale rappresenta una realtà oggettiva, che esiste indipendentemente dalla coscienza degli uomini, e la coscienza è il riflesso di questa realtà oggettiva, ne deriva che la vita materiale della società, il suo essere, è pure il primo dato, mentre la sua vita spirituale è il secondo dato, derivato; che la vita materiale della società è una realtà oggettiva, che esiste indipendentemente dalla volontà degli uomini, mentre la vita spirituale della società è un riflesso di questa realtà oggettiva, un riflesso dell'essere.
Ecco perché la fonte della vita spirituale della società, l'origine delle idee sociali, delle teorie sociali, delle concezioni politiche, delle istituzioni politiche si deve ricercarla, non già nelle idee, teorie, concezioni, istituzioni politiche stesse, bensì nelle condizioni della vita materiale della società, nell'essere sociale, di cui queste idee, teorie, concezioni, ecc. sono il riflesso.
Ecco perché, se, nei differenti periodi della storia della società, si osservano diverse idee sociali, teorie, concezioni, istituzioni politiche, se sotto il regime schiavistico, noi incontriamo determinate idee sociali, teorie, concezioni e istituzioni politiche, mentre sotto il feudalismo, ne incontriamo altre, e, sotto il regime capitalistico, altre ancora, ciò si spiega, non già con la «natura», né con le «proprietà» di tali idee, teorie, concezioni, istituzioni politiche, ma con le differenti condizioni della vita materiale della società, nei differenti periodi di sviluppo sociale.
Qual è l'essere sociale, quali sono le condizioni della vita materiale della società, tali sono le idee, le teorie, le concezioni politiche, le istituzioni politiche della società.
A questo proposito, Marx scrive:
 
Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma, ai contrario, è il loro essere sociale che determina la loro coscienza. (C. Marx, «Per la critica dell'economia politica», «Opere scelte», vol. I, pag. 359, ed. tedesca, Mosca 1934).
 
Ecco perché, per non sbagliarsi in politica e non cullarsi in vuote fantasticherie, il partito del proletariato deve fondare la sua azione non sugli astratti «princìpi della ragione umana», ma sulle condizioni concrete della vita materiale della società, forza decisiva dello sviluppo sociale; non sui lodevoli desideri dei «grandi uomini» ma sulle esigenze reali dello sviluppo della vita materiale della società.
Il fallimento degli utopisti, e, tra essi, dei populisti, degli anarchici, dei socialisti-rivoluzionari si spiega anche col fatto che essi non riconobbero la funzione di prim'ordine che nello sviluppo sociale hanno le condizioni della vita materiale della società, e, caduti nell'idealismo, basarono la loro attività pratica non già sulle esigenze dello sviluppo della vita materiale della società, ma, indipendentemente da esse e contro di esse, su «piani ideali» e «progetti universali», staccati dalla vita reale della società.
Ciò che rende forte e vitale il marxismo-leninismo è che esso basa la sua azione pratica proprio sulle esigenze dello sviluppo della vita materiale della società, non staccandosi mai dalla vita materiale della società.
Dalle parole di Marx non deriva però che le idee e le teorie sociali, le concezioni e le istituzioni politiche non abbiano alcuna importanza nella vita della società, che esse non reagiscano sull'essere sociale, nello sviluppo delle condizioni materiali della vita sociale. Noi abbiamo esposto fin qui soltanto l'origine delle idee e teorie sociali, delle concezioni e istituzioni politiche, il loro sorgere ; abbiamo detto che la vita spirituale della società è il riflesso delle condizioni della sua vita materiale. Ma in quanto all'importanza di queste idee e teorie sociali, di queste concezioni e istituzioni politiche, e alla loro funzione nella storia, il materialismo storico è ben lontano dal negarle. Anzi, il materialismo storico sottolinea la funzione e l'importanza considerevoli che nella vita e nella storia della società hanno le idee e teorie sociali, le concezioni e istituzioni politiche.
Le idee e teorie sociali differiscono tra di loro. Le une sono idee e teorie rinsecchite che hanno fatto il loro tempo e servono gli interessi delle forze sociali in declino. La loro importanza sta in ciò che esse frenano lo sviluppo della società, il suo progresso. Le altre sono idee e teorie nuove, d'avanguardia, che servono agli interessi delle forze d'avanguardia della società. La loro importanza sta in ciò che esse agevolano lo sviluppo della società, il suo progresso. Ed esse acquistano tanto maggiore importanza, quanto più riflettono fedelmente le esigenze dello sviluppo della vita materiale della società.
Le idee e teorie sociali nuove sorgono solo quando lo sviluppo della vita materiale della società pone di fronte alla società compiti nuovi. Ma, sorte che siano, diventano una forza estremamente importante che agevola l'adempimento dei nuovi compiti posti dallo sviluppo della vita materiale della società; esse agevolano il progresso della società. Ed è proprio allora che si rivela tutta l'importanza della funzione organizzatrice, mobilizzatrice e trasformatrice delle nuove idee e teorie, delle nuove concezioni e istituzioni politiche. Certo, se delle idee e teorie sociali nuove sorgono, ciò avviene appunto perché esse sono necessarie alla società, perché senza la loro azione organizzatrice, mobilizzatrice e trasformatrice, sarebbe impossibile la soluzione dei problemi urgenti posti dallo sviluppo della vita materiale della società. Suscitate dai nuovi compiti posti dallo sviluppo della vita materiale della società, le idee e teorie sociali nuove si aprono il cammino, diventano il patrimonio delle masse popolari, le mobilitano, le organizzano contro le forze morenti della società, e agevolano, in tal modo, l'abbattimento di queste forze che intralciano lo sviluppo della vita materiale della società.
E avviene così che le idee e teorie sociali, le istituzioni politiche, suscitate dai compiti urgenti posti dallo sviluppo della vita materiale della società, dallo sviluppo dell'essere sociale, agiscano, a loro volta, sull'essere sociale, sulla vita materiale della società, creando le condizioni necessarie per giungere all'esecuzione dei compiti urgenti posti dalla vita materiale della società e per rendere possibile il suo sviluppo ulteriore.
È a questo proposito che Marx dice:
 
La teoria diventa una forza materiale non appena conquista le masse (C. Marx, «Per la critica della filosofia del diritto di Hegel»; Marx Engels, «Opere complete», vol. I, parte 1ª, pag. 614, ed. tedesca, Francoforte 1927).
 
Ecco perché per potere agire sulle condizioni della vita materiale della società e affrettare il loro sviluppo e miglioramento, il partito del proletariato si deve appoggiare su di una teoria sociale, su un'idea sociale che esprima in modo giusto le esigenze dello sviluppo della vita materiale della società e sia capace, perciò, di porre in movimento le larghe masse popolari, capace di mobilitarle e di organizzarle nel grande esercito del partito del proletariato, pronto a spezzare le forze reazionarie e ad aprire la strada alle forze d'avanguardia della società.
Il fallimento degli «economisti» e dei menscevichi si spiega anche col fatto che essi non riconobbero alla teoria d'avanguardia, alle idee d'avanguardia una funzione mobilizzatrice, organizzatrice e trasformatrice, e, caduti nel materialismo volgare, ridussero la loro funzione quasi a nulla, condannando di conseguenza il partito alla passività, alla stagnazione.
Ciò che rende forte e vitale il marxismo-leninismo è il fatto che esso si appoggia su di una teoria d'avanguardia, esprimente in modo giusto le esigenze dello sviluppo della vita materiale della società, eleva la teoria all'alto livello che le spetta e considera suo compito utilizzarne al massimo la forza mobilizzatrice, organizzatrice e trasformatrice.
È in questo modo che il materialismo storico risolve la questione dei rapporti tra l'essere sociale e la coscienza sociale, tra le condizioni di sviluppo della vita materiale e lo sviluppo della vita spirituale della società.
Rimane una questione da chiarire: che cosa si deve intendere, dal punto di vista del materialismo storico, per quelle «condizioni della vita materiale della società», che determinano, in ultima analisi, la fisionomia della società, le sue idee, concezioni, istituzioni politiche, ecc.?
Che cosa sono dunque le «condizioni della vita materiale della società»? Quali ne sono le caratteristiche?
Senza dubbio, il concetto di «condizioni della vita materiale della società» comprende innanzi tutto la natura che circonda la società, l'ambiente geografico che è una delle condizioni necessarie e permanenti della vita materiale della società e che, evidentemente, influisce sullo sviluppo della società. Quale funzione ha l'ambiente geografico nello sviluppo della società? Non sarebbe esso la forza principale che determina la fisionomia della società, il carattere del regime sociale degli uomini, il passaggio da un regime all'altro?
A questa domanda, il materialismo storico risponde negativamente.
L'ambiente geografico è, incontestabilmente, una delle condizioni permanenti e necessarie dello sviluppo della società ed è superfluo dimostrare che influisce su questo sviluppo, accelerandone o rallentandone il corso. Ma la sua influenza non è un'influenza determinante , poiché i cambiamenti e lo sviluppo della società sono di gran lunga più rapidi che i cambiamenti e lo sviluppo dell'ambiente geografico. In tremila anni, sono potuti tramontare, l'uno dopo l'altro, in Europa, tre regimi sociali differenti: la comunità primitiva, il regime schiavistico, il regime feudale; e nell'Europa orientale, sul territorio dell'U.R.S.S., ne sono tramontati persino quattro. Ebbene, nello stesso periodo, le condizioni geografiche nell'Europa, o non sono cambiate per niente, o sono cambiate così poco che i geografi non ne parlano neppure. Ciò si comprende agevolmente. Perché cambiamenti di una certa importanza si verifichino nell'ambiente geografico, sono necessari dei milioni di anni, mentre per i mutamenti, sia pure più importanti, del regime sociale degli uomini bastano soltanto alcune centinaia o un paio di migliaia di anni.
Dunque, l'ambiente geografico non può essere la causa principale, la causa determinante dello sviluppo sociale, poiché ciò rimane quasi immutato, durante decine di migliaia di anni, non può essere la causa principale dello sviluppo di ciò che è soggetto a cambiamenti radicali nel corso di alcune centinaia di anni.
Senza dubbio, anche l'aumento e la densità della popolazione devono essere comprese nel concetto di «condizioni della vita materiale della società», poiché gli uomini sono un elemento indispensabile delle condizioni della vita materiale della società e senza la presenza di un certo numero di uomini, non può esservi alcuna vita materiale della società. Sarebbe forse allora l'aumento della popolazione la forza principale che determina il carattere del regime sociale degli uomini?
Il materialismo storico risponde negativamente anche a questa domanda.
Certo, l'aumento della popolazione influisce sullo sviluppo della società, lo affretta o lo rallenta, ma non può esserne la forza principale, e la sua influenza sullo sviluppo sociale non può esserne l'influenza determinante , poiché l'aumento della popolazione, per se stesso, non ci dà la chiave di questo problema: Perché, a un tale regime sociale, succede proprio tale nuovo regime sociale e non un altro? Perché alla comunità primitiva succede proprio il regime schiavistico? Perché al regime schiavistico il regime feudale? Perché al regime feudale il regime borghese e non qualche altro regime?
Se l'aumento della popolazione fosse la forza determinante dello sviluppo sociale, una maggior densità di popolazione dovrebbe necessariamente generare un tipo superiore di regime sociale. Ma, in realtà, le cose non stanno così. La popolazione in Cina è quattro volte più densa che negli Stati Uniti d'America, eppure gli Stati Uniti d'America si trovano a un livello di sviluppo sociale più elevato che la Cina, poiché ivi continua a dominare un regime semifeudale, mentre negli Stati Uniti di America è già stato raggiunto da molto tempo il più alto stadio di sviluppo del capitalismo. La popolazione del Belgio è 19 volte più densa che negli Stati Uniti d'America e 26 volte più che nell'U.R.S.S., eppure gli Stati Uniti d'America sono a un livello di sviluppo sociale più elevato che il Belgio; e rispetto poi all'U.R.S.S., il Belgio è in ritardo di un'intera epoca storica, perché vi domina il regime capitalistico, mentre I'U.R.S.S. ha già debellato il capitalismo e instaurato il regime socialista.
Dunque, l'aumento della popolazione non è e non può essere la forza principale nello sviluppo della società, la forza che determina il carattere del regime sociale, la fisionomia della società.
Ma, allora, qual è dunque, nel sistema delle condizioni della vita materiale della società, la forza principale che determina la fisionomia della società, il carattere del regime sociale, lo sviluppo della società da un regime all'altro?
Il materialismo storico considera che questa forza è costituita dal modo con cui si ottengono i mezzi di sussistenza, necessari per la vita degli uomini, dal modo di produzione dei beni materiali - alimenti, indumenti, scarpe, abitazioni, combustibili, strumenti di produzione, ecc. - necessari perché la società possa vivere e svilupparsi.
Per vivere, bisogna disporre di alimenti, indumenti, scarpe, abitazioni, combustibili, ecc.; per avere questi beni materiali, è necessario produrli, e, per produrli, è necessario avere gli strumenti di produzione con cui gli uomini producono gli alimenti, gli indumenti, le scarpe, le abitazioni, il combustibile, ecc., è necessario saper produrre questi strumenti, è necessario sapersene servire.
Gli strumenti di produzione mercé i quali si producono i beni materiali, gli uomini che maneggiano questi strumenti di produzione e producono i beni materiali, grazie ad una certa esperienza della produzione e a delle abitudini di lavoro : ecco gli elementi che presi tutti insieme costituiscono le forze produttive della società.
Ma le forze produttive costituiscono solo un aspetto della produzione, un aspetto del modo di produzione, quell'aspetto che esprime l'atteggiamento degli uomini verso gli oggetti e le forze della natura di cui si servono per produrre i beni materiali. L'altro aspetto della produzione, l'altro aspetto del modo di produzione è costituito dai rapporti reciproci degli uomini nel processo della produzione, dai rapporti di produzione tra gli uomini. Nella loro lotta contro la natura, che sfruttano per produrre dei beni materiali, gli uomini non si trovano isolati gli uni dagli altri, non sono individui staccati gli uni dagli altri, ma producono in comune, a gruppi, in società. Ecco perché la produzione è sempre, in qualunque condizione, una produzione sociale . Nella produzione dei beni materiali, gli uomini stabiliscono tra di loro questi o quei rapporti reciproci nell'interno della produzione, stabiliscono questi o quei rapporti di produzione. Questi rapporti possono essere rapporti di collaborazione e di aiuto reciproco tra uomini liberi da ogni sfruttamento; possono essere rapporti di dominazione e di sottomissione; possono essere, infine, rapporti di transizione da una forma di rapporti di produzione ad un'altra. Qualunque sia però il loro carattere, i rapporti di produzione costituiscono – sempre ed in tutti i regimi - un elemento indispensabile della produzione, quanto le forze produttive della società.
 
Nella produzione, - dice Marx - gli uomini non agiscono soltanto sulla natura, ma anche gli uni sugli altri. Essi producono soltanto in quanto collaborano in un determinato modo e scambiano reciprocamente la propria attività. Per produrre, essi entrano gli uni con gli altri in determinati legami e rapporti, e la loro azione sulla natura, la produzione, ha luogo soltanto nei quadri di questi legami e rapporti sociali. (C. Marx, «Lavoro salariato e capitale», pag. 28, Edizioni di Cultura Sociale, Bruxelles 1932, ed. italiana).
 
Dunque, la produzione, il modo di produzione, abbraccia tanto le forze produttive della società, quanto i rapporti di produzione fra gli uomini ed incarna così la loro unione nel processo di produzione dei beni materiali.
Una delle particolarità della produzione è che la produzione non si arresta mai per un lungo periodo, a un dato punto, ma è in continuo mutamento e sviluppo; il cambiamento del modo di produzione provoca inevitabilmente il mutamento di tutto il regime sociale, delle idee sociali, delle concezioni e istituzioni politiche; provoca la ricostruzione di tutto il sistema sociale e politico. Nei diversi gradi dello sviluppo sociale, gli uomini si servono di differenti modi di produzione, ossia per parlare più semplicemente, gli uomini hanno un diverso modo di vita. Nella comunità primitiva esiste un modo di produzione; sotto la schiavitù ne esiste un altro; sotto il feudalismo un terzo, e via seguitando. Il regime sociale degli uomini, la loro vita spirituale, le loro concezioni, le loro istituzioni politiche differiscono a seconda dei loro modi di produzione.
Quale il modo di produzione della società, tale sostanzialmente è la società stessa, tali le sue idee e teorie, le sue concezioni e istituzioni politiche.
Ossia, più semplicemente: quale il modo di vita degli uomini, tale è il modo di pensare.
Ecco perché la storia dello sviluppo della società è, innanzi tutto, la storia dello sviluppo della produzione, la storia dei modi di produzione, che si susseguono nel corso dei secoli, la storia dello sviluppo delle forze produttive e dei rapporti di produzione tra gli uomini.
Ecco perché la storia dello sviluppo sociale è, nello stesso tempo, la storia dei produttori dei beni materiali, la storia delle masse lavoratrici, che sono le forze fondamentali del processo di produzione e producono i beni materiali, necessari all'esistenza della società.
Ecco perché la scienza storica, se vuol essere una scienza vera, non può più ridurre la storia dello sviluppo sociale alle gesta dei re o dei condottieri, alle gesta dei «conquistatori» e degli «assoggettatori» di Stati, ma deve innanzi tutto, essere la storia dei produttori dei beni materiali, la storia delle masse lavoratrici, la storia dei popoli.
Ecco perché la chiave che permette di scoprire le leggi della storia sociale bisogna cercarla, non nel cervello degli uomini, e neppure nelle concezioni e nelle idee della società, ma nel modo di produzione praticato dalla società in ogni dato periodo storico: nell'economia della società.
Ecco perché il compito primordiale della scienza storica è quello di studiare e scoprire le leggi della produzione, le leggi secondo le quali si sviluppano le forze produttive e i rapporti di produzione, le leggi dello sviluppo economico della società.
Ecco perché il partito del proletariato, se vuol essere un vero partito, deve conquistare, innanzi tutto, la conoscenza delle leggi dello sviluppo della produzione, la conoscenza delle leggi dello sviluppo economico della società.
Ecco perché, per non sbagliarsi in politica, il partito del proletariato, tanto nello stabilire il suo programma, quanto nella sua attività pratica, deve ispirarsi innanzi tutto alle leggi dello sviluppo della produzione, alle leggi dello sviluppo economico della società.
La seconda particolarità della produzione è data dal fatto che i suoi cambiamenti e il suo sviluppo cominciano sempre col cambiamento e lo sviluppo delle forze produttive, e, innanzi tutto, degli strumenti di produzione. Le forze produttive sono, di conseguenza, l'elemento più mobile e più rivoluzionario della produzione. Dapprima si modificano e si sviluppano le forze produttive della società, e poi, in funzione e conformemente a tali cambiamenti, si modificano i rapporti di produzione tra gli uomini, i loro rapporti economici. Da ciò non deriva, tuttavia, che i rapporti di produzione non influiscano sullo sviluppo delle forze produttive e che queste ultime non dipendano dai primi. Sviluppandosi in funzione dello sviluppo delle forze produttive, i rapporti di produzione agiscono, a loro volta, sullo sviluppo delle forze produttive stesse, affrettandolo o rallentandolo. È necessario, inoltre, osservare che i rapporti di produzione non possono troppo a lungo ritardare sull'aumento delle forze produttive, e trovarsi in contraddizione con tale aumento; poiché le forze produttive possono svilupparsi pienamente solo nel caso in cui i rapporti di produzione corrispondano al carattere, allo stato delle forze produttive e ne permettano il libero sviluppo. Perciò, qualunque sia il ritardo dei rapporti di produzione sullo sviluppo delle forze produttive, i rapporti di produzione devono, presto o tardi, ed è ciò che essi fanno effettivamente, finire col corrispondere al livello di sviluppo delle forze produttive, al carattere delle forze produttive. Qualora ciò non avvenisse, l'unità delle forze produttive e dei rapporti di produzione, nel sistema della produzione, verrebbe radicalmente compromessa, si verificherebbe una rottura nell'insieme della produzione, una crisi della produzione, la distruzione delle forze produttive.
Un esempio del disaccordo tra i rapporti di produzione e il carattere delle forze produttive, un esempio del loro conflitto ci è offerto dalle crisi economiche nei paesi capitalistici, dove la proprietà capitalistica privata dei mezzi di produzione è in flagrante contraddizione col carattere sociale del processo di produzione, col carattere delle forze produttive. Il risultato di questo disaccordo, sono le crisi economiche che portano alla distruzione delle forze produttive; anzi, questo stesso disaccordo è la base economica della rivoluzione sociale, destinata a distruggere i rapporti attuali di produzione e a crearne dei nuovi, conformi al carattere delle forze produttive.
Invece, l'economia nazionale socialista nell'U.R.S.S., dove la proprietà sociale dei mezzi di produzione è in pieno accordo con il carattere sociale del processo di produzione, e dove, perciò, non esistono crisi economiche, né si distruggono forze produttive, è un esempio di pieno accordo tra i rapporti di produzione e il carattere delle forze produttive.
Le forze produttive, quindi, non sono solamente l'elemento più mobile e più rivoluzionario della produzione, ma sono anche l'elemento che determina lo sviluppo della produzione.
Quali sono le forze produttive, tali devono essere i rapporti di produzione.
Se lo stato delle forze produttive indica con quali strumenti di produzione gli uomini producono i beni materiali che sono loro necessari, lo stato dei rapporti di produzione indica, a sua volta, in possesso di chi si trovano i mezzi di produzione (terre, foreste, acque, sottosuolo, materie prime, mezzi di produzione, edifici, mezzi di trasporto e di comunicazione, ecc.), indica a disposizione di chi si trovano i mezzi di produzione: se a disposizione di tutta la società, oppure se a disposizione di singoli individui, di gruppi, di classi che li utilizzano per lo sfruttamento di altri individui, gruppi o classi.
Ecco il quadro schematico dello sviluppo delle forze produttive, dai tempi più remoti ai nostri giorni: passaggio dai grossolani utensili di pietra all'arco e alle frecce, e, quindi, passaggio dal modo di vita fondato sulla caccia, all'addomesticamento ed allevamento primitivo del bestiame; passaggio dagli utensili di pietra a quelli metallici (ascia di ferro, aratro con il vomero di ferro, ecc.) e, quindi, passaggio alla coltivazione delle piante, all'agricoltura; nuovo perfezionamento degli utensili metallici per la lavorazione dei materiali, passaggio al mantice, alla produzione delle terre cotte e, quindi, sviluppo dei mestieri, separazione dei mestieri dall'agricoltura, sviluppo indipendente dei mestieri e poi della produzione manifatturiera; passaggio dagli strumenti della produzione artigiana alle macchine e trasformazione della produzione artigiana-manifatturiera in industria meccanizzata; passaggio al sistema delle macchine e sorgere della grande industria meccanizzata moderna - tale è il quadro generale, ben lungi dall'essere completo, dello sviluppo delle forze produttive della società, durante la storia dell'Umanità. È quindi comprensibile che lo sviluppo e il perfezionamento degli strumenti di produzione siano compiuti da uomini che hanno legami con la produzione e non indipendentemente dagli uomini. Quindi, nello stesso tempo in cui cambiano e si sviluppano gli strumenti di produzione cambiano e si sviluppano pure gli uomini - elemento essenziale delle forze produttive: cambiano e si sviluppano la loro esperienza nella produzione, le loro abitudini di lavoro, la loro capacità a adoprare gli strumenti di produzione.
È in accordo con questi cambiamenti e questo sviluppo delle forze produttive della società che, nel corso della storia, sono cambiati e si sono sviluppati i rapporti di produzione tra gli uomini, i loro rapporti economici.
La storia conosce cinque tipi fondamentali di rapporti di produzione: la comunità primitiva, la schiavitù, il regime feudale, il regime capitalistico e il regime socialista.
Nel regime della comunità primitiva, la proprietà collettiva dei mezzi di produzione costituisce la base dei rapporti di produzione. Ciò corrisponde, essenzialmente, al carattere delle forze produttive in quel periodo. Con gli utensili di pietra, e così pure con l'arco e le frecce - apparsi più tardi - gli uomini non potevano lottare isolati contro le forze della natura e contro le belve. Per raccogliere i frutti nelle foreste, per pescare, per costruire un'abitazione qualsiasi, gli uomini dovevano lavorare in comune, se non volevano morir di fame o diventare la preda delle bestie feroci o cadere in mano alle comunità vicine. Il lavoro collettivo esigeva la proprietà collettiva, sia dei mezzi di produzione, sia dei prodotti. Non si aveva ancora la nozione della proprietà privata dei mezzi di produzione, salvo la proprietà personale di alcuni strumenti di produzione, che erano in pari tempo delle armi di difesa contro gli animali feroci. Non esistevano né lo sfruttamento, né le classi.
Sotto il regime della schiavitù, la base dei rapporti di produzione è costituita dalla proprietà del padrone di schiavi sui mezzi di produzione ed anche sul produttore, Io schiavo, che egli può vendere, comprare, uccidere come bestiame. Tali rapporti di produzione corrispondono, essenzialmente, allo stato delle forze produttive del tempo. Invece degli utensili di pietra, gli uomini dispongono ora di strumenti metallici; invece di una economia misera e primitiva, fondata sulla caccia e che ignora tanto l'allevamento del bestiame, quanto la coltivazione della terra, sorgono l'allevamento del bestiame, l'agricoltura, i mestieri, la divisione del lavoro tra questi diversi rami di produzione; diventa possibile lo scambio dei prodotti tra gli individui e i gruppi; diventa possibile l'accumulazione di ricchezza nelle mani di pochi uomini, l'accumulazione reale dei mezzi di produzione da parte di una minoranza; diventa possibile per la minoranza di sottomettere e di trasformare la maggioranza degli uomini in una massa di schiavi. Non esiste più il lavoro comune e libero di tutti i membri della società, nel processo della produzione, ma domina il lavoro forzato degli schiavi, sfruttati da padroni oziosi. Non esiste quindi più una proprietà comune tanto dei mezzi di produzione che dei prodotti. Essa è sostituita dalla proprietà privata. Il padrone di schiavi è il primo e principale proprietario, il proprietario assoluto.
Dei ricchi e dei poveri, degli sfruttatori e degli sfruttati, degli uomini che hanno tutti i diritti e degli uomini che non ne hanno alcuno, un'aspra lotta di classe tra gli uni e gli altri: questo è il quadro del regime schiavistico.
Sotto il regime feudale, la base dei rapporti di produzione è costituita dalla proprietà del signore feudale sui mezzi di produzione e dalla sua proprietà limitata sul lavoratore, sul servo, che il feudatario non può più uccidere, ma può vendere e comprare. Accanto alla proprietà feudale, coesiste la proprietà individuale del contadino e dell'artigiano sugli strumenti di produzione e sulla propria economia privata, basata sul lavoro personale. Tali rapporti di produzione corrispondono essenzialmente allo stato delle forze produttive in quel periodo. L'ulteriore perfezionamento della fusione e della lavorazione del ferro, la diffusione generalizzata dell'aratro di ferro e del telaio, lo sviluppo ulteriore dell'agricoltura, dell'orticoltura, dell'industria vinicola, della fabbricazione del burro, il sorgere delle manifatture accanto alle botteghe artigiane: queste sono le caratteristiche dello stato delle forze produttive.
Le nuove forze produttive esigono che il lavoratore abbia una certa iniziativa nella produzione, che sia propenso ed interessato al lavoro. Per questa ragione, rinunciando allo schiavo che non ha alcun interesse al lavoro e non ha alcuna iniziativa, il signore feudale preferisce aver a che fare con un servo che possegga un'azienda propria, i propri strumenti di lavoro, e abbia qualche interesse per il lavoro, interesse indispensabile perché coltivi la terra e gli paghi sul proprio raccolto il tributo in natura.
La proprietà privata, in questo periodo, continua a svilupparsi. Lo sfruttamento è quasi altrettanto duro quanto in regime schiavistico; si è solo appena mitigato. La lotta di classe tra gli sfruttatori e gli sfruttati è la caratteristica fondamentale del regime feudale.
Sotto il regime capitalistico, la base dei rapporti di produzione è costituita dalla proprietà capitalistica sui mezzi di produzione: non esiste più la proprietà sui produttori, gli operai salariati; il capitalista non può né ucciderli, né venderli, poiché sono liberi da ogni dipendenza personale. Ma i produttori sono privi dei mezzi di produzione e, per non morire di fame, sono costretti a vendere la loro forza-lavoro al capitalista, a subire il giogo dello sfruttamento. Accanto alla proprietà capitalistica dei mezzi di produzione, esiste la proprietà privata dei contadini ed artigiani, liberati dalla servitù della gleba. Questa proprietà privata dei mezzi di produzione, fondata sul lavoro personale, era largamente diffusa nei primi tempi. Le botteghe artigiane e le manifatture sono state sostituite da immense fabbriche ed officine, fornite di macchine. I domìni dei nobili, già coltivati con gli strumenti primitivi dei contadini, sono stati sostituiti da grandi aziende capitalistiche, gestite coi criteri della scienza agronomica e munite di macchine agricole.
Le nuove forze produttive esigono dei lavoratori più progrediti e più intelligenti dei servi ignoranti e abbrutiti, esigono dei lavoratori che conoscano la macchina e sappiano maneggiarla nel modo dovuto. Ecco perché i capitalisti preferiscono aver a che fare con gli operai salariati, liberi da vincoli servili, e abbastanza progrediti per adoprare le macchine con la perizia necessaria.
Ma, avendo sviluppato le forze produttive in proporzioni gigantesche, il capitalismo è caduto in un groviglio di contraddizioni che non può risolvere. Producendo delle quantità sempre maggiori di merci e diminuendone i prezzi, il capitalismo aggrava la concorrenza, rovina le masse dei piccoli e medi proprietari privati, li converte in proletari, e ne diminuisce la capacità d'acquisto; e il risultato è che lo smercio dei prodotti diventa impossibile. Ma, allargando la produzione e raggruppando in immense fabbriche ed officine milioni di operai, il capitalismo imprime al processo di produzione un carattere sociale e mina, per questo fatto stesso, la propria base. Il carattere sociale del processo di produzione esige infatti la proprietà sociale dei mezzi di produzione, mentre la proprietà dei mezzi di produzione rimane una proprietà privata capitalistica, incompatibile col carattere sociale del processo della produzione.
Queste contraddizioni insolubili tra il carattere delle forze produttive e i rapporti di produzione si manifestano nelle crisi periodiche di sovrapproduzione, quando i capitalisti, non trovando compratori solvibili, proprio a causa della rovina delle masse della quale sono i responsabili, sono costretti a bruciare le derrate, a distruggere le merci, ad arrestare la produzione, a distruggere le forze produttive, mentre milioni di uomini sono costretti alla disoccupazione, ed alla fame, non perché manchino le merci, ma perché troppe ne sono state prodotte.
Ciò significa che i rapporti capitalistici di produzione non corrispondono più allo stato delle forze produttive della società e sono entrati con esse in contraddizione irriconciliabile.
Ciò significa che la società capitalistica è alla vigilia di una rivoluzione destinata a sostituire l'attuale proprietà capitalistica dei mezzi di produzione con la proprietà socialista.
Ciò significa che un'acutissima lotta di classe tra gli sfruttati e gli sfruttatori è la caratteristica essenziale del regime capitalistico.
Nel regime socialista, che, per il momento, esiste solo nell'U.R.S.S., la proprietà sociale dei mezzi di produzione costituisce la base dei rapporti di produzione. Qui, non esistono più né sfruttatori né sfruttati. I prodotti sono ripartiti secondo il lavoro compiuto e secondo il principio: «Chi non lavora, non mangia». I rapporti tra gli uomini, nel processo di produzione, sono rapporti di collaborazione fraterna e di mutuo aiuto socialista tra lavoratori liberi dallo sfruttamento. Qui i rapporti di produzione corrispondono pienamente allo stato delle forze produttive, poiché il carattere sociale del processo di produzione è rafforzato dalla proprietà sociale sui mezzi di produzione.
Perciò, la produzione socialista nell'U.R.S.S. ignora le crisi periodiche di sovraproduzione e tutte le assurdità che le accompagnano.
Perciò, le forze produttive si sviluppano nell'U.R.S.S. con un ritmo accelerato, dato che i rapporti di produzione che sono loro conformi ne agevolano lo sviluppo.
Questo è il quadro dello sviluppo dei rapporti di produzione tra gli uomini, nel corso della storia dell'umanità.
Questa è la dipendenza dello sviluppo dei rapporti di produzione dallo sviluppo delle forze produttive della società, e innanzi tutto dallo sviluppo degli strumenti di produzione, ed è per questa dipendenza che i cambiamenti e lo sviluppo delle forze produttive portano, presto o tardi, a un cambiamento e a uno sviluppo corrispondente dei rapporti di produzione.
 
L'impiego e la creazione dei mezzi di lavoro, - dice Marx - benché si trovino in germe presso qualche specie animale, caratterizzano eminentemente il lavoro umano. Gli è perciò che Franklin definisce l'uomo a toolmaking animal , un'animale fabbricatore di strumenti. Gli avanzi degli antichi mezzi di lavoro hanno, per lo studio delle forme economiche delle società scomparse, la stessa importanza che la struttura delle ossa fossili ha per la cognizione degli organismi delle razze estinte. Le epoche economiche si distinguono non da ciò che vi si produce, ma dal modo come vi si produce... I mezzi di lavoro sono i gradimetri dello sviluppo del lavoratore, e gli indici dei rapporti sociali nei quali egli lavora. (C. Marx, «Il Capitale», vol. I, pagg. 195-196, ed. francese, Bureau d'Éditions, Parigi 1938).
 
E ancora:
 
a) I rapporti sociali sono intimamente legati alle forze produttive. Acquisendo nuove forze produttive, gli uomini cambiano il loro modo di produzione, e cambiando il modo di produzione, il modo con cui si guadagnano da vivere, cambiano tutti i loro rapporti sociali. Il mulino a vento vi darà la società con il signore feudale, il mulino a vapore la società con il capitalista industriale. (C. Marx, «La miseria della filosofia», Risposta alla «Filosofia della Miseria». di Proudhon, pag. 99, Bureau d'Éditions, Parigi 1937).
b) Vi è un movimento continuo di aumento nelle forze produttive, di distruzione nei rapporti sociali, di formazione nelle idee; immobile è solo l'astrazione del movimento. (Ibidem , pag. 99).
 
Nella prefazione al «Manifesto del Partito comunista» Engels dà la seguente definizione del materialismo storico:
 
… la produzione economica e la struttura sociale che necessariamente ne deriva formano, in qualunque epoca storica, la base della storia politica e intellettuale dell'epoca stessa... Conforme a ciò (dopo il dissolversi della primitiva proprietà comune del suolo), tutta la storia è stata una storia di lotte di classe, di lotte tra le classi sfruttate e le classi sfruttatrici, tra classi dominate e classi dominanti, nelle varie tappe dello sviluppo sociale... Questa lotta ha ora raggiunto un grado in cui la classe sfruttata ed oppressa (il proletariato), non può più liberarsi dalla classe che la sfrutta e la opprime (la borghesia), senza liberare anche ad un tempo, e per sempre, tutta la società dallo sfruttamento, dall'oppressione e dalle lotte di classe... (Engels, Prefazione all'edizione tedesca (1883) del «Manifesto del Partito comunista», pagina 10, Edizioni Italiane di Coltura Sociale, Parigi).
La terza particolarità della produzione sta in ciò che le nuove forze produttive e i rapporti di produzione corrispondenti non sorgono al di fuori del vecchio regime, dopo la sua scomparsa, ma sorgono nel seno stesso del vecchio regime; non sono il risultato di una azione premeditata e cosciente degli uomini, ma sorgono spontaneamente, indipendentemente dalla coscienza e dalla volontà degli uomini. E ciò per due ragioni:
In primo luogo, perché gli uomini non sono liberi nella scelta di questo o quel modo di produzione; ogni nuova generazione, sorgendo alla vita, trova già pronte delle forze produttive e dei rapporti di produzione che sono il risultato del lavoro degli avi; e, quindi, ogni nuova generazione è obbligata, in un primo tempo, ad accettare tutto ciò che è già pronto nel dominio della produzione e a adattarvisi per poter produrre dei beni materiali.
In secondo luogo, perché gli uomini, perfezionando questo o quello strumento di produzione, questo o quell'elemento delle forze produttive, non hanno coscienza dei risultati sociali a cui quei perfezionamenti debbono portare; essi non comprendono queste cose e non ci pensano neppure; pensano solo ai loro interessi quotidiani; pensano solo a rendere più facile il loro lavoro e ad ottenerne un vantaggio immediato e tangibile.
Quando alcuni membri di una comunità primitiva incominciarono, a poco a poco, e come a tastoni, a passare dagli utensili di pietra agli utensili di ferro, certamente ignoravano i risultati sociali cui avrebbe portato quella innovazione; non ci pensavano; non ne avevano coscienza; non comprendevano che il passaggio agli strumenti metallici significava una rivoluzione nella produzione, che doveva portare, infine, al regime schiavistico; volevano soltanto rendere più facile il loro lavoro ed ottenere un vantaggio immediato e tangibile; la loro attività cosciente si limitava al quadro ristretto di questo vantaggio personale, quotidiano.
Quando, durante il regime feudale, la giovane borghesia europea cominciò a costruire, accanto alle piccole botteghe artigiane, grandi manifatture, facendo in tal modo progredire le forze produttive della società, essa certamente ignorava quali conseguenze sociali doveva portare quell'innovazione. La giovane borghesia d'Europa non ci pensava; non ne aveva coscienza; essa non comprendeva che quella «piccola» innovazione portava di necessità a un raggruppamento di forze sociali, che doveva concludersi con la rivoluzione contro il potere monarchico, di cui essa tanto apprezzava la benignità, e contro la nobiltà nelle cui file sognavano spesso di entrare i suoi migliori rappresentanti. Essa voleva soltanto ridurre il costo di produzione delle merci, gettare una maggior quantità di prodotti sui mercati dell'Asia e dell'America, solo allora scoperta, e trarne maggiori profitti; la sua attività cosciente si confinava nel quadro angusto di questi interessi pratici, quotidiani.
Quando i capitalisti russi, insieme con i capitalisti stranieri, impiantavano attivamente in Russia la grande industria meccanizzata moderna, senza toccare lo zarismo e gettando i contadini in pasto ai proprietari fondiari, essi, certo, ignoravano quali conseguenze sociali doveva recare quel poderoso aumento delle forze produttive. I capitalisti russi non ci pensavano neppure; non ne avevano coscienza; essi non comprendevano che quel grande balzo delle forze produttive della società doveva portare a un raggruppamento di forze sociali, che avrebbe permesso al proletariato di unire a sé i contadini e di fare trionfare la rivoluzione socialista. Essi volevano soltanto allargare al massimo grado la produzione industriale, impadronirsi d'un mercato interno immenso, monopolizzare la produzione e trarre dall'economia nazionale i massimi profitti possibili; la loro attività cosciente non superava la cerchia dei loro interessi quotidiani, puramente pratici.
Marx, in proposito, scrive:
 
Nella produzione sociale della loro esistenza [ossia nella produzione dei beni materiali necessari alla vita degli uomini], gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, - in rapporti di produzione che corrispondono a un grado determinato di sviluppo delle loro forze produttive materiali. (C. Marx, «Per la critica dell'economia politica», «Opere scelte», vol. I, pag. 359, ed. tedesca, Mosca 1934).
 
Ciò non vuol dire tuttavia che i cambiamenti nei rapporti di produzione e il passaggio dai vecchi rapporti di produzione ai nuovi avvengano pacificamente, senza conflitti, senza scosse. Al contrario, un tale passaggio avviene abitualmente mediante l'abbattimento rivoluzionario dei vecchi rapporti di produzione e l'instaurazione dei rapporti nuovi. Fino a un certo momento, lo sviluppo delle forze produttive e i cambiamenti nel dominio dei rapporti di produzione si effettuano spontaneamente, indipendentemente dalla volontà degli uomini. Ma ciò solo fino a un dato momento, fino al momento in cui le forze produttive che sono già sorte e continuano a svilupparsi, siano sufficientemente mature. Quando le nuove forze produttive siano giunte a maturazione, i rapporti di produzione esistenti e le classi dominanti che li personificano si trasformano in una barriera «insormontabile» che può essere tolta di mezzo solo dall'attività cosciente delle nuove classi, dalle azioni violente di queste classi, dalla rivoluzione. Appare allora in modo chiarissimo la funzione immensa delle nuove idee sociali, delle nuove istituzioni politiche, del nuovo potere politico, chiamati a sopprimere con la forza i vecchi rapporti di produzione. Il conflitto tra le nuove forze produttive e i vecchi rapporti di produzione, le nuove esigenze economiche della società, fanno sorgere nuove idee sociali; queste nuove idee organizzano e mobilitano le masse; le masse si raggruppano in un nuovo esercito politico, creano un nuovo potere rivoluzionario e se ne servono per sopprimere con la forza il vecchio ordine nel dominio dei rapporti di produzione e per instaurarvi l'ordine nuovo. Il processo spontaneo di sviluppo cede il posto all'attività cosciente degli uomini, lo sviluppo pacifico a un rivolgimento violento, l'evoluzione alla rivoluzione.
 
...Il proletariato - dice Marx - nella lotta contro la borghesia si costituisce necessariamente in classe... e per mezzo della rivoluzione trasforma se stesso in classe dominante, e, come tale, distrugge violentemente i vecchi rapporti di produzione. (C. Marx F. Engels, «Manifesto del Partito comunista», pag. 45, Edizioni italiane di Cultura Sociale, Parigi).
 
E più avanti:
 
a) Il proletariato si servirà della sua supremazia politica per strappare alla borghesia, a poco a poco, tutto il capitale, per accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato, vale a dire del proletariato stesso, organizzato come classe dominante, e per aumentare, con la massima rapidità possibile, la massa delle forze produttive (Ibidem , pag. 44).
b) La violenza è la levatrice di ogni vecchia società, gravida di ogni società nuova. (C. Marx, «Il Capitale», vol. I, pag. 791, ed. tedesca, Mosca 1932).
 
Ecco come la sostanza del materialismo storico è stata genialmente esposta da Marx nei 1859, nella storica prefazione alla sua celebre opera «La critica dell'economia politica»:
 
Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà - in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L'insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una soprastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (il che è l'equivalente giuridico di tale espressione) dentro dei quali esse forze per l'innanzi s'erano mosse. Questi rapporti di forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un'epoca di rivoluzione sociale, con il cambiamento della base economica, si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca soprastruttura. Quando si studiano simili sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento materiale - che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali - delle condizioni economiche della produzione, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo. Come non si può giudicare un uomo dall'idea che egli ha di se stesso, così non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale, con il conflitto esistente tra le forze produttive della società e i rapporti di produzione. Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare libero corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza. Ecco perché l'Umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose dappresso, si vede che il problema sorge solo quando le condizioni materiali per la sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione. (C. Marx, «Per la critica dell'economia politica», «Opere scelte», vol. I, pagg. 359-360 ed. tedesca, Mosca 1934).
Ecco ciò che insegna il materialismo marxista, applicato alla vita sociale, alla storia della società.
Queste sono le caratteristiche essenziali del materialismo dialettico e storico.
Da quanto precede, si vede quale ricchezza teorica per il partito ha difeso Lenin dagli attacchi dei revisionisti e degli elementi degeneri, e quale grande importanza per lo sviluppo del nostro partito ha avuto la pubblicazione del suo libro «Materialismo e empiriocriticismo».
 


3. Bolscevichi e menscevichi negli anni della reazione di Stolypin. Lotta dei bolscevichi contro i liquidatori e gli «otzovisti».
Durante gli anni della reazione, fu molto più difficile lavorare nelle organizzazioni del partito che nel precedente periodo di ascesa della rivoluzione. Il partito aveva perduto moltissimi aderenti. Numerosi «compagni di strada» piccolo-borghesi, degli intellettuali soprattutto, ne disertavano le file, temendo le persecuzioni del governo zarista.
Lenin indicava: in tali momenti, i partiti rivoluzionari devono completare la loro educazione. Durante l'ascesa della rivoluzione, essi hanno imparato ad attaccare; nel periodo della reazione, essi devono imparare come effettuare una ritirata in buon ordine, come passare all'azione clandestina, come conservare e consolidare il partito illegale, come utilizzare le possibilità legali e tutte le organizzazioni legali, soprattutto quelle di massa, per rafforzare i loro legami con lo masse.
I menscevichi si ritiravano in preda al panico e non credevano che una nuova ascesa della rivoluzione fosse possibile; rinnegavano vergognosamente le rivendicazioni rivoluzionarie del programma e le parole d'ordine rivoluzionarie del partito; volevano liquidare, sopprimere il partito rivoluzionario illegale del proletariato. Ecco perché menscevichi di tal fatta furono chiamati liquidatori .
A differenza dei menscevichi, i bolscevichi erano convinti che, negli anni seguenti, il movimento rivoluzionario avrebbe ripreso la sua ascesa e che il partito doveva prepararvi le masse. I compiti fondamentali della rivoluzione non erano stati risolti. I contadini non avevano ottenuto la terra dei proprietari fondiari; gli operai non avevano ottenuto le 8 ore di lavoro; l'autocrazia zarista, esecrata dal popolo, non era stata rovesciata e aveva nuovamente soffocato le poche libertà politiche conquistate nel 1905 dal popolo. Perciò, persistevano per intero le cause che avevano generato la rivoluzione del 1905. Ecco perché i bolscevichi erano certi della nuova ascesa del movimento rivoluzionario e vi si preparavano, chiamando a raccolta le forze della classe operaia.
Questa certezza di una nuova ascesa rivoluzionaria i bolscevichi la traevano inoltre dal fatto che la rivoluzione del 1905 aveva insegnato alla classe operaia a conquistare i propri diritti con la lotta rivoluzionaria di massa. Negli anni della reazione, negli anni dell'offensiva capitalistica, gli operai non potevano aver dimenticato gli insegnamenti del 1905. Lenin si riferì a lettere di operai che, raccontando le rinnovate angherie e le prepotenze degli industriali, scrivevano: «Ci vuole sangue freddo; un altro 1905 scoppierà!».
L'obiettivo politico fondamentale dei bolscevichi era quello stesso del 1905: rovesciare lo zarismo, portare a compimento la rivoluzione democratico-borghese, passare alla rivoluzione socialista. I bolscevichi non dimenticavano, neppure per un istante, questo loro obiettivo e continuavano a porre di fronte alle masse le parole d'ordine rivoluzionarie fondamentali: repubblica democratica, confisca delle terre dei grandi proprietari fondiari, giornata di 8 ore.
Ma la tattica del partito non poteva rimanere quella stessa del periodo di ascesa rivoluzionaria del 1905. Non si poteva, ad esempio, a breve scadenza, chiamare le masse allo sciopero generale politico o all'insurrezione armata, perché il movimento rivoluzionario era in riflusso e la classe operaia era stanchissima, mentre le classi reazionarie si erano assai rafforzate. Il partito non poteva non tener conto della nuova situazione. Era necessario sostituire la tattica dell'attacco con una tattica difensiva, raccogliere le forze, passare i quadri nell'illegalità, organizzare l'azione clandestina del partito e combinare l'attività illegale con l'attività nelle organizzazioni operaie legali.
E i bolscevichi seppero assolvere questo compito.
 
Noi - scrisse Lenin - abbiamo saputo lavorare per lunghi anni prima della rivoluzione. Non per niente ci hanno chiamati uomini di granito. I socialdemocratici hanno costituito un partito proletario che non si perderà d'animo perché il primo attacco a mano armata è fallito, che non perderà la testa, che non si lascierà trascinare in avventure. (Lenin, «Opere», vol. XII, pag. 126 ed. russa).
 
I bolscevichi lottavano per conservare e rafforzare le organizzazioni illegali del partito. Ma, in pari tempo, ritenevano necessario utilizzare ogni possibilità legale, ogni pretesto legale, che permettesse di mantenere e conservare i legami con le masse e di rafforzare così il partito.
 
In quel periodo, il nostro partito operò una svolta, dalla lotta rivoluzionaria aperta contro lo zarismo ai metodi indiretti di lotta, all'utilizzazione di ogni e qualsiasi possibilità legale, dalle casse per le assicurazioni sociali alla tribuna della Duma. Periodo di ritirata, dopo che eravamo stati battuti nella rivoluzione del 1905. Questa svolta ci impegnava ad assimilare metodi di lotta nuovi, per poter ritornare - dopo aver raccolte le forze - alla lotta rivoluzionaria aperta contro lo zarismo. (Stalin, «Resoconto stenografico del XV Congresso», pagg. 366-367 ed. russa, 1935).
 
Le organizzazioni legali superstiti, in un certo modo, servivano da rifugio alle organizzazioni illegali del partito e come organi di collegamento con le masse. Per conservare i contatti con le masse, i bolscevichi utilizzarono i sindacati e le altre organizzazioni legali: le casse d'assicurazione-malattie, le cooperative operaie, i circoli, le società di cultura, le case del popolo. I bolscevichi utilizzarono la tribuna della Duma per denunciare la politica del governo zarista, per smascherare i cadetti, per far passare i contadini dalla parte del proletariato. Mantenendo in vita l'organizzazione illegale e dirigendo, grazie ad essa, ogni altra forma di attività politica, il partito garantiva l'applicazione della sua giusta linea politica e la preparazione delle forze per la nuova ascesa rivoluzionaria.
I bolscevichi applicavano la loro linea rivoluzionaria, lottando su due fronti , contro due generi di opportunismo nel partito: contro i liquidatori , avversari dichiarati del partito, e contro i cosiddetti otzovisti , nemici mascherati del partito.
Lenin, i bolscevichi avevano tenacemente lottato contro la corrente dei liquidatori, già fin dal sorgere di quella tendenza opportunistica. Lenin rilevava che il gruppo dei liquidatori era un'agenzia della borghesia liberale nel partito.
Nel dicembre del 1908, si tenne a Parigi la V Conferenza panrussa del P.O.S.D.R. Su proposta di Lenin, la conferenza condannò la corrente dei liquidatori, ossia i tentativi di alcuni intellettuali del partito (menscevichi) di «liquidare l'organizzazione esistente del P.O.S.D.R. e di sostituirla con un raggruppamento informe nel quadro della legalità a qualunque costo, anche a costo di una aperta rinuncia al programma, alla tattica e alle tradizioni del partito». («Il P.C. (b) dell'U.R.S.S. nelle sue risoluzioni», parte 1ª, pag. 128, ed. russa).
La conferenza chiamò tutte le organizzazioni del partito a una lotta risoluta contro i tentativi dei liquidatori.
Ma i menscevichi non si sottoposero alla decisione della conferenza e scivolarono sempre più sulla via della liquidazione, del tradimento, della rivoluzione e del ravvicinamento coi cadetti. I menscevichi abbandonavano in modo sempre più aperto il programma rivoluzionario del partito del proletariato, la parola d'ordine della repubblica democratica, della giornata di 8 ore, della confisca delle terre dei proprietari fondiari. Rinnegando il programma e la tattica del partito, speravano che il governo dello zar permettesse l'esistenza di un partito non clandestino, legale, di un partito sedicente «operaio».
I menscevichi erano pronti ad accettare il regime di Stolypin, ed adattarvisi. Ecco perché i liquidatori erano chiamati anche «il partito operaio di Stolypin».
Combattendo gli avversari dichiarati della rivoluzione, ossia i liquidatori che eran diretti da Dan, Axelrod, Potressov e aiutati da Martov, Trotzki e altri menscevichi, bolscevichi lottavano anche tenacemente contro i liquidatori camuffati, contro gli otzovisti che coprivano il loro opportunismo con una fraseologia di «sinistra». Si chiamavano otzovisti quegli ex bolscevichi che esigevano il richiamo dei deputati operai dalla Duma e, in generale, la rinuncia a qualsiasi attività nelle organizzazioni legali.
Nel 1908, una parte dei bolscevichi richiese che i deputati socialdemocratici fossero richiamati dalla Duma di Stato. Di qui il nome di «otzovisti» (dalla parola: otzovat , richiamare). Gli otzovisti avevano formato un gruppo particolare (Bogdanov, Lunaciarski, Alexinski, Pokrovski, Bubnov e altri) che impegnò la lotta contro Lenin e la linea leninista. Essi si rifiutavano recisamente di lavorare nei sindacati operai e nelle altre organizzazioni legali, recando in tal modo un grave danno alla causa operaia. Gli otzovisti cercavano di staccare il partito dalla classe operaia, di tagliarne i legami con le masse dei senza partito; volevano isolarsi nelle organizzazioni clandestine; nello stesso tempo mettevano il partito in pericolo, togliendogli la possibilità di utilizzare ogni copertura legale. Gli otzovisti non comprendevano che nella Duma e a mezzo di essa, i bolscevichi potevano esercitare un'influenza sui contadini, potevano smascherare la politica del governo zarista, la politica dei cadetti che cercavano, con l'inganno, di trascinare a rimorchio i contadini. Gli otzovisti ostacolavano la raccolta delle forze per la nuova ascesa rivoluzionaria. Perciò, erano dei «liquidatori a rovescio»; essi cercavano di liquidare la possibilità di utilizzazione delle organizzazioni legali, e, di fatto, rinunciavano alla direzione delle grandi masse senza partito da parte del proletariato, rinunciavano all'azione rivoluzionaria.
La riunione allargata della redazione del giornale bolscevico Proletari («Proletario»), tenutasi nel 1909 per giudicare la condotta degli otzovisti, li condannò. I bolscevichi dichiararono di non aver nulla in comune con gli otzovisti e li esclusero dall'organizzazione bolscevica.
I liquidatori e gli otzovisti non erano, in tutto e per tutto, che «compagni di strada» piccolo-borghesi del proletariato e del suo partito. In un momento difficile per il proletariato, i liquidatori e gli otzovisti avevano mostrato, in modo più che evidente, il loro vero volto.
 


4. Lotta dei bolscevichi contro il trotzkismo. Il blocco d'Agosto contro il partito.
Mentre i bolscevichi lottavano inflessibilmente su due fronti - contro i liquidatori e contro gli otzovisti - per sostenere la linea ferma e conseguente del partito proletario, Trotzki sosteneva i menscevichi-liquidatori. Fu proprio in quegli anni che Lenin lo chiamò «il piccolo Giuda-Trotzki». Trotzki aveva creato in Austria, a Vienna, un gruppo letterario e pubblicava un giornale «all'infuori delle frazioni», che, di fatto, era menscevico. Ecco cosa Lenin scriveva allora sul conto suo: «Trotzki ha agito come il più infame arrivista e frazionista... Fa molte chiacchiere sul partito, ma la sua condotta è peggiore di quella di tutti gli altri frazionisti».
In seguito, nel 1912, Trotzki fu l'organizzatore del blocco d'Agosto, ossia del blocco di tutti i gruppi e di tutte le tendenze antibolsceviche, contro Lenin, contro il partito bolscevico. In quel blocco ostile al bolscevismo, liquidatori e otzovisti si unirono, mostrando così la loro affinità. Trotzki e i trotzkisti assumevano, in tutte le questioni fondamentali, una posizione liquidatrice. Ma Trotzki dissimulava col centrismo la sua posizione di liquidatore, presentandosi sotto la maschera di conciliatore; egli pretendeva di trovarsi al di fuori tanto dei bolscevichi che dei menscevichi e pretendeva di volerli conciliare. Lenin diceva, in proposito, che Trotzki era più infame e più dannoso dei liquidatori dichiarati, perché ingannava gli operai, pretendendosi «all'infuori delle frazioni», mentre, in verità, appoggiava in tutto e per tutto i miscevichi-liquidatori. Il trotzkismo era il gruppo principale che voleva introdurre il centrismo nel partito.
 
Il centrismo - scrive il compagno Stalin - è una nozione politica. La sua ideologia è l'ideologia dell'adattamento, l'ideologia della sottomissione degli interessi del proletariato agli interessi della piccola borghesia, in seno ad un unico partito comune . Questa ideologia è estranea e contraria al leninismo. (Stalin, «Le questioni del leninismo», pag. 379, 9ª ed. russa).
 
In quel periodo Kamenev, Zinoviev, Rykov erano di fatto agenti camuffati di Trotzki, che aiutavano sovente nella sua lotta contro Lenin. Col concorso di Zinoviev, Kamenev, Rykov e altri alleati nascosti di Trotzki, fu convocata nel gennaio 1910, contro la volontà di Lenin , la sessione plenaria del Comitato Centrale. In quel tempo, la composizione del Comitato Centrale, in seguito all'arresto di parecchi bolscevichi, si era modificata e gli elementi oscillanti poterono far approvare varie decisioni antileniniste. Vi fu, così, deciso di far cessare le pubblicazioni del giornale bolscevico Proletari e di assegnare un aiuto finanziario al giornale Pravda , che Trotzki stampava a Vienna. Kamenev entrò nella redazione del giornale di Trotzki; d'accordo con Zinoviev, voleva farlo diventare l'organo del Comitato Centrale.
Soltanto per insistenza di Lenin, la sessione plenaria di gennaio del Comitato Centrale condannò la corrente dei liquidatori e I'otzovismo; ma, anche in questa circostanza, Zinoviev e Kamenev appoggiarono la proposta trotzkista di non designare i liquidatori con il loro vero nome.
Le conseguenze furono quelle che Lenin aveva previste e contro cui aveva messo in guardia: soltanto i bolscevichi si sottomisero alle decisioni della sessione plenaria del Comitato Centrale e soppressero il loro organo Proletari ; i menscevichi, invece, continuarono a pubblicare il loro Golos Sozial-demokrata [«La Voce del Socialdemocratico»], il giornale di frazione dei liquidatori.
La posizione di Lenin fu completamente appoggiata dal compagno Stalin che pubblicò nel N. 11 del Sozial-democrat un articolo apposito. In quell'articolo, egli condannava la condotta degli ausiliari del trotzkismo, ed affermava la necessità di eliminare la situazione anormale creatasi nella frazione bolscevica in seguito alla condotta di tradimento di Kamenev, Zinoviev e Rykov. L'articolo esponeva i compiti immediati, che furono realizzati più tardi dalla Conferenza del partito, a Praga: convocare una conferenza generale del partito, pubblicare un giornale legale del partito e creare un suo centro pratico illegale in Russia. L'articolo del compagno Stalin si ispirava alle decisioni del Comitato di Bakù che appoggiava pienamente Lenin.
In contrapposizione al blocco d'Agosto di Trotzki, diretto contro il partito, blocco che riuniva esclusivamente elementi ostili al partito, dai liquidatori e dai trotzkisti agli otzovisti e ai «costruttori di Dio», fu creato il blocco di coloro che volevano conservare e consolidare il partito illegale del proletariato. Vi entrarono i bolscevichi, con a capo Lenin, e un numero esiguo di menscevichi-partitisti , diretti da Plekhanov. Plekhanov e iI suo gruppo di menscevichi-partitisti , pur rimanendo in molte questioni sulle posizioni mensceviche, si staccarono decisamente dal blocco d'Agosto e dai liquidatori e cercarono di accordarsi con i bolscevichi. Lenin accettò la proposta di Plekhanov e fece un blocco temporaneo con lui, contro gli elementi ostili al partito, pensando che un blocco simile era vantaggioso per il partito e nefasto per i liquidatori.
Il compagno Stalin, che si trovava, in quel tempo, in deportazione, prestò pieno appoggio a quel blocco. In una lettera inviata a Lenin, il compagno Stalin scriveva:
 
A mio parere, la linea del blocco (Lenin-Plekhanov) è l'unica giusta: 1) essa, e soltanto essa, risponde ai veri interessi dell'azione in Russia, i quali esigono il raggruppamento di tutti gli elementi veramente fedeli al partito; 2) essa, e soltanto essa, affretta il processo di liberazione delle organizzazioni legali dal gioco dei liquidatori, scavando un abisso tra gli operai-meki [meki, abbreviazione di menscevichi] e i liquidatori, disperdendo e annientando questi ultimi. (Raccolta, «Lenin e Stalin», vol. I, pagg. 529-530, ed. russa).
 
Grazie alla intelligente coordinazione dell'attività illegale con quella legale, i bolscevichi riuscirono ad acquistare una forza considerevole nelle organizzazioni operaie legali. Ciò fu, del resto, attestato dalla grande influenza che esercitarono i bolscevichi sui gruppi operai di quattro congressi legali - i congressi delle università popolari delle donne, dei medici di fabbrica e d'officina, e del movimento antialcoolico - che si tennero in quel tempo. I discorsi dei bolscevichi, in quei congressi legali, ebbero una grande importanza politica e trovarono un'eco in tutto il paese. Prendendo la parola al congresso delle università popolari, la delegazione operaia bolscevica denunciò la politica dello zarismo che soffocava ogni attività culturale e dimostrò che, senza rovesciare lo zarismo, un vero sviluppo culturale nel paese non era pensabile. E al congresso dei medici la delegazione operaia denunciò le spaventose condizioni sanitarie in cui dovevano lavorare e vivere gli operai e concluse che, senza il rovesciamento del regime zarista non si potevano creare dei veri servizi sanitari nelle fabbriche.
I bolscevichi eliminarono gradualmente i liquidatori dalle varie organizzazioni legali superstiti. La tattica particolare del fronte unico col gruppo plekhanovista fedele al partito permise loro di conquistare diverse organizzazioni operaie mensceviche (nel rione di Vyborg, a Iekaterinoslav, ecc.).
In quel difficile periodo, i bolscevichi, con il loro lavoro, dettero l'esempio del come bisogna coordinare l'attività legale con quella illegale.
 


5. La conferenza del partito a Praga nel 1912. I bolscevichi si costituiscono in partito marxista indipendente.
La lotta contro i liquidatori e gli otzovisti, del pari che la lotta contro i trotzkisti, poneva ai bolscevichi un compito improrogabile: raggruppare insieme tutti i bolscevichi e formare un partito bolscevico indipendente: era questa un' imperiosa necessità, non solo per debellare le correnti opportunistiche nel partito che dividevano la classe operaia, ma anche per completare l'unione delle forze della classe operaia e prepararle in vista della nuova ascesa rivoluzionaria.
Ma per disimpegnare questo compito era indispensabile, innanzi tutto, sbarazzare il partito dagli opportunisti, dai menscevichi.
Tutti i bolscevichi si erano ormai convinti che la loro coesistenza coi menscevichi in un solo partito era divenuta inconcepibile. L'opera di tradimento dei menscevichi nel periodo della reazione di Stolypin, i loro tentativi di liquidare il partito del proletariato e di organizzare un nuovo partito, un partito riformista, rendevano inevitabile la rottura. Continuando a restare in un solo partito con i menscevichi, i bolscevichi assumevano, in un modo o nell'altro, la responsabilità morale della condotta dei menscevichi. Era ormai impossibile per i bolscevichi di assumersi la responsabilità morale dell'evidente tradimento menscevico, se non volevano essi stessi diventare dei traditori del partito e della classe operaia. L'unità con i menscevichi, nel quadro di un solo partito, stava degenerando, così, in tradimento verso la classe operaia e verso il suo partito. Era, dunque, necessario completare la rottura, di fatto, con i menscevichi, giungere alla rottura ufficiale organizzativa e cacciare i menscevichi dal partito.
Solo in questa maniera si poteva ricostruire il partito rivoluzionario del proletariato, con un unico programma, con un'unica tattica e un'unica organizzazione di classe.
Solo così si poteva ristabilire la vera (e non solo formale) unità del partito, distrutta dai menscevichi.
È questo compito che doveva assolvere la VI Conferenza generale del partito, preparata dai bolscevichi.
Ma questo compito non era che un aspetto del problema. La rottura ufficiale con i menscevichi e il raggruppamento dei bolscevichi in un partito distinto, costituivano, certo, un compito politico molto importante. Ma i bolscevichi ne avevano un altro ancor più importante. Non si trattava solo di rompere con i menscevichi e formare un partito distinto, ma, ciò che importa soprattutto dopo la rottura con i menscevichi, era la creazione di un nuovo partito, di un partito di nuovo tipo , diverso dai soliti partiti socialdemocratici dell'Occidente, libero da elementi opportunisti e capace di condurre il proletariato alla lotta per il potere.
Nella loro lotta contro i bolscevichi, tutti i menscevichi, di qualunque sfumatura, da Axelrod e Martynov a Martov e Trotzki, impugnavano immancabilmente le armi tolte dall'arsenale dei socialdemocratici dell'Europa occidentale. Costoro volevano avere in Russia un partito, come per esempio, il partito socialdemocratico tedesco o francese. Ed è proprio perché sentivano nei bolscevichi un non so che di nuovo, d'insolito, di diverso dai socialdemocratici dell'Occidente, che i menscevichi li combattevano. Che cosa erano dunque i partiti socialdemocratici dell'Occidente? Essi erano un miscuglio, un'accozzaglia di elementi marxisti e di elementi opportunisti, di amici e di avversari della rivoluzione, di fautori e di avversari dello spirito di partito: un miscuglio in cui, progressivamente, sull'arena ideologica, i primi transigevano con gli altri; nel quale i primi, progressivamente, si sottomettevano, di fatto, agli altri. Riconciliarsi con gli opportunisti? Con i traditori della rivoluzione? E in nome di che cosa? Domandavano i bolscevichi ai social-democratici dell'Europa occidentale. Nel nome della «pace nel partito», nel nome dell'«unità», si rispondeva ai bolscevichi. Ma con chi l'unità? Con gli opportunisti? Sì, rispondevano, con gli opportunisti. Era evidente che partiti di tal fatta non potevano essere partiti rivoluzionari!
I bolscevichi non potevano non vedere che i partiti social-democratici dell'Europa occidentale, dopo la morte di Engels, avevano cominciato a degenerare da partiti di rivoluzione sociale in partiti di «riforme sociali» e che ciascuno di essi, in quanto organizzazione, si era già trasformato, da forza dirigente, in appendice del proprio gruppo parlamentare.
I bolscevichi non potevano ignorare che un partito di tal genere avrebbe gravemente danneggiato il proletariato e non sarebbe stato capace di guidare la classe operaia alla rivoluzione.
I bolscevichi non potevano ignorare che al proletariato occorreva un partito non di quel tipo, ma un altro partito, un partito nuovo, un vero partito marxista che si mostrasse irreconciliabile nel riguardi degli opportunisti e rivoluzionario rispetto alla borghesia; un partito che fosse saldamente compatto e monolitico; che fosse il partito della rivoluzione sociale, il partito della dittatura del proletariato.
I bolscevichi volevano avere proprio questo partito, questo partito nuovo. E preparavano, costituivano questo partito. Tutta la storia della lotta contro gli «economisti», i menscevichi, i trotzkisti, gli otzovisti, gli idealisti di ogni sfumatura, compresi gli empiriocriticisti, è infatti la storia della preparazione di un tale partito. I bolscevichi volevano creare un partito nuovo, un partito bolscevico , che fosse un modello per tutti coloro che volevano avere un vero partito rivoluzionario marxista. I bolscevichi, già nel periodo della vecchia Iskra , avevano lavorato per la sua formazione. Essi lo prepararono tenacemente, con perseveranza, malgrado tutto. Le opere di Lenin come «Che fare?», «Due tattiche», ecc. ebbero in quel lavoro preparatorio una funzione fondamentale e decisiva. Il libro di Lenin «Che fare?» preparò ideologicamente questo partito. Il libro di Lenin «Un passo avanti e due indietro» preparò organizzativamente questo partito. Il libro di Lenin «Due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica» preparò politicamente questo partito. E, infine, il libro di Lenin «Materialismo e empiriocriticismo» preparò teoricamente questo partito.
Si può dire con piena certezza che fino ad allora mai nella storia un gruppo politico era stato preparato, in modo così completo, a costituirsi in partito, come era stato preparato il gruppo bolscevico.
In tali condizioni, la costituzione dei bolscevichi in partito era pienamente preparata e matura.
Il Compito della VI Conferenza del partito consisteva nel coronare l'opera già preparata, con l'espulsione dei menscevichi e la costituzione del nuovo partito, il partito bolscevico.
La VI Conferenza panrussa del partito si tenne a Praga, nel gennaio 1912. Oltre 20 organizzazioni del partito vi erano rappresentate. La conferenza ebbe, dunque, effettivamente, l'importanza di un congresso.
Nel comunicato della conferenza il quale annunciava la ricostituzione dell'apparato centrale, la formazione del Comitato Centrale del partito, si diceva che gli anni della reazione avevano segnato per il partito il periodo più aspro, da quando la socialdemocrazia russa era in vita come partito organizzato, ma che, nonostante tutte le persecuzioni, nonostante i duri colpi inferti dall'esterno, malgrado i tradimenti e i tentennamenti degli opportunisti nell'interno del partito, il partito del proletariato aveva conservato la propria bandiera e la propria organizzazione.
Sono salvi non soltanto la bandiera della socialdemocrazia russa, - era detto nel comunicato, - non soltanto il suo programma, i suoi postulati rivoluzionari, ma anche la sua organizzazione, che le persecuzioni di ogni specie hanno potuto danneggiare e indebolire, ma non annientare.
La conferenza segnalò i primi sintomi di una nuova ascesa del movimento operaio in Russia e la ripresa dell'attività del partito.
I rapporti dei delegati permisero alla conferenza di fare la constatazione che «ovunque, alla base, era condotto un lavoro energico tra gli operai socialdemocratici per rafforzare le organizzazioni e i gruppi socialdemocratici illegali locali».
La conferenza constatò che tutte le organizzazioni di base avevano riconosciuto giusto l'importantissimo principio della tattica bolscevica in un periodo di ritirata: combinare il lavoro illegale con quello legale nelle varie associazioni e unioni legali operaie.
La Conferenza di Praga elesse un Comitato Centrale bolscevico del partito. Entrarono in questo Comitato Centrale Lenin, Stalin, Orgionikidze, Sverdlov, Spandarian, Golostcekin e altri. I compagni Stalin e Sverdlov, in quel tempo deportati, furono eletti nel Comitato Centrale nonostante la loro assenza. Il compagno Kalinin fu eletto membro supplente.
Fu creato un centro pratico per dirigere l'attività rivoluzionaria in Russia (Ufficio russo del Comitato Centrale) con a capo il compagno Stalin. Ne facevano parte, oltre il compagno Stalin, i compagni I. Sverdlov, S. Spandarian, S. Orgionikidze, M. Kalinin e Golostcekin.
La Conferenza di Praga fece il bilancio di tutta la lotta precedente dei bolscevichi contro l'opportunismo e decise di cacciare i menscevichi dal partito.
La Conferenza di Praga, cacciando i menscevichi dal partito consacrò l'esistenza indipendente del partito bolscevico.
Disfatti i menscevichi sull'arena ideologica e organizzativa, cacciati i menscevichi dal partito, i bolscevichi conservarono nelle loro mani la vecchia bandiera del partito, la bandiera del P.O.S.D.R.. Ecco perché il partito dei bolscevichi fino al 1918 continuò a chiamarsi Partito Operaio Socialdemocratico di Russia, con l'aggiunta fra parentesi della parola: «bolscevico».
Lenin, all'inizio del 1912, scriveva a Gorki sui risultati della Conferenza di Praga:
 
Finalmente siamo riusciti, a dispetto di quelle canaglie di liquidatori, a ricostruire il partito e il suo Comitato Centrale. Spero che Voi ve ne rallegrerete insieme con noi. (Lenin, «Opere», VoI. XXIX, pag. 19 ed. russa).
 
E il compagno Stalin ha definito nel modo seguente l'importanza della Conferenza di Praga:
 
Quella conferenza ha avuto un'importanza grandissima nella storia del nostro partito perché ha tracciato una linea di separazione tra i bolscevichi e i menscevichi e ha unificato le organizzazioni bolsceviche in tutto il paese in un unico partito bolscevico. («Resoconto stenografico del XV Congresso del Partito comunista (bolscevico) dell'U.R.S.S.», pagg. 361-362 ed russa).
 
Dopo avere espulso i menscevichi ed essersi costituito in partito indipendente, il partito bolscevico diventò più forte e più vigoroso. Il partito si fortifica liberandosi dagli elementi opportunisti - ecco una delle parole d'ordine del partito bolscevico, partito di un tipo nuovo, diverso anche per i suoi princìpi dai partiti socialdemocratici della II Internazionale. I partiti della II Internazionale che si pretendevano, a parole, marxisti, tolleravano di fatto nelle loro file gli avversari del marxismo, gli opportunisti dichiarati e permettevano loro di disgregare, di annientare la II Internazionale. I bolscevichi, all'opposto, hanno lottato inflessibilmente contro gli opportunisti, hanno epurato il partito proletario dal putridume dell'opportunismo e sono riusciti a costituire un partito di tipo nuovo, il partito leninista, il partito che in seguito doveva instaurare la dittatura del proletariato.
Se nelle file del partito proletario fossero rimasti gli opportunisti, il partito bolscevico non avrebbe potuto raggiungere la strada maestra, né condurre dietro a sé il proletariato; non avrebbe potuto conquistare il potere, né instaurare la dittatura del proletariato; non avrebbe potuto vincere nella guerra civile, né avrebbe potuto costruire il socialismo.
Nelle sue decisioni, la Conferenza di Praga formulò un programma minimo del partito, contenente le seguenti parole d'ordine politiche immediate: repubblica democratica, giornata lavorativa di 8 ore, confisca di tutte le terre dei proprietari fondiari.
Con queste parole d'ordine rivoluzionarie, i bolscevichi condussero la campagna elettorale per le elezioni della IV Duma di Stato.
Con queste parole d'ordine si operò la nuova ascesa del movimento rivoluzionario delle masse operaie nel 1912-1914.
 


Conclusioni riassuntive
Gli anni 1908-1912 rappresentarono un periodo difficilissimo per l'azione rivoluzionaria. Dopo la disfatta della rivoluzione, nel momento in cui il movimento operaio decresceva e le masse erano stanche, i bolscevichi cambiarono la loro tattica passando dalla lotta diretta alle vie indirette di lotta contro lo zarismo. Cosicché, nelle difficili condizioni create dalla reazione di Stolypin, i bolscevichi sfruttarono le minime possibilità legali per conservare i legami con le masse (dalle casse per le assicurazioni sociali e dai sindacati, fino alla tribuna della Duma). Instancabilmente, i bolscevichi lavorarono per raccogliere le forze in vista della nuova ascesa del movimento rivoluzionario.
Nella difficile situazione creata dalla sconfitta della rivoluzione, dal disgregarsi delle correnti d'opposizione, dalla delusione nei riguardi della rivoluzione e dal rafforzarsi degli attacchi revisionistici degli intellettuali staccatisi dal partito (Bogdanov, Bazarov e altri), contro le basi teoriche del partito, i bolscevichi furono l'unica forza, i soli che non abbassarono la bandiera del partito, che mantennero fede al programma del partito, che respinsero gli attacchi dei «critici» della teoria marxista (libro di Lenin «Materialismo e empiriocriticismo»). La tempra ideologica marxista-leninista, la comprensione delle prospettive della rivoluzione, aiutarono il nucleo fondamentale dei bolscevichi, stretti intorno a Lenin, a difendere il partito e i suoi princìpi rivoluzionari. «Non per nulla ci hanno chiamati uomini di granito», ha detto Lenin parlando dei bolscevichi.
I menscevichi, in quel periodo, si allontanano sempre più dalla rivoluzione. Essi diventano liquidatori; essi esigono che il partito rivoluzionario illegale del proletariato sia liquidato, soppresso; ne rinnegano sempre più apertamente il programma, gli obiettivi e le parole d'ordine rivoluzionarie; tentano di organizzare un proprio partito, un partito riformista che gli operai battezzano «partito operaio di Stolypin». Trotzki sostiene i liquidatori, nascondendosi ipocritamente dietro la parola d'ordine dell'«unità del partito» che in realtà significa l'unità con i liquidatori.
D'altro lato, certi bolscevichi, che non hanno compreso la necessità di una svolta verso nuove vie, indirette, di lotta contro lo zarismo, chiedono che si rinunci ad utilizzare le possibilità legali, chiedono il richiamo dei deputati operai dalla Duma di Stato. Gli otzovisti spingono il partito a distaccarsi dalle masse, ostacolano il raggruppamento delle forze per la nuova ascesa rivoluzionaria. Nascondendosi con una fraseologia «di sinistra», gli otzovisti rinnegano in sostanza la lotta rivoluzionaria, quanto i liquidatori.
I liquidatori e gli otzovisti si uniscono contro Lenin in un unico blocco, detto blocco d'Agosto, organizzato da Trotzki.
Nella lotta contro i liquidatori e gli otzovisti, nella lotta contro il blocco d'Agosto, i bolscevichi sono vittoriosi e salvano il partito proletario illegale.
Il più importante avvenimento di quel periodo è la Conferenza del P.O.S.D.R. tenutasi a Praga nel gennaio del 1912. In quella conferenza, i menscevichi sono espulsi dal partito, si pone fine per sempre alla unità formale in un solo partito dei bolscevichi con i menscevichi. Da gruppo politico che erano, i bolscevichi si organizzano in un partito indipendente: nel Partito Operaio Socialdemocratico di Russia (bolscevico). La Conferenza di Praga segna la nascita di un partito di nuovo tipo, il partito del leninismo, il partito bolscevico .
L'epurazione del partito proletario dagli elementi opportunisti, dai menscevichi, realizzata dalla Conferenza di Praga, ebbe una grande e decisiva importanza per lo sviluppo ulteriore del partito e della rivoluzione. Se i bolscevichi non avessero scacciato dalle loro file i traditori della causa operaia, ossia i conciliatori-menscevichi, il partito proletario non avrebbe potuto, nel 1917, sollevare le masse per l'instaurazione della dittatura del proletariato.
 
V.
Il partito bolscevico negli anni di ascesa del movimento operaio alla vigilia della prima guerra imperialistica
(1912-1914)
 


L'ascesa del movimento rivoluzionario dal 1912-1914.
Il trionfo della reazione di Stolypin non durò molto. Non poteva essere solido un governo che offriva al popolo so!tanto lo staffile e la forca; e la repressione era divenuta un fenomeno sì abituale che il popolo non se ne spaventava più. A poco a poco la stanchezza che aveva preso gli operai nei primi anni seguiti alla disfatta della rivoluzione, stava scomparendo. Gli operai tornavano alla lotta. La previsione dei bolscevichi che una nuova ascesa rivoluzionaria era inevitabile si rivelò del tutto giusta, e già nel 1911, si contavano più di 100 mila scioperanti, mentre, negli anni precedenti non erano stati che 50-60 mila. Fin dal gennaio 1912, la conferenza del partito, a Praga, aveva constatato la ripresa del movimento operaio. La vera ascesa del movimento rivoluzionario incominciò tuttavia in aprile-maggio 1912, quando in seguito al massacro degli operai della Lena scoppiarono gli scioperi generali politici.
Il 4 aprile 1912, durante lo sciopero nelle miniere d'oro della Lena, in Siberia, per ordine d'un ufficiale della gendarmeria zarista, caddero uccisi o feriti più di 500 operai. Il massacro dei minatori della Lena, che si recarono inermi e tranquilli a trattare con l'amministrazione, sconvolse tutto il paese. La nuova infamia sanguinosa dell'autocrazia zarista era stata compiuta nell'interesse dei capitalisti inglesi, padroni delle miniere d'oro della Lena, per spezzare lo sciopero economico dei minatori. I capitalisti inglesi e i loro soci russi ricavavano da quelle miniere dei profitti scandalosi - oltre 7 milioni di rubli all'anno - sfruttando gli operai nel modo più inumano, retribuendoli con salari di fame e nutrendoli con prodotti avariati. Non potendo più sopportare le angherie e i maltrattamenti, i 6 mila minatori della Lena si erano posti in sciopero.
Al massacro della Lena, il proletariato rispose con dimostrazioni, comizi e scioperi grandiosi a Pietroburgo, a Mosca, in tutti i centri e in tutte le regioni industriali.
«Siamo rimasti così colpiti, così turbati - scrivevano in un loro ordine del giorno gli operai di un gruppo di stabilimenti - che non abbiamo trovato subito le parole adatte. Qualsiasi nostra protesta non sarebbe stata che un debole riflesso dello sdegno che ci ribolliva in seno. No, nulla ci aiuterà: né le lacrime, né le proteste; solo una lotta di massa organizzata potrà fare al caso nostro».
La fremente indignazione degli operai crebbe ancora quando il ministro zarista Makarov, rispondendo a un'interpellanza del gruppo socialdemocratico alla Duma sul massacro della Lena, dichiarò cinicamente: «Così è sempre stato e sarà sempre così». Il numero dei partecipanti agli scioperi politici di protesta contro la carneficina della Lena salì a 300 mila.
Le giornate della Lena sconvolsero come una tempesta l'atmosfera di «pacificazione» creata dal regime di Stolypin.
Ecco ciò che scrisse in proposito, nel 1912, il compagno Stalin nella Zvezdà [«La Stella», il giornale bolscevico di Pietroburgo:
 
I colpi di fucile echeggiati sulle rive della Lena hanno rotto il ghiaccio del silenzio e il fiume del movimento popolare s'è messo in moto. Si muove!... Tutto ciò che di malvagio e di nefasto aveva il regime attuale, tutto ciò che ha sofferto la Russia martire, tutto s'è concentrato in un sol fatto, negli avvenimenti della Lena. Ecco perché i colpi di fucile della Lena sono stati il segnale degli scioperi e delle manifestazioni.
 
Invano liquidatori e trotzkisti giudicavano morta e sotterrata la rivoluzione.
Gli avvenimenti della Lena dimostrarono che le forze della rivoluzione erano vive, che nella classe operaia, si era accumulata un'enorme massa di energia rivoluzionaria. Gli scioperi del 1° Maggio 1912, a cui parteciparono circa 400 mila operai, ebbero uno spiccato carattere politico, svolgendosi con le parole d'ordine rivoluzionarie dei bolscevichi: repubblica democratica, giornata lavorativa di 8 ore, confisca di tutta la terra dei grandi proprietari fondiari. Queste parole d'ordine fondamentali tendevano a unire, non solo le grandi masse operaie, ma anche le masse dei contadini e dei soldati, per l'assalto rivoluzionario all'autocrazia.
 
Il grandioso sciopero del 1° Maggio del proletariato di tutta la Russia e le dimostrazioni di strada che ne seguirono, i proclami rivoluzionari e i discorsi rivoluzionari pronunciati dinanzi alle folle operaie, hanno dimostrato chiaramente che la Russia è entrata in una fase di ascesa rivoluzionaria. (Lenin, «Opere», vol. XV, pag. 533 ed. russa).
 
Inquieti per lo spirito rivoluzionario degli operai, i liquidatori, parlando di «mania scioperaiola», si pronunziarono contro gli scioperi come metodo di lotta. Col loro alleato Trotzki, volevano sostituire alla lotta rivoluzionaria del proletariato una «campagna di petizioni». Gli operai venivano invitati a firmare una carta che si sarebbe poi dovuta inviare alla Duma, ossia una «petizione», una richiesta riguardante i loro «diritti» (abolizione delle restrizioni circa i sindacati, gli scioperi, ecc.). I liquidatori non riuscirono a raccogliere che 1.300 firme, mentre le parole d'ordine rivoluzionarie lanciate dai bolscevichi erano seguite da centinaia di migliaia di operai.
La classe operaia seguiva la strada indicata dai bolscevichi.
La situazione economica del paese, in quel periodo, presentava il seguente aspetto:
Alla stagnazione industriale, già nel 1910, era seguita una ripresa; la produzione era aumentata nei rami fondamentali dell'industria. La produzione della ghisa era salita da 186 milioni di pud [un pud = kg. 16,38] nel 1910, a 256 milioni nel 1912 ed a 283 milioni nel 1913. Nel 1910, erano stati estratti 1 miliardo e 522 milioni di pud di carbon fossile e nel 1913 già 2 miliardi e 214 milioni.
Mentre si sviluppava l'industria capitalistica, cresceva rapidamente la massa dei proletari. Lo sviluppo industriale era caratterizzato dalla continua concentrazione della produzione in grandi e grandissime imprese. Se, nel 1901, nelle grandi imprese, con 500 e più operai, lavorava solo il 46,7 per cento di tutti gli operai, nel 1910 nelle imprese dello stesso tipo lavorava già il 54 per cento, ossia più della metà di tutti gli operai. Eravamo in presenza di una concentrazione industriale senza precedenti. Persino in un paese industriale così sviluppato come gli Stati Uniti, in quel tempo nelle grandi imprese era occupato solo un terzo di tutti gli operai.
L'aumento e la concentrazione del proletariato nelle grandi imprese, poiché esisteva un partito rivoluzionario come il partito bolscevico, venivano trasformando la classe operaia in una grande forza nella vita politica del paese. Le barbare forme di sfruttamento degli operai nelle imprese, congiunte all'intollerabile regime poliziesco della muta dei sicari zaristi, conferivano a ogni grande sciopero un carattere politico. E, poiché la lotta economica si intrecciava con quella politica, gli scioperi di massa acquistavano una forza rivoluzionaria del tutto originale.
All'avanguardia del movimento operaio rivoluzionario marciava l'eroico proletariato di Pietroburgo; seguivano la regione baltica, Mosca e il suo governatorato, indi il bacino del Volga e la Russia meridionale. Nel 1913, il movimento si estese alle regioni dell'Ovest, alla Polonia, al Caucaso. In complesso, nel 1912, si ebbero, secondo i calcoli ufficiali, 725 mila operai scioperanti, e, secondo altri calcoli più completi, più d'un milione; nel 1913, secondo i calcoli ufficiali, 861 mila, e secondo calcoli più completi, un milione e 272 mila. Nel primo semestre del 1914 partecipò agli scioperi circa un milione e mezzo di operai.
In tal modo l'ascesa rivoluzionaria del 1912-1914, la ampiezza del movimento degli scioperi avvicinavano il paese alla situazione esistente all'inizio della rivoluzione del 1905.
Gli scioperi rivoluzionari di massa del proletariato acquistavano un grande significato per tutto il popolo . Essi erano diretti contro l'autocrazia e sorretti dalla simpatia della stragrande maggioranza della popolazione lavoratrice. I padroni delle fabbriche e delle officine, con le serrate, si vendicavano contro gli operai scioperanti. Nel 1913, i capitalisti, nel governatorato di Mosca, gettavano sul lastrico 50 mila operai tessili e nel marzo del 1914, a Pietroburgo, licenziavano in un sol giorno 70 mila operai. Gli operai delle altre imprese e degli altri rami industriali aiutavano gli scioperanti e i compagni colpiti dalle serrate con grandi sottoscrizioni e, talvolta, con degli scioperi di solidarietà.
L'ascesa dei movimento rivoluzionario e gli scioperi di massa svegliavano e stimolavano alla lotta anche le masse contadine. I contadini sorgevano nuovamente alla lotta contro i proprietari fondiari, devastando le tenute signorili e i poderi dei kulak. Nel periodo del 1910-1914 scoppiarono più di 13 mila movimenti contadini.
Anche nell'esercito cominciarono le agitazioni rivoluzionarie. Nel 1912, una rivolta armata scoppiò tra le truppe del Turkestan; altre rivolte maturavano nella flotta del Baltico e a Sebastopoli.
Il movimento degli scioperi rivoluzionari e le manifestazioni, diretti dal partito bolscevico, dimostravano che la classe operaia non lottava per alcune rivendicazioni parziali, né per alcune «riforme», ma lottava per liberare il popolo dallo zarismo. Il paese marciava verso una nuova rivoluzione.
Per essere più vicino alla Russia, Lenin si trasferì nell'estate del 1912, da Parigi nella Galizia (appartenente allora all'Austria). Ivi, sotto la sua presidenza, si tennero due conferenze dei membri del Comitato Centrale con la partecipazione di militanti responsabili: l'una a Cracovia, alla fine del 1912, e l'altra nel villaggio di Poronino, nei pressi di Cracovia, nell'autunno del 1913. In quelle conferenze, si presero decisioni sui problemi vitali del movimento operaio: sull'ascesa rivoluzionaria, sugli scioperi e i compiti del partito, sul rafforzamento delle organizzazioni clandestine, sul gruppo socialdemocratico alla Duma, sulla stampa del partito, sulla campagna per le assicurazioni sociali.
 


2. Il giornale bolscevico «Pravda». Il gruppo bolscevico alla IV Duma di Stato.
Un'arma potente, nelle mani del partito bolscevico, per consolidare le sue organizzazioni e per conquistare l'influenza sulle masse, fu il quotidiano bolscevico Pravda [«La Verità»], che si pubblicava a Pietroburgo. Era stato fondato secondo le indicazioni di Lenin e per iniziativa di Stalin, Olminski e Poletaiev. La Pravda , giornale operaio di massa, sorgeva mentre cominciava la nuova ascesa del movimento rivoluzionario. Quando il primo numero uscì, il 22 aprile (5 maggio) 1912, fu per gli operai una vera festa: per commemorare la nascita della Pravda , il 5 maggio è stato proclamato giorno di festa della stampa operaia.
Prima ancora della nascita della Pravda , usciva il settimanale bolscevico Zvezdà , destinato agli operai di avanguardia. La Zvezdà aveva assunto una grande importanza, nelle giornate della Lena. Vi apparve una serie di ardenti articoli politici di Lenin di Stalin, che mobilitavano la classe operaia per la lotta. Ma, nelle condizioni di ascesa rivoluzionaria, un giornale solo settimanale non era più sufficiente per il partito bolscevico. Era necessario un giornale quotidiano politico di massa, per i più larghi strati operai. E la Pravda fu questo giornale.
In quel periodo, l'importanza della Pravda fu immensa. Il quotidiano che conquistava al bolscevismo le grandi masse della classe operaia, poté resistere alle continue persecuzioni poliziesche, alle multe, ai sequestri per gli articoli e le corrispondenze che non garbavano alla censura, solo perché decine di migliaia di operai d'avanguardia lo sostennero attivamente. La Pravda poté pagare le enormi multe con cui era colpita solo grazie alle grandi sottoscrizioni fatte dagli operai. Sovente, gran parte dei numeri sequestrati giungeva egualmente ai lettori, perché gli operai d'avanguardia, nel fondo della notte, si recavano in tipografia a prendere i pacchi del giornale.
Il governo dello zar, in due anni e mezzo, soppresse otto volte la Pravda ; ma, grazie all'aiuto degli operai, il giornale riprendeva però sempre le pubblicazioni, ogni volta, con un altro nome simile, come, ad esempio, Za Pravdu [«Per la Verità»], Put Pravdy [«Il Cammino della Verità»], Trudovaia Pravda [«La Verità del Lavoro»].
Mentre la Pravda si diffondeva in media a 40 mila copie al giorno, la tiratura del quotidiano menscevico Lutc [«Il Raggio»] non superava le 15-16 mila.
Gli operai consideravano la Pravda come il loro proprio giornale, le dimostravano molta fiducia e ne ascoltavano attentamente la voce. Ogni copia della Pravda , passando di mano in mano, era letta da decine di lettori, ne formava la coscienza di classe, li educava, li organizzava, li chiamava alla lotta.
Che cosa diceva la Pravda ?
In ogni numero della Pravda si potevano leggere decine di corrispondenze di operai i quali descrivevano la loro vita, il feroce sfruttamento, le numerose angherie e i maltrattamenti a cui eran sottoposti dai capitalisti, dai loro amministratori e capi tecnici: aspra e bruciante accusa verso l'ordine capitalistico. Non era raro trovare nella Pravda degli stelloncini in cui si annunciava il suicidio di senza lavoro in preda alla fame e disperati di non trovare occupazione.
La Pravda esponeva i bisogni e le rivendicazioni degli operai delle varie officine e industrie e riferiva come gli operai lottassero per le loro rivendicazioni. Quasi ogni numero, trattava degli scioperi scoppiati nelle diverse imprese. Durante gli scioperi più importanti e più lunghi, il giornale, aprendo sottoscrizioni tra gli operai delle altre fabbriche e industrie, organizzava l'aiuto agli scioperanti. A volte, per gli scioperi, si raccoglievano decine di migliaia di rubli: somme enormi in quei tempi, se si tien conto che la maggioranza degli operai guadagnava da 70 a 80 copechi al giorno. È in questo modo che gli operai venivano educati nello spirito della solidarietà proletaria e della comunità dei loro interessi.
Gli operai reagivano ad ogni avvenimento politico, ad ogni vittoria o ad ogni sconfitta, inviando alla Pravda lettere, saluti, proteste, ecc. Nei suoi articoli, la Pravda spiegava gli obiettivi del movimento operaio, da un punto di vista bolscevico conseguente. Essendo un giornale legale, non poteva incitare in modo aperto a rovesciare lo zarismo. Era giocoforza servirsi di allusioni, comprese però benissimo dagli operai coscienti, i quali, a loro volta, le spiegavano alle masse. Quando, per esempio, la Pravda parlava delle «rivendicazioni complete e integrali del 1905», gli operai comprendevano trattarsi delle parole d'ordine rivoluzionarie dei bolscevichi: rovesciamento dello zarismo, repubblica democratica, confisca delle terre dei grandi proprietari fondiari, giornata lavorativa di 8 ore.
Fu la Pravda che organizzò gli operai d'avanguardia quando si trattò di eleggere la IV Duma. Smascherando la posizione di tradimento assunta dai menscevichi che erano fautori della conciliazione con la borghesia liberale e del «partito operaio di Stolypin», la Pravda invitò gli operai a votare per i sostenitori delle «rivendicazioni integrali del 1905», cioè per i bolscevichi. Le elezioni si svolgevano a più gradi. Dapprima, nelle riunioni operaie, si eleggevano i fiduciari, che a loro volta eleggevano degli «elettori», i quali, infine, partecipavano all'elezione del deputato operaio alla Duma. Nel giorno delle elezioni, la Pravda pubblicò la lista dei bolscevichi, designati come «elettori», raccomandando agli operai di votare per essa. Non era stato possibile pubblicare prima la lista, per non esporre i candidati al pericolo dell'arresto.
La Pravda aiutò ad organizzare l'azione del proletariato. Durante una grande serrata a Pietroburgo, nella primavera del 1914, non essendo allora opportuno proclamare uno sciopero generale, la Pravda chiamò gli operai ad altre forme di lotta: grandi comizi nelle officine, manifestazioni di strada. Non era possibile dirlo apertamente sul giornale. Ma l'appello fu capito dagli operai coscienti che lessero l'articolo di Lenin pubblicato sotto un titolo modesto: «Sulle forme del movimento operaio». Nell'articolo si diceva che allo sciopero, in quel momento, doveva sostituirsi una forma più alta del movimento operaio: era un appello ad organizzare comizi e dimostrazioni.
Così, per merito della Pravda , l'attività rivoluzionaria clandestina dei bolscevichi si collegava con l'agitazione legale e l'organizzazione delle masse operaie.
La Pravda non parlava soltanto della vita operaia, degli scioperi e delle dimostrazioni, ma denunciava regolarmente le condizioni di esistenza delle masse contadine, le carestie onde erano colpite, come erano sfruttate queste masse dai proprietari feudali, la corsa al saccheggio delle migliori terre contadine da parte dei kulak proprietari di poderi, come conseguenza della «riforma» di Stolypin; mostrava agli operai coscienti quale enorme massa di materie infiammabili si fosse accumulata nelle campagne; spiegava al proletariato che i compiti della rivoluzione del 1905 non erano stati adempiuti e che una nuova rivoluzione era imminente; ed insegnava che, in questa seconda rivoluzione, il proletariato doveva agire come il vero capo, come il dirigente del popolo, e che in questa rivoluzione il proletariato avrebbe avuto un alleato potente: i contadini rivoluzionari.
I menscevichi avrebbero voluto che il proletariato abbandonasse l'idea della rivoluzione e si sforzavano di suggerire agli operai che cessassero di pensare al popolo, alle carestie nelle campagne, alla dominazione dei proprietari feudali ultrareazionari e lottassero soltanto per la «libertà sindacale», presentando delle «petizioni» al governo dello zar. I bolscevichi spiegavano agli operai che questa propaganda menscevica per la rinuncia alla rivoluzione e all'alleanza con i contadini era svolta nell'interesse della borghesia; che gli operai avrebbero senza fallo trionfato sullo zarismo se avessero attratto dalla loro parte i contadini, come alleati; e che i falsi pastori, del tipo dei menscevichi, dovevano essere respinti come nemici della rivoluzione.
Che cosa scriveva la Pravda nella sua rubrica: «La vita contadina»?
Prendiamo, per esempio, alcune corrispondenze del 1913.
Una corrispondenza da Samara, intitolata «Processo agrario», dava notizia che nel villaggio di Novokhasbulat, del distretto di Bugulma, fra i 45 contadini del villaggio, accusati di aver opposto resistenza al geometra, durante l'assegnazione della terra ai contadini che uscivano dalla comunità, molti erano stati condannati ad anni ed anni di prigione.
Una breve corrispondenza dal governatorato di Pskov riferiva: «I contadini del villaggio di Psitza (nei pressi della stazione ferroviaria di Zevaliè) hanno opposto resistenza a mano armata allo guardie. Vi sono dei feriti. Il conflitto è stato provocato da contese agrarie. Delle guardie sono state inviate a Psitza. Il vice-governatore e il procuratore si sono recati sul posto».
Una corrispondenza del governatorato di Ufa informava che i contadini vendevano i loro appezzamenti e spiegava come la fame e la legge sull'uscita delle comunità agricole avessero accresciuto la massa dei contadini senza terra. Si prenda il villaggio di Borissovka. Conta 27 famiglie che posseggono 543 dessiatine [una dessiatina=ettari 1,09] di terra arabile. Durante la carestia, 5 famiglie contadine hanno venduto 31 dessiatine a un prezzo che varia da 25 a 33 rubli la dessiatina, mentre la terra costa 3-4 volte di più. Nella stessa località, 7 famiglie hanno ipotecato 177 dessiatine, ricevendo da 18 a 20 rubli la dessiatina per 6 anni, al saggio del 12 per cento all'anno. Se si considerano l'immiserimento della popolazione e gli interessi scandalosi, si può asserire con sicurezza che, di queste 177 dessiatine, la metà passerà nelle mani degli usurai, perché è probabile che neppure la metà dei debitori possa pagare in 6 anni una somma così ingente.
Nell'articolo «La grande proprietà terriera e la piccola proprietà contadina in Russia», pubblicato sulla Pravda , Lenin indicò chiaramente agli operai e ai contadini quali immense ricchezze fondiarie si trovassero in mano ai proprietari parassiti. Trentamila grandi proprietari fondiari possedevano, da soli, 70 milioni di dissiatine di terra; quante cioè ne possedevano 10 milioni di famiglie contadine. Ogni grande proprietario disponeva in media di 2.300 dessiatine; ogni famiglia contadina, i kulak compresi, ne possedeva 7 in media; inoltre, 5 milioni di famiglie di piccoli contadini, ossia la metà della massa intera dei contadini non possedevano ognuna, più di una o due dessiatine di terra. Tutto ciò dimostrava in modo evidente che la causa essenziale della miseria e delle carestie nelle campagne risiedeva nella grande proprietà terriera, nelle sopravvivenze della servitù, da cui i contadini potevano disfarsi solo a mezzo di una rivoluzione, diretta dalla classe operaia.
Portatavi dagli operai che avevano legami coi villaggi, la Pravda penetrava nelle campagne e destava alla lotta rivoluzionaria i contadini d'avanguardia.
Durante il periodo della fondazione della Pravda , le organizzazioni socialdemocratiche clandestine si trovavano del tutto nelle mani dei bolscevichi, mentre le organizzazioni legali - gruppo della Duma, stampa, casse per assicurazioni sociali, sindacati - non erano state ancora completamente strappate ai menscevichi. Era necessaria una lotta risoluta dei bolscevichi per scacciare i liquidatori dalle organizzazioni legali della classe operaia. Si dovette alla Pravda se quella lotta riuscì vittoriosa.
La Pravda era al centro della lotta per lo spirito del partito e per la ricostruzione di un partito operaio rivoluzionario di massa . La Pravda raggruppava le organizzazioni legali intorno ai focolari clandestini del partito bolscevico e orientava il movimento operaio verso un unico scopo ben determinato: verso la preparazione della rivoluzione.
La Pravda disponeva di una numerosissima schiera di corrispondenti operai, tanto che in un solo anno, sulle sue colonne comparvero oltre 11 mila corrispondenze operaie. Ma la Pravda annodava stretti vincoli colle masse operaie non soltanto per il tramite delle lettere e delle corrispondenze. Molti operai, uscendo dal lavoro, si recavano ogni giorno alla redazione, dove era concentrata una parte importante del lavoro organizzativo del partito. È là che si svolgevano i colloqui coi rappresentanti delle cellule locali del partito, è là che giungevano le informazioni sul lavoro del partito nelle fabbriche e nelle officine, è di là che si trasmettevano le direttive del Comitato di Pietroburgo e del Comitato Centrale del partito.
Dopo due anni e mezzo di lotta tenace contro i liquidatori per ricostruire un partito operaio rivoluzionario di massa, i bolscevichi riuscirono, verso l'estate del 1914, a far sì che i quattro quinti degli operai politicamente attivi della Russia seguissero il partito bolscevico e applicassero la tattica «pravdista». E se ne ebbe la prova allorché, nel 1914, su un totale di 7 mila gruppi operai che, durante l'anno, avevano lanciato sottoscrizioni per i giornali operai, 5.600 gruppi raccolsero fondi per la stampa bolscevica, e soltanto 1.400 per quella menscevica. I menscevichi avevano però nelle file della borghesia liberale e dell'intellettualità borghese cento e cento «ricchi amici» che offrivano loro più della metà dei fondi necessari per mantenere in vita il loro giornale.
I bolscevichi erano allora, chiamati i «pravdisti». Insieme alla Pravda fioriva un'intera generazione di proletari rivoluzionari: i futuri artefici della Rivoluzione Socialista d'Ottobre. Decine e centinaia di migliaia di operai si stringevano attorno alla Pravda . Così, negli anni dell'ascesa rivoluzionaria (1912-1914) si ponevano le basi del partito bolscevico di massa, quelle solide basi che le persecuzioni zariste, durante la guerra imperialistica, non poterono distruggere.
 
La Pravda del 1912 ha posto la prima pietra per la vittoria del bolscevismo nel 1917. (Stalin ).
 
Un altro organo legale del partito per tutta la Russia era il gruppo bolscevico alla IV Duma di Stato.
Nel 1912, il governo aveva indetto le elezioni alla IV Duma. Il nostro partito assegnava una grande importanza alla partecipazione a quelle elezioni, poiché il gruppo socialdemocratico alla Duma e la Pravda erano, in tutta la Russia, i punti legali d'appoggio fondamentali per l'attività rivoluzionaria del partito bolscevico tra le masse.
Il partito bolscevico partecipò alle elezioni della Duma in modo del tutto autonomo, con proprie parole d'ordine, colpendo simultaneamente sia i partiti del governo, sia la borghesia liberale (i cadetti). I bolscevichi condussero la campagna elettorale sulla base di queste parole d'ordine: repubblica democratica, giornata lavorativa di 8 ore, confisca delle terre dei grandi proprietari fondiari.
Le elezioni alla IV Duma si svolsero nell'autunno del 1912. Ai primi d'ottobre, il governo, scontento del modo come a Pietroburgo procedevano le cose, cercò di violare il diritto elettorale degli operai in molte fabbriche importanti. La risposta non si fece attendere: il Comitato di Pietroburgo del nostro partito, su proposta del compagno Stalin, invitò gli operai delle grandi imprese, ad uno sciopero di 24 ore. Venutosi a trovare in una difficile situazione, il governo fu costretto a cedere, e gli operai poterono eleggere chi effettivamente volevano eleggere. La stragrande maggioranza degli operai votò per un «mandato» ai fiduciari e al deputato. Redatto dal compagno Stalin, il «mandato degli operai di Pietroburgo al loro deputato operaio» ricordava i compiti del 1905, rimasti inadempiuti.
 
...Noi pensiamo - si diceva nel «mandato» - che la Russia è alla vigilia dei movimenti di massa più profondi, forse, di quelli del 1905... Il promotore di questi movimenti sarà, come nel 1905, il proletariato russo, la classe all'avanguardia della società russa. Il suo alleato può essere soltanto la massa contadina martire, che è vitalmente interessata all'emancipazione della Russia.
 
Il «mandato» dichiarava che la lotta imminente del proletariato doveva assumere la forma di una lotta su due fronti: l'uno contro il governo zarista, l'altro contro la borghesia liberale che cercava un'intesa con lo zarismo.
Lenin diede una grande importanza a questo «mandato» che chiamava gli operai alla lotta rivoluzionaria e a cui gli operai, nelle loro risoluzioni, rispondevano con entusiasmo.
Nelle elezioni furono i bolscevichi che ottennero la vittoria e il compagno Badaiev fu mandato alla Duma dagli operai di Pietroburgo.
Gli operai avevano votato separatamente dagli altri ceti della popolazione (nella cosiddetta curia operaia). Dei nove deputati di questa curia, sei erano membri del partito bolscevico: Badaiev, Petrovski, Muranov, Samoilov, Sciagov e Malinovski (che risultò in seguito un agente provocatore). I deputati bolscevichi erano stati eletti nei più importanti centri industriali, dove s'agglomeravano almeno i quattro quinti della classe operaia. Ma alcuni liquidatori erano stati eletti deputati al di fuori della curia operaia. Fu così che si ebbero alla Duma sette liquidatori rispetto a sei bolscevichi. In un primo tempo, bolscevichi e liquidatori formarono alla Duma un gruppo socialdemocratico comune. Ma, in seguito, nell'ottobre del 1913, dopo una lotta accanita contro i liquidatori che impedivano l'azione rivoluzionaria del partito bolscevico, e su indicazione del Comitato Centrale, i deputati bolscevichi uscirono dal gruppo socialdemocratico unificato e formarono un gruppo bolscevico indipendente.
I deputati bolscevichi pronunciarono alla Duma discorsi rivoluzionari in cui denunciavano il regime autocratico, presentavano interpellanze al governo sulle repressioni contro gli operai e sullo sfruttamento inumano a cui gli operai erano sottoposti.
I deputati bolscevichi intervenivano pure sulla questione agraria, e, nei loro discorsi, chiamavano i contadini alla lotta contro i feudali delle campagne, denunciando il partito dei cadetti, avversario della confisca delle terre della grande proprietà fondiaria e della loro consegna ai contadini.
I bolscevichi presentarono alla Duma una proposta di legge per la giornata lavorativa di 8 ore che la Duma dei Centoneri, naturalmente, si guardò ben dall'approvare, ma che ebbe un grande valore sotto l'aspetto dell'agitazione.
Il gruppo bolscevico alla Duma era strettamente legato con il Comitato Centrale del partito, con Lenin, e ne riceveva direttive. Era il compagno Stalin che ne assumeva personalmente la direzione pratica durante il suo soggiorno a Pietroburgo.
Lungi dal limitarsi al lavoro nella Duma, i deputati bolscevichi svolgevano un'intensa attività al di fuori dell'Assemblea. Essi si recavano nelle fabbriche e nelle officine, visitavano i centri operai del paese per tenervi delle conferenze, organizzavano delle riunioni clandestine, spiegandovi le decisioni del partito e creavano nuove organizzazioni del partito. I deputati bolscevichi sapevano combinare saggiamente l'attività legale con il lavoro illegale, clandestino.
 


3. La vittoria dei bolscevichi nelle organizzazioni legali. Nuovo sviluppo del movimento rivoluzionario. Alla vigilia della guerra imperialistica.
Il partito bolscevico mostrò in quegli anni coll'esempio come doveva essere diretta la lotta di classe del proletariato, in tutte le sue forme e manifestazioni: fondava organizzazioni clandestine, stampava manifestini illegali, svolgeva un lavoro rivoluzionario clandestino tra le masse. In pari tempo, conquistava sempre più le diverse organizzazioni legali della classe operaia. Il partito si applicava alla conquista dei sindacati, delle case del popolo, delle università serali, dei circoli, degli istituti per le assicurazioni sociali. In queste associazioni legali s'erano da molto tempo rifugiati i liquidatori. I bolscevichi impegnarono una lotta energica per trasformarle in punti d'appoggio del nostro partito. Collegando abilmente il lavoro clandestino con quello legale, i bolscevichi conquistarono, nelle due capitali, la maggioranza dei sindacati. Soprattutto clamorosa fu la vittoria ottenuta dai bolscevichi nel 1913 nelle elezioni per la direzione del sindacato degli operai metallurgici a Pietroburgo; su 3 mila operai metallurgici che parteciparono all'assemblea, 150 appena votarono per i liquidatori.
Altrettanto si può dire a proposito di un altro organo legale, il gruppo socialdemocratico della IV Duma. Sebbene i menscevichi disponessero alla Duma di sette deputati e i bolscevichi soltanto di sei, i sette menscevichi, eletti principalmente dalle regioni non operaie, rappresentavano un po' meno di un quinto della classe operaia, mentre i sei bolscevichi, eletti dai centri industriali più importanti del paese (Pietroburgo, Mosca, Ivanovo-Voznessensk, Kostroma, Iekaterinoslav, Kharkov), ne rappresentavano più dei quattro quinti. Gli operai consideravano come loro deputati non i sette menscevichi, ma i sei deputati bolscevichi (Badaiev, Petrovski, e gli altri).
I bolscevichi riuscirono a conquistare le organizzazioni legali perché, malgrado le barbare persecuzioni zariste e l'odiosa campagna scatenata contro di loro dai liquidatori e dai trotzkisti, avevan saputo salvaguardare il partito illegale e conservare una ferrea disciplina nelle file, difendevano con coraggio gli interessi della classe operaia, si mantenevano strettamente legati con le masse e lottavano implacabilmente contro i nemici del movimento operaio.
Ecco perché, nelle organizzazioni legali, la vittoria dei bolscevichi e la sconfitta dei menscevichi si svilupparono su tutta la linea. Tanto sull'arena dell'agitazione, svolta alla tribuna della Duma, quanto sull'arena della stampa operaia e delle altre organizzazioni legali, i menscevichi erano cacciati all'ultimo posto. La classe operaia, trasportata dal movimento rivoluzionario, si raggruppava con fervore attorno ai bolscevichi e respingeva i menscevichi.
Il quadro era completato dal fallimento dei menscevichi nella questione nazionale. Il movimento rivoluzionario delle regioni periferiche della Russia imponeva un programma chiaro sulla questione nazionale. Ma i menscevichi non avevano alcun programma, eccetto l'«autonomia culturale» del Bund , che non poteva accontentare nessuno. Nella questione nazionale, soltanto i bolscevichi avevano un programma marxista, formulato dal compagno Stalin nell'articolo «Il marxismo e la questione nazionale» e da Lenin negli articoli «Sul diritto delle nazioni all'autodecisione» e «Note critiche sulla questione nazionale».
Nulla di strano, quindi, che dopo simili disfatte del menscevismo, il blocco di Agosto cominciasse a fare acqua da ogni parte. Composto di elementi eterogenei, non poté resistere all'urto dei bolscevichi e cominciò a disgregarsi. Creato per la lotta contro i bolscevichi, il blocco d'Agosto crollò rapidamente sotto i loro colpi. Dapprima uscirono dal blocco i sostenitori del giornale Vperiol (Bogdanov, Lunaciarski ecc.), in seguito ne uscirono i lettoni, e, infine, anche gli altri si sbandarono.
Sconfitti nella lotta contro i bolscevichi, i liquidatori chiesero aiuto alla II Internazionale, che rispose al loro appello. Sotto il pretesto di «riconciliare» i bolscevichi coi liquidatori e di ristabilire «la pace nel partito», la II Internazionale pretendeva dai bolscevichi che cessassero di criticare la politica conciliatrice dei liquidatori. Ma, intransigenti, i bolscevichi rifiutarono di inchinarsi alle decisioni della II Internazionale opportunista; essi non fecero nessuna concessione.
La vittoria dei bolscevichi nelle organizzazioni legali non era e non poteva essere un fenomeno casuale. Non era un fenomeno casuale, in primo luogo, perché soltanto i bolscevichi disponevano di una teoria marxista giusta, di un programma chiaro e di un partito proletario rivoluzionario temprato nelle battaglie; e, in secondo luogo, perché questa vittoria stessa esprimeva l'ascesa continua della rivoluzione.
Il movimento rivoluzionario si sviluppava sempre più tra gli operai conquistando città e regioni. Allorché sopraggiunse l'anno 1914, gli scioperi operai, anziché spengersi, assunsero al contrario un'ampiezza particolare: diventarono sempre più tenaci, abbracciando un numero sempre maggiore di operai. Il 9 gennaio scioperavano 250 mila operai, di cui 140 mila a Pietroburgo. Il 1° Maggio scioperò più di mezzo milione di operai, di cui oltre 250 mila a Pietroburgo. Negli scioperi, gli operai dimostravano una fermezza particolare. Nella fabbrica Obukhov, a Pietroburgo, lo sciopero durò oltre due mesi; nell'officina Lessner quasi tre mesi. Per protestare contro intossicazioni prodottesi su vasta scala in molte imprese di Pietroburgo, 115 mila operai proclamarono uno sciopero che fu seguito da manifestazioni. Il movimento cresceva sempre più. Complessivamente, nel primo semestre del 1914 (compreso l'inizio di luglio), 1 milione 425 mila operai abbandonarono il lavoro.
Nel mese di maggio, cominciò lo sciopero generale degli operai del petrolio a Bakù, uno sciopero bene organizzato, che fu seguito con vivo interesse dal proletariato di tutta la Russia. Il 20 luglio, 20 mila operai manifestarono nelle vie di Bakù. La polizia prese dei provvedimenti feroci. In segno di protesta e di solidarietà con gli operai di quella città, lo sciopero scoppiò a Mosca, e si estese alle altre regioni.
Il 3 luglio, a Pietroburgo, mentre si teneva un comizio nell'officina Putilov a proposito dello sciopero di Bakù, la polizia sparò sugli operai. Indignazione immensa fra le masse proletarie di Pietroburgo. Il 4 luglio, in seguito all'appello del Comitato di Pietroburgo del partito, scioperarono in segno di protesta 90 mila operai; il 7 luglio gli scioperanti raggiungevano i 130 mila, l'8 luglio i 150 mila e l'11 luglio i 200 mila.
Tutte le officine erano in fermento: dappertutto si tenevano comizi e dimostrazioni e si innalzarono anche delle barricate. Lo stesso avvenne a Bakù e a Lodz. In diverse località, la polizia sparò sugli operai. Per soffocare il movimento, il governo decretò dei provvedimenti «eccezionali»; la capitale fu trasformata in un campo trincerato. La Pravda fu soppressa.
Ed ecco una nuova forza entrare in campo, una forza d'ordine internazionale, la guerra imperialistica, che doveva cambiare il corso degli avvenimenti. Proprio durante gli avvenimenti rivoluzionari di luglio, giungeva a Pietroburgo, per intrattenersi con lo zar sulla guerra imminente, il presidente della Repubblica francese, Poincaré. Alcuni giorni dopo, la Germania dichiarava la guerra alla Russia. Il governo dello zar approfittò della guerra per distruggere le organizzazioni bolsceviche e soffocare il movimento operaio. L'ascesa rivoluzionaria venne interrotta dalla guerra mondiale. Colla guerra mondiale, il governo zarista cercava di salvarsi dalla rivoluzione.
 


Conclusioni riassuntive
Negli anni della nuova ascesa rivoluzionaria (1912-1914), il partito bolscevico si mise alla testa del movimento operaio e lo condusse, con le parole d'ordine bolsceviche, verso una nuova rivoluzione. Il partito seppe coordinare l'azione illegale con quella legale. Spezzando la resistenza dei liquidatori e dei loro amici, trotzskisti e otzovisti, conquistò la direzione di tutte le forme del movimento legale e convertì le organizzazioni legali in punti d'appoggio della sua attività rivoluzionaria.
Lottando contro i nemici della classe operaia e i loro agenti nel movimento operaio, il partito consolidò le proprie file e allargò i propri legami con la classe operaia. Valendosi largamente della tribuna della Duma per l'agitazione rivoluzionaria e creando un ottimo giornale operaio di massa, la Pravda , il partito educò una nuova generazione di operai rivoluzionari, i pravdisti. Questo strato di operai, negli anni della guerra imperialistica, restò fedele alla bandiera dell'internazionalismo e della rivoluzione proletaria, e formò in seguito il nucleo del partito bolscevico nei giorni della Rivoluzione d'Ottobre, nel 1917.
Alla vigilia della guerra imperialistica, il partito dirigeva l'azione rivoluzionaria della classe operaia. Questi combattimenti d'avanguardia, interrotti dalla guerra imperialistica, dovevano continuare tre anni più tardi per giungere all'abbattimento dello zarismo. Il partito bolscevico entrò nel duro periodo della guerra imperialistica, tenendo alta la bandiera dell'internazionalismo proletario.
 
VI.
Il partito bolscevico durante la guerra imperialistica
La seconda rivoluzione russa
(dal 1914 al marzo 1917)
 


1. Le origini e le cause della guerra imperialistica.
Il 14 (27) luglio 1914, il governo dello zar proclamò la mobilitazione generale. Il 19 luglio (1° agosto), la Germania dichiarò la guerra alla Russia.
E la Russia entrò in guerra.
Assai prima dell'inizio della guerra, Lenin ed i bolscevichi avevano previsto che sarebbe inevitabilmente scoppiata. Nei congressi socialisti internazionali, Lenin aveva formulato proposte allo scopo di determinare la linea di condotta rivoluzionaria dei socialisti in caso di guerra.
Le guerre, indicava Lenin, si accompagnano inevitabilmente al capitalismo. Il saccheggio dei territori altrui, la conquista e la spoliazione delle colonie, la presa di possesso di nuovi mercati, sono stati più di una volta i motivi delle guerre di rapina condotte dagli stati capitalistici. La guerra, per i paesi capitalistici, è un fenomeno altrettanto naturale e legittimo quanto lo sfruttamento della classe operaia.
Le guerre erano ormai divenute inevitabili, soprattutto da quando il capitalismo, alla fine del secolo XIX e agli inizi del XX secolo, si era venuto definitivamente trasformando nell'imperialismo, nel supremo ed ultimo stadio del suo sviluppo. Ora, nell'epoca dell'imperialismo, le potenti associazioni capitalistiche (i monopoli) e le banche erano venute ad assumere un'importanza decisiva, nella vita degli Stati capitalistici. Il capitale finanziario regnava ormai sovrano ed esigeva nuovi mercati, la conquista di nuove colonie, nuove sorgenti di materie prime e nuovi sbocchi per l'esportazione dei suoi capitali.
Ma, alla fine del secolo XIX, il territorio intiero del globo terrestre era già ripartito tra gli Stati capitalistici. Però, il capitalismo, nell'epoca dell'imperialismo, si sviluppa in modo estremamente ineguale ed a sbalzi: certi paesi, già al primo posto, sviluppano la loro industria con una certa lentezza, mentre altri, un tempo arretrati, a rapidi sbalzi, li raggiungono e sorpassano. Si modifica il rapporto delle forze economiche e belliche fra gli Stati imperialistici e si manifesta la tendenza ad una ridistribuzione del mondo. È la lotta per questa nuova spartizione del mondo che rende inevitabile la guerra imperialistica. Preparata da molto tempo da tutti gli Stati imperialistici, la guerra del 1914 fu una guerra per la ridistribuzione del mondo e delle sfere d'influenza. Gli imperialisti di tutti i paesi ne furono i responsabili.
La guerra l'avevano preparata soprattutto, da un lato, la Germania e l'Austria, dall'altro, la Francia, l'Inghilterra e la Russia che dipendeva da questi due ultimi paesi. Nel 1907, si era costituita la Triplice Intesa, o Intesa senz'altro, che era un'alleanza tra l'Inghilterra, la Francia e la Russia. La Germania, l'Austria-Ungheria e l'Italia rappresentavano l'altro blocco imperialista, da cui, all'inizio della guerra, l'Italia usciva per raggiungere, in seguito, l'Intesa. La Germania e l'Austria-Ungheria erano sostenute dalla Bulgaria e dalla Turchia.
Preparandosi alla guerra imperialistica, la Germania voleva strappare le colonie all'Inghilterra ed alla Francia e l'Ucraina, la Polonia e le regioni del Baltico alla Russia. La Germania minacciava i domini dell'Inghilterra nel Vicino Oriente, costruendo la strada ferrata di Bagdad. L'Inghilterra temeva lo sviluppo della flotta da guerra tedesca.
La Russia dello zar voleva smembrare la Turchia, sognava la conquista di Costantinopoli e dei Dardanelli, lo stretto che congiunge il Mar Nero al Mediterraneo. Nei piani del governo zarista, c'era anche la conquista di una parte dell'Austria-Ungheria, la Galizia.
L'Inghilterra voleva la guerra per battere la Germania, pericoloso concorrente, le cui merci, prima della guerra, battevano sempre più quelle inglesi sul mercato mondiale.
Inoltre, l'Inghilterra intendeva strappare la Mesopotamia e la Palestina alla Turchia e stabilirsi saldamente in Egitto.
I capitalisti francesi volevano togliere alla Germania il bacino della Saar, l'Alsazia e la Lorena, ricche di carbone e di ferro. L'Alsazia e la Lorena erano state strappate dalla Germania alla Francia nella guerra del 1870-1871.
Questi erano i profondi antagonismi che dividevano i due gruppi di Stati capitalistici ed avevano portato alla guerra imperialistica.
A questa guerra di rapina per la spartizione del mondo erano interessati tutti i paesi imperialistici; vi parteciparono perciò, in seguito, anche il Giappone, gli Stati Uniti d'America e molti altri Stati.
La guerra divenne mondiale.
La guerra imperialistica era stata preparata dalla borghesia nel più profondo segreto, all'insaputa dei popoli. Quando scoppiò, ogni governo imperialista si diede a provare di non essere l'aggressore, bensì la vittima dell'aggressore. La borghesia ingannava il popolo, nascondendo i veri motivi della guerra ed il suo carattere imperialistico, il suo carattere brigantesco. Ogni governo imperialista proclamò che faceva la guerra per la difesa della patria.
Gli opportunisti della II Internazionale aiutarono la borghesia nell'ingannare il popolo. I socialdemocratici della II Internazionale tradirono vilmente la bandiera del socialismo, la bandiera della solidarietà internazionale del proletariato. Lungi dall'insorgere contro la guerra, aiutarono la borghesia ad aizzare gli uni contro gli altri gli operai ed i contadini degli Stati belligeranti, invocando la difesa della patria.
Non era affatto a caso che la Russia era entrata nella guerra imperialistica a fianco dell'Intesa, cioè della Francia e dell'Inghilterra. Giova infatti rilevare che, prima del 1914, i rami industriali più importanti della Russia si trovavano nelle mani del capitalismo straniero, soprattutto di quello francese, inglese e belga, ossia dei paesi dell'Intesa. Le più importanti officine metallurgiche della Russia appartenevano a capitalisti francesi. Quasi i tre quarti (il 72 per cento) di tutta la metallurgia dipendevano dal capitale straniero. L'industria del carbon fossile, nel bacino del Donetz, presentava lo stesso quadro. Quasi la metà dell'industria petrolifera era in proprietà del capitale anglo-francese. Una parte considerevole dei profitti ricavati dall'industria russa finiva all'estero, e soprattutto nelle casseforti delle banche anglo-francesi. Ecco quali circostanze, prescindendo dai miliardi imprestati allo zar dalla Francia e dall'Inghilterra, incatenavano Io zarismo all'imperialismo anglo-francese e facevano della Russia un vassallo di quei paesi, una loro semicolonia.
La borghesia russa aveva calcolato, scatenando la guerra, di migliorare la propria situazione: conquistare nuovi mercati, trar profitto dalle ordinazioni e forniture militari, e, al tempo stesso, schiacciare il movimento rivoluzionario, approfittando della situazione creata dalla guerra.
Ma la Russia zarista non era preparata alla guerra. La sua industria era assai arretrata, rispetto agli altri paesi capitalistici. La maggior parte delle fabbriche ed officine aveva fatto il suo tempo e la loro attrezzatura era logora. L'agricoltura, dato il regime semifeudale di proprietà e l'impoverimento e la rovina delle masse contadine, non poteva costituire una solida base economica per una guerra prolungata.
Lo zar si appoggiava soprattutto sui proprietari fondiari feudali. Questi grandi signori della terra ultrareazionari, alleati con i grandi capitalisti, spadroneggiavano nel paese e alla Duma. Essi sostenevano, a spada tratta, la politica interna ed estera del governo zarista. La borghesia imperialista russa vedeva nell'autocrazia zarista la mano di ferro capace, da un lato, di assicurarle la conquista di nuovi mercati e di nuovi territori e, dall'altro, di schiacciare il movimento rivoluzionario degli operai e dei contadini.
Il partito della borghesia liberale - i cadetti - si atteggiava a oppositore, pur appoggiando in pieno la politica estera del governo.
I partiti piccolo-borghesi, - i socialisti-rivoluzionari ed i menscevichi - coprendosi con la bandiera del socialismo, aiutavano fin dall'inizio della guerra la borghesia ad ingannare il popolo e a nascondere il carattere imperialistico e brigantesco della guerra. Essi predicavano ch'era necessario difendere, salvare la «patria» borghese dai «barbari prussiani» e sostenevano la politica della «pacificazione nazionale», aiutando così il governo dello zar a fare la guerra, come i socialdemocratici tedeschi aiutavano il governo del kaiser a fare la guerra contro quei «barbari di russi».
Soltanto il partito bolscevico restò fedele al glorioso vessillo dell'internazionalismo rivoluzionario; solo, rimase fermo sulle posizioni marxiste per una lotta decisa contro l'autocrazia zarista, contro i proprietari fondiari e i capitalisti, contro la guerra imperialistica. Il partito bolscevico, fin dai primi giorni della guerra, sostenne il principio che la guerra non era stata affatto scatenata per la difesa della patria, ma per la conquista delle terre altrui, per il saccheggio degli altri popoli, nell'interesse dei proprietari fondiari e dei capitalisti, e che gli operai con tutte le forze dovevano dunque far la guerra a questa guerra.
La classe operaia sosteneva il partito bolscevico.
L'ubriacatura di patriottismo borghese onde erano stati presi, agli inizi della guerra, l'intellettualità e gli strati dei kulak nelle campagne, aveva in realtà trascinato anche una certa parte della classe operaia. Ma si trattava soprattutto di teppisti della «Unione del popolo russo» e di una parte degli operai a tendenza socialista-rivoluzionaria o menscevica. È evidente che costoro non esprimevano, non potevano esprimere il pensiero della classe operaia. Erano proprio questi elementi che partecipavano alle manifestazioni scioviniste della borghesia organizzate dal governo al principio della guerra.
 


2. I partiti della II Internazionale passano dalla parte dei loro rispettivi governi imperialisti. La II Internazionale si disgrega in vari partiti social-sciovinisti separati.
Lenin aveva più d'una volta messo in guardia contro l'opportunismo della Il Internazionale e l'instabilità dei suoi capi. Egli aveva affermato continuamente che i capi della II Internazionale avversavano la guerra solo a parole, ma che, se la guerra fosse scoppiata, avrebbero potuto abbandonare le loro posizioni, passare dalla parte della borghesia imperialistica e diventare fautori della guerra. Fin dai primi giorni della guerra, la previsione di Lenin si avverò.
Nel 1910, il congresso di Copenaghen della II Internazionale aveva approvato una risoluzione secondo la quale i socialisti dovevano nei parlamenti votare contro i crediti di guerra. Durante la guerra balcanica, nel 1912, il congresso di Basilea della II Internazionale aveva proclamato che gli operai di tutti i paesi consideravano come un crimine l'uccidersi a vicenda al solo scopo di aumentare i profitti dei capitalisti. Queste le posizioni prese, a parole, nelle risoluzioni.
Ma, quando scoppiò il colpo di folgore della guerra imperialistica ed era necessario tradurre in atto quelle decisioni, i capi della II Internazionale rivelarono il loro volto di infami traditori del proletariato e di servi della borghesia, divennero fautori della guerra.
Il 4 agosto 1914, la socialdemocrazia tedesca votò in Parlamento per i crediti di guerra, per l'appoggio alla guerra imperialistica. Altrettanto fece la stragrande maggioranza dei socialisti in Francia, Inghilterra, Belgio e altri paesi.
La II Internazionale aveva cessato di esistere. Di fatto essa si era disgregata in tanti partiti social-sciovinisti separati, che si facevano l'un l'altro la guerra.
I capi dei partiti socialisti, traditori del proletariato, passarono sulle posizioni del social-sciovinismo e della difesa della borghesia imperialista, aiutarono i governi imperialistici ad ingannare la classe operaia e ad intossicarla col veleno del nazionalismo. Quei social-traditori, sotto la bandiera della difesa della patria, aizzarono gli operai tedeschi contro gli operai francesi, gli operai inglesi e francesi contro gli operai tedeschi. Solo un'infima minoranza della II Internazionale rimase fedele alle posizioni internazionalistiche e marciò contro corrente, sia pure con una certa indecisione, senza molta sicurezza, ma, non di meno, contro corrente.
Soltanto il partito bolscevico, subito e senza esitazioni, aveva innalzato la bandiera della lotta a fondo contro la guerra imperialistica. Nelle tesi sulla guerra, scritte nell'autunno del 1914, Lenin rilevò che il crollo della Il Internazionale non era un effetto del caso. La II Internazionale era crollata a causa degli opportunisti, contro i quali i migliori rappresentanti del proletariato rivoluzionario avevano già da tempo messo in guardia.
I partiti della Il Internazionale erano, già nell'anteguerra, inquinati dall'opportunismo. Gli opportunisti predicavano apertamente l'abbandono della lotta rivoluzionaria, predicavano la teoria dell'«integrazione pacifica del capitalismo nel socialismo». La II Internazionale non voleva lottare, ma vivere in pace con gli opportunisti, permettendo loro di rafforzarsi. Seguendo una politica di conciliazione rispetto all'opportunismo, la II Internazionale era divenuta essa stessa opportunista.
La borghesia imperialista, con i profitti ricavati dalle colonie e dallo sfruttamento dei paesi arretrati, corrompeva sistematicamente, per mezzo di salari più elevati e altre elemosine, gli strati più alti degli operai qualificati, la cosiddetta aristocrazia operaia. Da questi strati erano sorti numerosi dirigenti di sindacati e di cooperative, consiglieri comunali e deputati, giornalisti e funzionari di organizzazioni socialdemocratiche. Scoppiata la guerra, questi signori, temettero di compromettere la loro posizione, divennero avversari della rivoluzione, divennero i più accaniti difensori della loro borghesia, del loro governo imperialista.
Gli opportunisti si erano trasformati in social-sciovinisti.
Costoro, compresi i menscevichi e i socialisti-rivoluzionari russi, predicavano la «pacificazione fra le classi », fra operai e borghesi nel seno del paese, e la guerra contro gli altri popoli; ingannavano le masse, nascondendo i veri colpevoli della guerra e proclamando che la propria borghesia non ne era responsabile. Molti social-sciovinisti divennero ministri nei governi imperialisti dei loro paesi.
Non meno pericolosi per la causa del proletariato erano i social-sciovinisti mascherati, i cosiddetti centristi. I centristi - Kautsky, Trotzki, Martov e altri - giustificavano e difendevano i social-sciovinisti dichiarati, ossia, insieme ai social-sciovinisti, tradivano il proletariato, coprendo il proprio tradimento con frasi «di sinistra» sulla lotta contro la guerra, allo scopo di illudere la classe operaia. In realtà, i centristi erano per la guerra; giacché la loro proposta di non votare contro i crediti di guerra, ma di astenersi dal voto, voleva dire infatti aiutare la guerra. E, precisamente come i social-sciovinisti, incitavano gli operai a rinunciare alla lotta di classe durante la guerra, per non creare impacci al proprio governo imperialista nella direzione della guerra. Il centrista Trotzki, in tutte le questioni più importanti riguardanti la guerra e il socialismo, era contro Lenin, contro il partito bolscevico.
Lenin, fin dai primi giorni della guerra, si era accinto, a radunare le forze per la fondazione di una nuova Internazionale, la III Internazionale. Già nel manifesto contro la guerra, lanciato nel novembre 1914, il Comitato Centrale del partito bolscevico assegnava come compito la fondazione della III Internazionale, al posto della Il Internazionale che aveva fatto una scandalosa bancarotta.
Nel febbraio del 1915, a Londra, il compagno Litvinov, per incarico di Lenin, parlò alla conferenza dei socialisti dei paesi dell'Intesa. Litvinov reclamò l'uscita dei socialisti (Vandervelde, Sembat, Guesde) dai governi borghesi del Belgio e della Francia, la rottura completa con gli imperialisti e il rifiuto di collaborare con loro. Egli reclamò da tutti i socialisti una lotta risoluta contro i loro governi imperialisti e la condanna del voto in favore dei crediti di guerra. Ma la voce di Litvinov non trovò eco in quella conferenza.
Ai primi di settembre del 1915, si riunì a Zimmerwald una I Conferenza degli internazionalisti, che Lenin definì come il «primo passo» sulla via dello sviluppo del movimento internazionale contro la guerra. Lenin vi costituì la sinistra di Zimmerwald. Ma in quella sinistra zimmerwaldiana, soltanto il partito dei bolscevichi, con a capo Lenin, teneva una posizione giusta contro la guerra, una posizione conseguente fino in fondo. La sinistra di Zimmerwald pubblicava in lingua tedesca la rivista Il Precursore , in cui apparvero articoli di Lenin.
Nel 1916, si riuscì a convocare nel villaggio svizzero di Kienthal una seconda conferenza degli Internazionalisti, che si chiamò la II Conferenza di Zimmerwald. In quel tempo, in quasi tutti i paesi si erano costituiti gruppi di internazionalisti; la separazione degli elementi internazionalisti dai social-sciovinisti si era venuta nettamente precisando. In fondo, erano le masse stesse che si erano venute radicalizzando, sotto l'influenza della guerra e delle sue nefaste conseguenze. Il manifesto di Kienthal era il risultato di un accordo raggiunto tra i differenti gruppi che si erano affrontati nella conferenza e segnava un passo in avanti rispetto al manifesto di Zimmerwald.
Ma neanche la conferenza di Kienthal fece propri i princìpi fondamentali della politica bolscevica: trasformazione della guerra imperialistica in guerra civile, disfatta militare del proprio governo imperialista, costituzione della III Internazionale, l'Internazionale Comunista.
Lenin criticò gli errori degli internazionalisti non conseguenti, socialdemocratici di sinistra, come Rosa Luxemburg e Carlo Liebknecht, ma li aiutò al tempo stesso a prendere posizioni giuste.
 


3. La teoria e la tattica del partito bolscevico nelle questioni della guerra, della pace e della rivoluzione.
I bolscevichi non erano semplici pacifisti che invocano la pace e si limitano a farne la propaganda, come in maggioranza facevano i socialdemocratici di sinistra. I bolscevichi erano per una lotta rivoluzionaria attiva in favore della pace, che giungesse fino all'abbattimento del potere della borghesia imperialistica guerrafondaia. I bolscevichi collegavano la causa della pace con quella della vittoria della rivoluzione proletaria, considerando che, per liquidare la guerra e ottenere una pace giusta, una pace senza annessioni e senza indennità, il mezzo più sicuro era quello di abbattere il potere della borghesia imperialistica.
In contrapposto ai menscevichi ed ai socialisti-rivoluzionari, che rinnegavano la rivoluzione, e contro la parola d'ordine di tradimento che invocava la «pacificazione nazionale» durante la guerra, i bolscevichi lanciarono la parola d'ordine della «trasformazione della guerra imperialistica in guerra civile ». Questa parola d'ordine significava che i lavoratori, compresi gli operai e i contadini armati che vestivano la casacca del soldato, dovevano rivolgere le armi contro le proprie borghesie e abbatterne il potere, se volevano liquidare la guerra e ottenere una pace giusta.
Alla politica menscevica e socialista-rivoluzionaria di difesa della patria borghese, i bolscevichi opponevano la politica diretta a ottenere la «disfatta del proprio governo nella guerra imperialistica ». Il che voleva dire che si doveva votare contro i crediti di guerra, creare delle organizzazioni rivoluzionarie clandestine nell'esercito, incoraggiare la fraternizzazione dei soldati al fronte e organizzare l'attività rivoluzionaria degli operai e dei contadini, facendola sboccare nell'insurrezione contro il loro proprio governo imperialista.
I bolscevichi consideravano che il minor male per il popolo, nella guerra imperialistica, era la disfatta militare del governo zarista perché avrebbe agevolato la vittoria del popolo sullo zarismo e la lotta vittoriosa della classe operaia per liberarsi dalla schiavitù capitalistica e dalle guerre imperialistiche. Lenin considerava inoltre che la politica diretta a ottenere la disfatta del proprio governo imperialista, doveva essere seguita non soltanto dai rivoluzionari russi, ma anche dai partiti rivoluzionari della classe operaia di tutti i paesi belligeranti.
I bolscevichi non erano contro tutte le guerre. Erano soltanto contro la guerra di conquista, contro la guerra imperialistica. I bolscevichi consideravano che vi sono due tipi di guerre:
a) la guerra giusta , non annessionistica; la guerra di liberazione, il cui scopo è o la difesa del popolo contro le aggressioni esterne e i tentativi per assoggettarlo, o l'emancipazione del popolo dalla schiavitù capitalistica, o, infine, la liberazione delle colonie e dei paesi dipendenti dal giogo degli imperialisti.
b) la guerra ingiusta , annessionistica, il cui scopo è di conquistare e di assoggettare altri paesi, altri popoli.
I bolscevichi sostenevano le guerre del primo tipo. In quanto alle guerre del secondo tipo, i bolscevichi consideravano che bisognava dirigere contro di esse una lotta risoluta, giungendo fino alla rivoluzione e all'abbattimento del proprio governo imperialista.
Le opere teoriche scritte da Lenin, durante la guerra, ebbero un'immensa importanza per la classe operaia del mondo intiero. Nella primavera del 1916, Lenin scrisse: «L'imperialismo, stadio supremo del capitalismo». L'imperialismo, - dimostrava Lenin in questo libro - è lo stadio supremo del capitalismo, lo stadio in cui, da capitalismo «progressivo» che era, si è già trasformato in capitalismo parassita, in capitalismo in putrefazione; l'imperialismo è il capitalismo morente. Naturalmente, ciò non significava affatto che il capitalismo sarebbe tramontato da solo senza la rivoluzione proletaria; che sarebbe deperito lentamente da solo fino alla sua scomparsa. Senza la rivoluzione della classe operaia, - Lenin ha sempre insegnato, - è impossibile abbattere il capitalismo. Ecco perché definendo l'imperialismo come un capitalismo morente, Lenin, nel suo libro, dimostra contemporaneamente che «l'imperialismo è la vigilia della rivoluzione sociale del proletariato».
Lenin dimostra che l'oppressione capitalistica nell'epoca dell'imperialismo si viene sempre più accentuando, che, nelle condizioni dell'imperialismo, sempre più profonda diventa I'indignazione del proletariato contro le basi del capitalismo, che gli elementi per un'esplosione rivoluzionaria si moltiplicano in seno ai paesi capitalistici.
Lenin dimostra che, nell'epoca dell'imperialismo, nei paesi coloniali e dipendenti, si aggrava la crisi rivoluzionaria, aumenta l'indignazione contro l'imperialismo; gli elementi per una guerra di liberazione dall'imperialismo si accumulano.
Lenin dimostra che, nelle condizioni dell'imperialismo, I'ineguaglianza di sviluppo e le contraddizioni del capitalismo si approfondiscono in modo particolare; che la lotta per i mercati, per l'esportazione delle merci e dei capitali, la lotta per le colonie, per le sorgenti di materie prime rende inevitabili le guerre imperialistiche periodiche per una nuova spartizione del mondo.
Lenin dimostra che, appunto in conseguenza dell'ineguale sviluppo del capitalismo, scoppiano le guerre imperialistiche, le quali indeboliscono le forze dell'imperialismo e rendono possibile la rottura del fronte dell'imperialismo nel suo punto più debole.
Sulla base di questi fatti, Lenin giungeva alla conclusione che: al proletariato era del tutto possibile di aprire una breccia sul fronte imperialistico in uno o più punti; era possibile la vittoria del socialismo, dapprima in alcuni paesi e magari in uno solo, preso isolatamente; la vittoria simultanea del socialismo in tutti i paesi era impossibile , dato l'ineguale sviluppo del capitalismo nei vari paesi; il socialismo avrebbe vinto dapprima in un solo o in alcuni paesi, mentre, per un certo tempo, gli altri paesi sarebbero rimasti borghesi.
Ecco come Lenin espose questa geniale conclusione in due differenti articoli, scritti nel tempo della guerra imperialistica:
 
1) L'ineguaglianza dello sviluppo economico e politico è una legge assoluta del capitalismo. Ne deriva che la vittoria del socialismo è possibile dapprima in alcuni paesi capitalistici e persino in un solo paese capitalistico, preso isolatamente. Il proletariato vittorioso in tale paese, espropriando i capitalisti e organizzando la produzione socialista, sorgerebbe contro il rimanente mondo capitalistico richiamando a sé le classi oppresse degli altri paesi... (Dall'articolo «Sulla parola d'ordine degli Stati Uniti d'Europa», scritto nell'agosto del 1915). (Lenin, «Opere scelte», Cooperativa Editrice dei Lavoratori Esteri dell'URSS, vol. V, pag. 161 ed. italiana).
2) Lo sviluppo del capitalismo avviene in modo estremamente ineguale nei vari paesi. Del resto, non può essere altrimenti, sotto il regime della produzione mercantile. Di qui, la conclusione incontestabile: il socialismo non può vincere contemporaneamente in tutti i paesi. Vincerà dapprima in uno o in alcuni paesi, mentre gli altri rimarranno per un certo tempo borghesi e preborghesi. Questa situazione non provocherà soltanto degli attriti, ma anche una tendenza manifesta della borghesia degli altri paesi a schiacciare il proletariato vittorioso dello Stato socialista. In questo caso, la guerra da parte nostra sarebbe legittima e giusta. Sarebbe una lotta per il socialismo, per la liberazione degli altri popoli dal giogo della borghesia. (Dall'articolo «Programma militare della rivoluzione proletaria», scritto nell'autunno del 1916). (Lenin, «Opere», vol. XIX, pag. 325 ed. russa).
 
Teoria nuova . Teoria completa, della rivoluzione socialista. Era una teoria sulla possibilità della vittoria del socialismo in singoli paesi presi a sé, una teoria sulle condizioni della sua vittoria, sulle prospettive della sua vittoria, una teoria, le cui basi erano state gettate da Lenin fin dal 1905 nella sua opera: «Due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica».
Questa teoria differiva radicalmente dalla concezione diffusa tra i marxisti nel periodo del capitalismo preimperialistico , allorché i marxisti ritenevano che il socialismo non avrebbe potuto vincere in un solo paese, ma avrebbe trionfato contemporaneamente i tutti i paesi civili. Lenin, partendo dai dati relativi al capitalismo imperialistico , esposti nella sua opera poderosa «L'imperialismo, come stadio supremo del capitalismo», distruggeva quella concezione come sorpassata e formulava una nuova concezione teorica che considerava la vittoria simultanea del socialismo in tutti i paesi impossibile , mentre la vittoria del socialismo in un solo paese capitalistico, preso a sé, era riconosciuta possibile .
E ciò che rende inapprezzabile il valore della teoria di Lenin sulla rivoluzione socialista, non è soltanto il fatto che essa ha arricchito il marxismo d'una nuova teoria e l'ha fatto progredire. Il suo valore consiste anche in ciò che essa dà una prospettiva rivoluzionaria ai proletari dei vari paesi, stimola la loro iniziativa per l'assalto alla propria borghesia nazionale, insegna loro a valersi di tutte le circostanze create dalla guerra per preparare questo assalto e rafforza la loro fede nella vittoria della rivoluzione proletaria.
Tale la concezione teorica e tattica dei bolscevichi nelle questioni della guerra, della pace e della rivoluzione.
È basandosi su questa concezione che i bolscevichi svolgevano il loro lavoro pratico in Russia.
Nonostante le feroci persecuzioni poliziesche, i deputati bolscevichi alla Duma, Badaiev, Petrovski, Muranov, Samoilov, Sciagov all'inizio della guerra si recarono in molte organizzazioni per spiegare l'atteggiamento dei bolscevichi di fronte alla guerra e alla rivoluzione. Nel novembre del 1914, il gruppo bolscevico della Duma si riunì per discutere sull'atteggiamento da tenersi nei riguardi della guerra. Nel terzo giorno della conferenza, i convenuti furono arrestati. Il tribunale condannò tutti i deputati alla privazione dei diritti civili e politici e alla deportazione nella Siberia orientale; il governo zarista imputava di «alto tradimento» i deputati bolscevichi alla Duma.
Il processo mise in luce l'attività che era stata svolta dai deputati, e che faceva onore al nostro partito. I deputati bolscevichi tennero un atteggiamento coraggioso di fronte al tribunale zarista, che trasformarono in una tribuna per denunciare la politica brigantesca dello zarismo.
Ben altra la condotta di Kamenev imputato nello stesso processo. Immediatamente, di fronte al primo pericolo, rinnegò, per vigliaccheria, la politica del partito bolscevico. Kamenev proclamò al processo il suo disaccordo con i bolscevichi nella questione della guerra e per dimostrarlo chiese che fosse udito come teste il menscevico Iordanski.
I bolscevichi svolsero un grande lavoro contro i comitati di mobilitazione industriale, organizzati per sostenere la guerra, e contro i tentativi dei menscevichi di porre gli operai sotto l'influenza della borghesia imperialista. Per la borghesia era di somma importanza presentare di fronte a tutti la guerra imperialistica come la causa del popolo intiero. Durante la guerra, essa era venuta acquistando una notevole influenza negli affari dello Stato, avendo creato una propria organizzazione nazionale composta dalle «Unioni degli zemstvo e delle città», ma le era necessario di sottomettere ora alla propria direzione e alla propria influenza anche gli operai. Escogitò a tal fine la creazione di «gruppi operai» presso i comitati di mobilitazione industriale. I menscevichi fecero proprio questo piano. I borghesi avevano interesse a far partecipare ai comitati di mobilitazione industriale i rappresentanti degli operai, affinché si sforzassero di persuadere le masse operaie della necessità di aumentare la produttività del lavoro nelle fabbriche di obici, di cannoni, di fucili, di cartucce, e in tutte le altre aziende addette alla difesa. «Tutto per la guerra, tutto alla guerra», questa era la parola d'ordine della borghesia. In realtà, ciò voleva dire: «Arricchisciti più che puoi con le forniture belliche e con la rapina delle terre altrui». I menscevichi parteciparono attivamente a quell'attività pseudopatriottica intrapresa dalla borghesia. Aiutando i capitalisti, si sforzavano di convincere gli operai a partecipare alle elezioni dei «gruppi operai» presso i comitati di mobilitazione industriale. I bolscevichi, che erano contro questa impresa, decisero invece di boicottare i comitati e realizzarono con successo il boicottaggio. Una parte degli operai partecipò tuttavia ai lavori dei comitati, sotto la direzione del noto menscevico Gvozdev e dell'agente provocatore Abrossimov. Ma quando, nel settembre 1915, i fiduciari operai si riunirono per procedere alle elezioni definitive dei «gruppi operai» nei comitati di mobilitazione industriale, risultò che la maggioranza dei convenuti era contraria alla partecipazione. In maggioranza, i fiduciari operai approvarono una risoluzione che condannava recisamente la partecipazione ai comitati e dichiararono che gli operai si ponevano come compito di lottare per la pace, per l'abbattimento dello zarismo.
I bolscevichi svolsero un grande lavoro anche nell'esercito e nella flotta: denunciavano alle masse dei soldati e dei marinai i colpevoli degli inauditi errori della guerra e delle sofferenze popolari e spiegavano che, per il popolo, l'unica via d'uscita dalla carneficina imperialistica era la rivoluzione; creavano delle cellule nell'esercito e nella flotta al fronte e fra le truppe nelle retrovie, e diffondevano manifestini con appelli contro la guerra.
A Kronstadt fu creato dai bolscevichi il «Gruppo centrale dell'organizzazione militare di Kronstadt» che era in stretto contatto col Comitato di Pietrogrado del partito. Fu creata un'organizzazione militare presso il Comitato di Pietrogrado del partito per il lavoro da svolgere nella guarnigione. Nell'agosto del 1916 il capo dell'Okhrana di Pietrogrado stese un rapporto che diceva: «Nel gruppo di Kronstadt, il lavoro è organizzato in modo molto serio, clandestino; gli aderenti al gruppo sanno tutti tacere ed essere guardinghi. Questo gruppo ha anche dei rappresentanti a terra».
Il partito svolgeva al fronte un'agitazione per la fraternizzazione tra i soldati degli eserciti belligeranti; metteva in rilievo che la borghesia mondiale era il nemico e che si poteva porre fine alla guerra imperialistica solo trasformandola in guerra civile e rivolgendo le armi contro la propria borghesia e il proprio governo. Sempre più sovente accadeva che, qua e là, reparti di truppe si rifiutassero di andare all'attacco. Fatti di questo genere si verificarono già nel 1915 e soprattutto nel 1916.
Particolarmente intensa fu l'attività svolta dai bolscevichi tra le armate del fronte settentrionale, che si trovavano nella regione del Baltico. Il comandante in capo dell'armata del fronte settentrionale, il generale Ruzski, in sul principio del 1917 riferiva ai suoi superiori che il lavoro rivoluzionario svolto dai bolscevichi su quel fronte era enorme.
La guerra rappresentava una svolta immane nella vita dei popoli, nella vita della classe operaia internazionale; poneva in giuoco la sorte degli Stati, il destino dei popoli, il destino del movimento socialista. Perciò fu al tempo stesso la pietra di paragone, una prova per tutte le correnti e i partiti che si richiamavano al socialismo. Sarebbero questi partiti e correnti rimasti fedeli alla causa del socialismo, alla causa dell'internazionalismo? Oppure preferivano tradire la classe operaia, ripiegare le loro bandiere e gettarle ai piedi della loro borghesia nazionale? Ecco il quesito che si poneva in quel tempo.
La guerra rivelò che i partiti della II Internazionale non avevano superato la prova, avevano tradito la classe operaia e abbassato le bandiere di fronte alla loro borghesia nazionale, alla loro borghesia imperialista.
Del resto, come avrebbero potuto agire altrimenti questi partiti che avevano coltivato nel loro seno l'opportunismo ed erano stati educati nello spirito dell'arrendevolezza verso gli opportunisti, verso i nazionalisti?
La guerra rivelò che il partito dei bolscevichi fu l'unico che superò con onore la prova, rimanendo fedele fino in fondo alla causa del socialismo, alla causa dell'internazionalismo proletario.
È chiaro che solo un partito di nuovo tipo, solo un partito educato nello spirito di una lotta tenace contro l'opportunismo, solo un partito alieno dall'opportunismo e dal nazionalismo, solo un partito come questo, poteva sostenere la grande prova e rimanere fedele alla causa della classe operaia, alla causa del socialismo e dell'internazionalismo.
Questo partito fu il partito bolscevico.
 


4. Disfatta dell'esercito zarista al fronte. Rovina economica. Crisi dello zarismo.
La guerra durava ormai da tre anni, divorando milioni di vite umane, tra gli uccisi, i feriti e le vittime delle epidemie da essa stessa cagionate. La borghesia e i proprietari terrieri si arricchivano, mentre gli operai e i contadini sopportavano vieppiù sacrifici e privazioni. La guerra demoliva l'economia nazionale della Russia. All'incirca, 14 milioni di lavoratori validi erano stati incorporati nell'esercito e strappati al lavoro produttivo; le fabbriche e le officine si chiudevano. Diminuivano le seminagioni del grano per mancanza di braccia. La popolazione e i soldati al fronte erano affamati, scalzi e stracciati. La guerra inghiottiva tutte le risorse del paese.
L'esercito zarista subiva una sconfitta dopo l'altra. Mentre l'artiglieria tedesca faceva piovere sulle truppe zariste una gragnuola di proiettili, l'esercito dello zar non disponeva a sufficienza né di cannoni, né di munizioni e nemmeno di fucili. Avveniva che ci fosse un solo fucile per tre soldati. In piena guerra, si era scoperto il tradimento del ministro della guerra Sukhomlinov, che aveva legami con le spie tedesche. Sukhomlinov, eseguendo gli ordini ricevuti dai servizi di spionaggio tedesco, sabotava l'approvvigionamento del fronte in munizioni, lasciava il fronte senza cannoni e senza fucili. Alcuni ministri e generali dello zar contribuivano sotto mano ai successi dell'esercito tedesco; d'accordo con la zarina, che aveva pure dei legami coi tedeschi, comunicavano loro i segreti militari. Nulla di strano che l'esercito dello zar subisse delle sconfitte e fosse costretto a retrocedere. Verso il 1916, i tedeschi si erano già impadroniti della Polonia e di una gran parte delle Regioni baltiche.
Tutti questi avvenimenti provocavano l'odio e la collera degli operai, dei contadini, dei soldati e degli intellettuali contro il governo zarista; approfondivano ed inasprivano il movimento rivoluzionario delle masse popolari contro la guerra, contro lo zarismo, sia nelle retrovie che al fronte, sia al centro che alla periferia.
L'ondata di malcontento aveva raggiunto anche la borghesia imperialista russa. Ciò che l'irritava era lo spettacolo che offriva la corte imperiale dove spadroneggiavano degli avventurieri del genere di Rasputin, i quali miravano in modo manifesto a una pace separata coi tedeschi. Essa si convinceva sempre più che il governo dello zar era incapace di vincere la guerra e temeva che lo zarismo, per salvare la sua situazione, concludesse la pace separata coi tedeschi. La borghesia russa decise perciò una rivoluzione di palazzo per detronizzare Nicola II e sostituirlo con uno zar legato ad essa: Michele Romanov. La borghesia russa intendeva, così, ottenere d'un colpo solo due risultati: in primo luogo, insinuarsi al potere e assicurare la continuazione della guerra imperialistica; in secondo luogo, prevenire con una piccola rivoluzione di palazzo l'avvento della grande rivoluzione popolare di cui vedeva avanzare lo spettro.
In questa trama, la borghesia russa godeva l'appoggio intiero dei governi inglese e francese, i quali capivano che lo zar era incapace di proseguire la guerra e temevano finisse col firmare la pace separata coi tedeschi. Se il governo dello zar avesse concluso la pace separata, i governi di Inghilterra e di Francia, perdendo la Russia, avrebbero perduto un alleato, che, oltre a trattenere sui suoi fronti delle forze nemiche, forniva alla Francia decine di migliaia di soldati russi scelti. Ecco perché i due governi sostenevano la borghesia russa nel suo tentativo di rivoluzione di palazzo.
Lo zar rimase in tal modo isolato.
Mentre sul fronte si moltiplicavano gli insuccessi, la rovina economica si aggravava sempre più. Nel gennaio-febbraio 1917, la crisi delle derrate alimentari, delle materie prime e dei combustibili raggiunse un'estrema acutezza, il suo punto culminante. Cessò quasi completamente il trasporto dei generi alimentari per Pietrogrado e per Mosca. Gli stabilimenti chiudevano l'uno dopo l'altro i battenti, aumentando la disoccupazione. Soprattutto la situazione degli operai era diventata insostenibiIe. Masse popolari sempre più vaste si convincevano che non v'era che una via per uscire da quella situazione insopportabile: rovesciare l'autocrazia zarista.
Era evidente che lo zarismo attraversava una crisi mortale.
La borghesia credeva di poter risolvere la crisi con una rivoluzione di palazzo.
Ma il popolo la risolse a modo suo.
 


5. Rivoluzione di Febbraio. Caduta dello zarismo. Formazione dei Soviet dei deputati operai e soldati. Formazione del governo provvisorio. Dualismo del potere.
L'anno 1917 esordì con lo sciopero del 9 (22) gennaio. Durante la sciopero, ebbero luogo manifestazioni a Pietrogrado, a Mosca, a Bakù, a Nizni-Novgorod. A Mosca, scioperarono circa un terzo di tutti gli operai e una dimostrazione di duemila persone fu sciolta dalla polizia a cavallo sul viale Tverskoi. A Pietrogrado, sulla strada di Vyborg, i soldati fecero causa comune coi dimostranti.
«L'idea dello sciopero generale - riferiva la polizia di Pietrogrado in un suo rapporto - acquista ogni giorno nuovi partigiani e diventa popolare, come nel 1905».
I menscevichi e i socialisti-rivoluzionari si sforzavano di incanalare il movimento rivoluzionario iniziatosi, entro i limiti voluti dalla borghesia liberale. Il 14 febbraio, in occasione dell'apertura della Duma di Stato, i menscevichi proposero di organizzare un corteo di operai verso la Duma. Ma le masse operaie seguirono i bolscevichi: anziché andare alla Duma manifestarono sulle piazze.
Il 18 febbraio 1917, scoppiò a Pietrogrado Io sciopero degli operai dell'officina Putiluv. Il 22 febbraio, gli operai di quasi tutti i grandi stabilimenti si univano al movimento. Nella giornata internazionale delle donne, 23 febbraio (8 Marzo), in seguito ad un appello del Comitato bolscevico di Pietrogrado, le operaie scesero nelle strade a manifestare contro la fame, la guerra, lo zarismo. La dimostrazione delle operaie fu sostenuta dallo sciopero generale degli operai di Pietrogrado. Lo sciopero politico si trasformò in una manifestazione politica generale contro il regime zarista.
Il 24 febbraio (9 marzo), la manifestazione raddoppiò di vigore. Questa volta circa 200 mila operai sono in sciopero.
Il 25 febbraio (10 marzo), il movimento rivoluzionario si estende a tutti gli operai di Pietrogrado. Gli scioperi politici dei vari rioni si trasformano in uno sciopero politico generale dell'intera città. Ovunque, non si vedono che dimostrazioni e conflitti con la polizia. Sulle masse degli operai dimostranti sventolano bandiere rosse su cui sono scritte queste parole d'ordine: «Abbasso lo zar», «Abbasso la guerra», «Pane!».
La mattina del 26 febbraio (11 marzo), lo sciopero politico e le manifestazioni cominciarono a trasformarsi in tentativi insurrezionali. Gli operai disarmano la polizia e la gendarmeria e si armano a loro volta. Però, il conflitto armato con la polizia termina con un sanguinoso eccidio in piazza Znamenskaia.
Il generale Khabalov, il comandante in capo del distretto militare di Pietrogrado, intima agli operai la ripresa del lavoro per il 28 febbraio (13 marzo), se non volevano essere inviati al fronte, e il 25 febbraio (10 marzo), lo zar trasmette al generale Khabalov l'ordine che segue: «Comando di far cessare da domani i disordini nella capitale».
Ma non era più possibile «far cessare» la rivoluzione !...
Nella giornata del 26 febbraio (11 marzo), la 4ª compagnia del battaglione di riserva del reggimento Pavlovski aprì il fuoco, non già sugli operai, ma sui distaccamenti di guardie a cavallo impegnati in un conflitto armato con gli operai. La lotta per la conquista dell'esercito si sviluppò energica e tenace, soprattutto ad opera delle donne, delle operaie, che si rivolgevano direttamente ai soldati, fraternizzando con loro e li esortavano ad aiutare il popolo nell'abbattere l'esecrata autocrazia zarista.
L'azione pratica del partito bolscevico era diretta in quel periodo dall'Ufficio del Comitato Centrale del nostro partito, la cui sede era allora a Pietrogrado, e a capo del quale si trovava il compagno Molotov. L'Ufficio del Comitato Centrale lanciò il 27 febbraio (11 marzo) un manifesto che impegnava a proseguire la lotta armata contro lo zarismo ed a costituire un governo rivoluzionario provvisorio.
Il 27 febbraio (12 marzo) le truppe di Pietrogrado si rifiutarono di sparare sugli operai e passarono dalla parte del popolo insorto; mentre al mattino non vi erano che 10 mila soldati insorti, alla sera se ne potevano contare oltre 60 mila.
Gli operai e soldati insorti procedevano all'arresto dei ministri e dei generali zaristi: liberavano i rivoluzionari imprigionati, e i prigionieri politici, non appena liberi, si univano alla lotta rivoluzionaria.
Nelle strade continuò ancora per qualche tempo la sparatoria coi poliziotti e i gendarmi che avevano piazzato delle mitragliatrici nei solai e sui tetti, ma il rapido passaggio delle truppe dalla parte degli operai decise le sorti dell'autocrazia zarista.
Quando la notizia che la rivoluzione era vittoriosa a Pietrogrado si diffuse nelle altre città e al fronte, gli operai e i soldati, dappertutto, cominciarono a destituire i funzionari zaristi.
La rivoluzione democratico-borghese di Febbraio aveva vinto.
Aveva vinto perché la classe operaia ne era stata promotrice e si era messa alla testa del movimento di milioni di contadini, sotto le armi, «per la pace, per il pane, per la libertà». L'egemonia del proletariato aveva determinato il successo della rivoluzione.
 
La rivoluzione è stata compiuta dal proletariato; è il proletariato che ha dato prova di eroismo, che ha sparso il sangue, che ha portato dietro a sé le più larghe masse dei lavoratori e della popolazione povera... - scriveva Lenin nei primi giorni della rivoluzione. (Lenin, «Opere», vol. XX, pagg. 23-24 ed. russa).
 
La prima rivoluzione del 1905 aveva preparato la rapida vittoria della seconda del 1917.
 
Se il proletariato russo - scrisse Lenin - non avesse, per tre anni, dal 1905 ai 1907, combattuto le più grandi battaglie di classe e spiegato la sua energia rivoluzionaria, la seconda rivoluzione non sarebbe stata così rapida, cioè la sua tappa iniziale non sarebbe stata percorsa in pochi giorni. (Ibidem , pag. 13).
 
I Soviet apparvero fin dai primi giorni della rivoluzione. La rivoluzione vittoriosa si appoggiò sui Soviet dei deputati operai e soldati, creati dagli operai e dai soldati insorti. La rivoluzione del 1905 aveva dimostrato che i Soviet erano gli organi dell'insurrezione armata e, al tempo stesso, l'embrione di un potere nuovo, rivoluzionario. L'idea dei Soviet era viva nella coscienza delle masse operaie ed esse, il giorno dopo aver abbattuto Io zarismo, lo tradussero in atto: vi era tuttavia una differenza: nel 1905, erano stati costituiti dei Soviet soltanto di deputati operai , ora nel Febbraio del 1917, per iniziativa dei bolscevichi, sorgevano dei Soviet di deputati operai e soldati .
Mentre però i bolscevichi assumevano la direzione immediata della lotta delle masse nelle strade, i partiti di conciliazione, i menscevichi e i socialisti-rivoluzionari, si impossessavano dei seggi di deputato nei Soviet, stabilendovi la loro maggioranza. In parte aveva contribuito a questa situazione, il fatto che la maggioranza dei capi del partito bolscevico si trovava in prigione e in esilio (Lenin, nell'emigrazione, Stalin e Sverdlov deportati in Siberia), mentre i menscevichi e i socialisti-rivoluzionari passeggiavano liberamente per le vie di Pietrogrado. Così avvenne che a capo del Soviet di Pietrogrado e del suo Comitato Esecutivo, si trovarono i rappresentanti dei partiti di conciliazione: menscevichi e socialisti-rivoluzionari. Lo stesso avveniva a Mosca e in diverse altre città. Soltanto a Ivanovo-Voznessensk, a Krasnoiarsk e in alcune altre città, la maggioranza nei Soviet appartenne ai bolscevichi fin dal principio.
Il popolo armato, gli operai e i soldati, invitarono i loro rappresentanti al Soviet, consideravano il Soviet come l'organo del potere popolare. Essi pensavano, erano convinti che il Soviet dei deputati operai e soldati avrebbe realizzato tutte le rivendicazioni del popolo rivoluzionario e che, innanzi tutto, sarebbe stata conclusa la pace.
Ma l'eccessiva ingenuità degli operai e soldati doveva giuocar loro un brutto scherzo. I socialisti-rivoluzionari e i menscevichi non pensavano neppure lontanamente a porre fine alla guerra, a ottenere la pace, ma intendevano utilizzare la rivoluzione per continuare la guerra. In quanto alla rivoluzione e alle rivendicazioni rivoluzionarie del popolo, i socialisti-rivoluzionari e i menscevichi ritenevano che la rivoluzione fosse già bell'e compiuta e che ormai si trattasse solo di consolidarla e di porsi sulla via di una coesistenza costituzionale, «normale», con la borghesia. Perciò, la direzione socialista-rivoluzionaria e menscevica del Soviet di Pietrogrado fece immediatamente tutto il possibile per sfuggire al problema della cessazione della guerra, al problema della pace e per consegnare il potere alla borghesia.
Il 27 febbraio (12 marzo) 1917, i deputati liberali della Duma di Stato, dopo essersi concertati dietro le quinte con i capi dei socialisti-rivoluzionari e dei menscevichi, costituirono il Comitato provvisorio della Duma, con a capo Rodzianko, presidente della IV Duma, monarchico e grande proprietario di terre. Alcuni giorni dopo, il Comitato provvisorio suddetto e i capi socialisti-rivoluzionari e menscevichi del Comitato Esecutivo del Soviet dei deputati operai e soldati, si misero d'accordo tra di loro, all'insaputa dei bolscevichi, per formare un nuovo governo della Russia, il Governo provvisorio borghese, con a capo il principe Lvov, che lo zar Nicola II, prima della rivoluzione di Febbraio, aveva pensato di nominare suo primo ministro. Nel Governo provvisorio entrarono il capo dei cadetti, Miliukov, il capo degli ottobristi, Gutsckov, altre personalità della classe dei capitalisti, e, infine, il socialista-rivoluzionario Kerenski, introdottovi come rappresentante della «democrazia».
Ecco come i capi socialisti-rivoluzionari e menscevichi del Comitato Esecutivo del Soviet consegnarono il potere alla borghesia. Il Soviet dei deputati operai e soldati, messo al corrente della cosa, approvò a maggioranza l'attività dei dirigenti socialisti-rivoluzionari e menscevichi, nonostante le proteste dei bolscevichi.
Ecco come fu formato il nuovo potere statale in Russia, composto, come diceva Lenin, dai rappresentanti «della borghesia e dei grandi proprietari fondiari imborghesiti».
Ma, accanto al governo borghese, esisteva un altro potere: il Soviet dei deputati operai e soldati. I deputati soldati erano soprattutto dei contadini mobilitati. Il Soviet dei deputati operai e soldati era l'organo dell'alleanza degli operai e dei contadini contro il potere zarista e, nello stesso tempo, l'organo del loro potere, l'organo della dittatura della classe operaia e dei contadini.
Da questo fatto derivava un originale intreccio di due poteri, di due dittature, la dittatura della borghesia, rappresentata dal Governo provvisorio, e la dittatura del proletariato e dei contadini, rappresentata dal Soviet dei deputati operai e soldati.
Vi era il dualismo del potere .
Come spiegarsi che i menscevichi e i socialisti-rivoluzionari, all'inizio, si siano trovati in maggioranza nei Soviet?
Come spiegarsi che gli operai e i contadini vittoriosi abbiano volontariamente consegnato il potere ai rappresentanti della borghesia?
Lenin lo spiegava col fatto che milioni di uomini s'erano svegliati ed erano stati attratti alla vita politica, senza esservi preparati. Erano in gran parte piccoli padroni di aziende, contadini, operai giunti da poco dalle campagne, gente che stava tra la borghesia e il proletariato. La Russia era allora, tra tutti i grandi paesi europei, il paese più piccolo-borghese. E in questo paese «un'ondata piccolo-borghese formidabile aveva tutto travolto, aveva sommerso il proletariato cosciente, non solo con il suo numero, ma anche con la sua ideologia, ossia aveva contaminato larghissimi strati operai, trasmettendo loro le sue concezioni politiche piccolo-borghesi». (Lenin, «Opere», vol. XX, pag. 115 ed. russa).
È quest'ondata dell'elemento piccolo-borghese che aveva riportato a galla i partiti piccolo-borghesi menscevico e socialista-rivoluzionario.
Lenin indicò che un'altra ragione di questo fenomeno doveva ricercarsi nella mutata composizione del proletariato durante la guerra e nell'insufficiente grado di coscienza e di organizzazione del proletariato agli inizi della rivoluzione. Durante la guerra, la composizione dello stesso proletariato si era considerevolmente modificata. Circa il 40 per cento dei vecchi operai erano stati chiamati alle armi. Per sfuggire alla mobilitazione, molti piccoli proprietari, artigiani, bottegai, di mentalità non proletaria, erano entrati, durante la guerra, negli stabilimenti.
Sono questi elementi piccolo-borghesi del mondo operaio che costituirono precisamente il terreno da cui trassero forza i politicanti piccolo-borghesi, menscevichi e socialisti-rivoluzionari.
Ecco perché le grandi masse popolari, nuove alla politica, travolte dall'ondata degli elementi piccolo-borghesi e inebriate dai primi successi della rivoluzione, si trovarono, nei primi mesi della rivoluzione, prigioniere dei partiti conciliatori; ecco perché acconsentirono a cedere il potere statale alla borghesia, pensando ingenuamente che il potere borghese non avrebbe ostacolato l'attività dei Soviet.
Un compito si poneva di fronte al partito bolscevico: con un paziente lavoro di chiarificazione fra le masse, smascherare il carattere imperialistico del Governo provvisorio, denunciare il tradimento dei socialisti-rivoluzionari e dei menscevichi e dimostrare che era impossibile ottenere la pace, senza sostituire al Governo provvisorio il Governo dei Soviet.
Il partito bolscevico si dedicò con la massima energia a questo lavoro.
Ed ecco che il partito bolscevico ricostituisce i suoi organi di stampa legali. Cinque giorni dopo la rivoluzione di Febbraio, comincia ad uscire la Pravda a Pietrogrado e alcuni giorni dopo il Sozial-demokrat a Mosca. Il partito si pone alla testa delle masse, che perdono la loro fiducia nella borghesia liberale, nei menscevichi e nei socialisti-rivoluzionari; spiega pazientemente ai soldati, ai contadini la necessità di un'azione comune con la classe operaia; spiega loro che i contadini non otterranno né la pace né la terra se la rivoluzione non continuerà a svilupparsi, se il Governo provvisorio borghese non sarà sostituito dal Governo dei Soviet.
 


Conclusioni riassuntive
La guerra imperialistica scoppiò per effetto dell'ineguaglianza di sviluppo dei paesi capitalistici, per effetto della rottura dell'equilibrio tra le principali potenze e per effetto della necessità per gli imperialisti di procedere a mezzo della guerra ad una nuova ripartizione del mondo e stabilire un nuovo equilibrio di forze.
La guerra non avrebbe avuto un carattere così micidiale, forse anche non si sarebbe estesa con tanta violenza, se i partiti della Il Internazionale non avessero tradito la causa della classe operaia, se non avessero violato le risoluzioni dei congressi della II Internazionale contro la guerra, se si fossero decisi a reagire energicamente e a sollevare la classe operaia contro i propri governi imperialisti, contro i fautori della guerra.
Il partito bolscevico fu il solo partito proletario che restò fedele alla causa del socialismo e dell'internazionalismo e che scatenò la guerra civile contro il proprio governo imperialista. Tutti gli altri partiti della II Internazionale, legati com'erano alla loro borghesia per mezzo dei loro gruppi dirigenti, caddero nelle mani dell'imperialismo, passarono nel campo imperialista.
La guerra, conseguenza della crisi generale del capitalismo, aggravò la crisi stessa e indebolì il capitalismo mondiale. Gli operai della Russia e il partito bolscevico, per i primi nella storia, seppero valersi con successo della debolezza del capitalismo, ruppero il fronte dell'imperialismo, rovesciarono lo zar e crearono i Soviet dei deputati operai e soldati.
Inebriate dai primi successi della rivoluzione e rassicurate dalle promesse dei menscevichi e dei socialisti-rivoluzionari, i quali pretendevano che tutto ormai sarebbe proceduto nel migliore dei modi, le grandi masse di piccoli-borghesi, di soldati e anche di operai ebbero fiducia nel governo provvisorio e lo appoggiarono.
Un compito si poneva al partito bolscevico: spiegare alle masse degli operai e dei soldati, inebriati dai primi successi, che la vittoria completa della rivoluzione era ancora lontana; che fino a quando il potere si trovava nelle mani del governo borghese provvisorio e finché nei Soviet spadroneggiavano i conciliatori - menscevichi e socialisti-rivoluzionari - il popolo non poteva ottenere né la pace, né la terra, né il pane; e che, per la vittoria completa, era necessario fare ancora un passo in avanti: dare il potere ai Soviet!
 
 
VII.
Il partito bolscevico prepara e conduce alla vittoria. La Rivoluzione Socialista d'Ottobre
(Aprile 1917-1918)


 


Situazione nel paese dopo la rivoluzione di Febbraio. Il partito esce dall'illegalità e passa all'attività politica aperta. Arrivo di Lenin a Pietrogrado. Le Tesi d'Aprile di Lenin. Il partito si orienta verso la rivoluzione socialista.
Gli avvenimenti e la condotta del Governo provvisorio confermavano sempre più la giustezza della linea bolscevica. Essi dimostravano all'evidenza che il Governo provvisorio non era per il popolo, ma contro il popolo, non era per la pace, ma per la guerra, che non voleva e non poteva dare né la pace, né la terra, né il pane. L'opera di chiarificazione svolta dai bolscevichi trovava un terreno favorevole.
Mentre gli operai e i soldati abbattevano il governo dello zar e demolivano dalle fondamenta la monarchia, il Governo provvisorio mostrava chiaramente di voler salvare la monarchia. Il 2 marzo 1917, esso inviava in segreto Gutsckov e Sciulghin dallo zar. La borghesia voleva affidare il potere a Michele, fratello di Nicola Romanov. Ma quando, in un comizio di ferrovieri, Gutsckov concluse il suo discorso al grido di «Evviva l'imperatore Michele!», gli operai esigettero che lo si arrestasse e perquisisse immediatamente; indignati, essi ripetevano il proverbio: «Il ravanello non è meno forte della radice».
Era chiaro che gli operai non avrebbero tollerato la restaurazione della monarchia.
Mentre gli operai e i contadini, facendo la rivoluzione, spargendo il loro sangue, attendevano che il paese fosse strappato alla guerra, reclamavano pane e terra ed esigevano provvedimenti decisivi contro la rovina economica, il Governo provvisorio rimaneva sordo a queste rivendicazioni vitali del popolo. Composto dai rappresentanti più in vista dei capitalisti e dei proprietari fondiari, non pensava affatto ad accogliere le rivendicazioni dei contadini, che reclamavano la terra. E non poteva dare ai lavoratori neppure il pane, giacché sarebbe stato costretto a ledere gli interessi dei grossi mercanti di grano e ad impiegare tutti i mezzi per ritogliere il grano ai grandi proprietari fondiari ed ai kulak. Il governo non si decideva a farlo, essendo egli stesso legato agli interessi di quelle classi. E neanche poteva dare la pace. Legato agli imperialisti anglo-francesi, il Governo provvisorio, ben lontano dall'idea di far cessare la guerra, si sforzava anzi di approfittare della rivoluzione perché la Russia partecipasse in modo più attivo alla guerra e per tradurre in atto le proprie mire imperialistiche: impadronirsi di Costantinopoli e degli Stretti, come pure della Galizia.
Era chiaro che la fiducia delle masse popolari nella politica del Governo provvisorio, doveva, ben presto, svanire.
Era chiaro, all'evidenza, che anche il dualismo del potere, in atto dalla rivoluzione di Febbraio, non sarebbe più a lungo durato, giacché lo svolgersi degli avvenimenti esigeva che il potere si accentrasse in una sola mano: o in quella del Governo provvisorio, o in quella dei Soviet.
Invero, la politica di conciliazione dei menscevichi e dei socialisti-rivoluzionari godeva ancora, per il momento, dell'appoggio delle masse popolari. Numerosi erano ancora gli operai e ancor più i soldati e i contadini i quali pensavano che «presto l'Assemblea costituente avrebbe aggiustato tutto nel migliore dei modi», e che la guerra non fosse una guerra di conquista, ma una guerra necessaria alla difesa del paese. Lenin li chiamava «guerrafondai che sbagliano in buona fede». Essi ancora credevano giusta la politica delle promesse e delle esortazioni condotta dai socialisti-rivoluzionari e dai menscevichi. Ma, evidentemente, le promesse e le esortazioni non potevano durare a lungo, giacché la marcia degli avvenimenti e la condotta del Governo provvisorio rivelavano e dimostravano sempre più che la politica di conciliazione dei socialisti-rivoluzionari e dei menscevichi mirava solo a guadagnar tempo e ad ingannare gli ingenui.
Il Governo provvisorio non si limitava sempre a una politica di lotta subdola contro il movimento rivoluzionario delle masse, a imbastire dietro le quinte delle intese contro la rivoluzione, ma tentava a volte di passare all'offensiva aperta contro le libertà democratiche, di «ristabilire la disciplina», soprattutto tra i soldati, di «ristabilire l'ordine», il che voleva dire far rientrare la rivoluzione nell'alveo richiesto dai fini della borghesia. Ma tutti i suoi sforzi in questa direzione riuscirono vani e le masse popolari tradussero in pratica con entusiasmo le libertà democratiche: la libertà di parola, di stampa, di associazione, di riunione, di manifestazione. Gli operai e i soldati cercavano di valersi integralmente dei primi diritti democratici conquistati, intendendo partecipare attivamente alla vita politica del paese, comprendere a fondo la situazione creatasi e stabilire la loro condotta ulteriore.
Dopo la rivoluzione di Febbraio, le organizzazioni del partito bolscevico che avevano lavorato clandestinamente, nelle difficili condizioni dello zarismo, erano uscite dalla situazione di illegalità e cominciavano a svolgere pubblicamente la loro attività politica e organizzativa. Esse non contavano allora più di 40-45 mila membri, ma si trattava di quadri temprati alla lotta. Riorganizzati i comitati del partito in base ai princìpi del centralismo democratico, si decise che tutti gli organi del partito fossero eletti dal basso verso l'alto.
Essendo il partito divenuto legale, le divergenze esistenti nel suo seno si rivelarono apertamente. Kamenev ed alcuni iscritti della organizzazione di Mosca, per esempio, Rykov, Bubnov, Noghin, avevano una posizione semimenscevica, erano favorevoli cioè ad un appoggio condizionato al Governo provvisorio e alla politica dei guerrafondai. Stalin, reduce da poco tempo dalla deportazione, Molotov e altri, insieme alla maggioranza del partito, preconizzavano una politica di sfiducia nei riguardi del Governo provvisorio, lottavano contro i guerrafondai e chiamavano le masse alla lotta attiva per la pace, alla lotta contro la guerra imperialistica. Un certo numero dei militanti del partito tentennava, esprimendo in tal modo la propria arretratezza politica dovuta a un lungo soggiorno nelle carceri o in esilio.
L'assenza del capo del partito, di Lenin, si faceva sentire.
Fu il 3 (16) aprile 1917, dopo un lungo esilio, che Lenin tornò in Russia.
L'arrivo di Lenin ebbe un'enorme importanza per il partito, per la rivoluzione.
Già dalla Svizzera, appena ricevute le prime notizie sulla rivoluzione, Lenin aveva scritto al partito e alla classe operaia di Russia, nelle sue «Lettere da lontano»:
 
Operai, nella guerra civile contro lo zarismo, avete compiuto dei prodigi di eroismo proletario, popolare; dovete ora compiere dei prodigi nell'organizzazione del proletariato e di tutto il popolo, per preparare la vostra vittoria nella seconda tappa della rivoluzione. (Lenin, «Opere scelte», vol. VI, pagg. 19-20, Cooperativa Editrice dei Lavoratori Esteri dell'URSS, ed. italiana).
 
Lenin giunse a Pietrogrado la notte del 3 aprile. Alla stazione di Finlandia e sulla piazza di fronte, erano accorsi, per salutarlo, migliaia di operai, di soldati e di marinai. Un entusiasmo indescrivibile sollevò le masse quando Lenin discese dal treno. Esse portarono in trionfo il loro capo fino alla grande sala della stazione, dove i menscevichi Ceidze e Skobelev tentarono di pronunziare, in nome del Soviet di Pietrogrado, dei discorsi di «saluto», in cui «esprimevano la speranza» che Lenin avrebbe trovato un «linguaggio comune con loro». Ma Lenin non si fermò ad ascoltarli: passò oltre, avviandosi verso le masse degli operai e dei soldati e, dall'alto di un'autoblinda, pronunziò il suo celebre discorso, che chiama le masse alla lotta per la vittoria della rivoluzione socialista. «Evviva la rivoluzione socialista!», è così che Lenin chiuse quel suo primo discorso dopo lunghi anni di esilio.
Rientrato in Russia, Lenin con tutte le forze si consacrò al lavoro rivoluzionario. Il giorno dopo l'arrivo, svolse un rapporto sulla guerra e la rivoluzione in una riunione di bolscevichi, e poi riprese le tesi del suo rapporto in un'altra riunione a cui, oltre i bolscevichi, partecipavano anche i menscevichi.
Erano quelle le celebri Tesi di Aprile, che diedero al partito e al proletariato una chiara linea rivoluzionaria per passare dalla rivoluzione borghese alla rivoluzione socialista.
Le Tesi di Lenin ebbero un'immensa importanza per la rivoluzione, come per l'ulteriore attività del partito. La rivoluzione segnava una grandiosa svolta nella vita del paese, e il partito, nelle nuove condizioni di lotta, ora che lo zarismo era stato finalmente rovesciato, aveva bisogno di un nuovo orientamento per potere, con ardire e sicurezza, imboccare il nuovo cammino. Furono le Tesi di Lenin che diedero quell'orientamento al partito.
Le Tesi di Aprile davano al partito un piano geniale di lotta per passare dalla rivoluzione democratico-borghese alla rivoluzione socialista, per passare dalla prima tappa della rivoluzione alla seconda: alla tappa della rivoluzione socialista. Tutta la storia anteriore vissuta dal partito l'aveva preparato a questo grande compito. Già nel 1905, Lenin, nella sua opera: «Due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica», aveva scritto che, dopo aver rovesciato lo zarismo, il proletariato sarebbe passato alla realizzazione della rivoluzione socialista. L'elemento nuovo, nelle Tesi, consisteva in ciò che esse fornivano un piano concreto, e dei saldi fondamenti teorici per imboccare la via della rivoluzione socialista.
Sull'arena economica, le misure di transizione proposte erano le seguenti: nazionalizzazione di tutte le terre nel paese e confisca delle terre dei grandi proprietari fondiari, fusione di tutte le banche in una sola banca nazionale, controllata dal Soviet dei deputati operai, istituzione del controllo sulla produzione sociale e sulla ripartizione dei prodotti.
Sull'arena politica, Lenin proponeva di passare dalla repubblica parlamentare alla repubblica dei Soviet: grande passo in avanti nel campo della teoria e della pratica marxista. Fino a quel tempo i teorici marxisti avevano ritenuto che la repubblica parlamentare fosse la migliore forma politica per la transizione al socialismo. Ora Lenin proponeva di sostituire alla repubblica parlamentare la repubblica dei Soviet, come la forma più razionale di organizzazione politica della società, nel periodo di transizione dal capitalismo al socialismo.
 
La peculiarità dell'attuale momento in Russia - si diceva nelle Tesi - consiste nel passaggio dalla prima tappa della rivoluzione - che, a causa dell'insufficiente grado di coscienza e di organizzazione del proletariato, ha dato il potere alla borghesia - alla sua seconda tappa che deve dare il potere al proletariato e agli strati poveri dei contadini. (Ibidem , pag. 31).
 
E più avanti:
 
Niente repubblica parlamentare, - ritornare ad essa, dopo i Soviet dei deputati operai, rappresenterebbe un passo indietro, - ma una repubblica dei Soviet dei deputati operai, dei salariati agricoli e dei contadini del paese intiero, dal basso in alto. (Ibidem , pag. 32).
 
La guerra, diceva Lenin, anche sotto il nuovo Governo provvisorio, rimane una guerra di rapina, una guerra imperialistica. Compito del partito è di spiegarlo alle masse e dimostrare loro che, senza abbattere la borghesia, è impossibile finire la guerra, non con una pace imposta con la violenza, ma con una pace veramente democratica.
Nei riguardi del governo, Lenin lanciava la parola d'ordine: «Nessun appoggio al Governo provvisorio!».
Lenin indicava inoltre, nelle sue Tesi, che il nostro partito per il momento si trovava in minoranza nei Soviet, e che il blocco dei menscevichi e dei socialisti-rivoluzionari, vi dominava servendo di veicolo all'influenza borghese sul proletariato. Perciò, il partito doveva:
 
Spiegare alle masse che il Soviet dei deputati operai è la sola forma possibile di governo rivoluzionario e che, di conseguenza, il nostro compito, finché questo governo rimarrà sottomesso alla influenza della borghesia, può consistere soltanto nell'elucidazione paziente, sistematica, reiterata - particolarmente adattata ai bisogni pratici delle masse - degli errori della loro tattica. Finché saremo in minoranza, faremo lavoro di critica e di elucidazione degli errori, sostenendo in pari tempo la necessità del passaggio di tutto il potere statale ai Soviet dei deputati operai... (Ibidem , pag. 32).
 
In altre parole, Lenin, non incitava all'insurrezione contro il Governo provvisorio, che godeva in quel momento della fiducia dei Soviet; egli non ne chiedeva il rovesciamento, ma voleva, con un lavoro di chiarificazione e di reclutamento, conquistare la maggioranza nei Soviet, modificarne la politica, e, per loro tramite, cambiare la composizione e la politica del governo.
Il che significava orientarsi verso lo sviluppo pacifico della rivoluzione.
Lenin richiedeva inoltre che ci si liberasse dei «panni sporchi», che, cioè, si rinunciasse al nome di partito socialdemocratico. Socialdemocratici si chiamavano i partiti della II Internazionale e così pure i menscevichi russi. Quel nome era stato infangato, disonorato dagli opportunisti, traditori del socialismo. Lenin propose di chiamare il partito bolscevico col nome di partito comunista , come Marx ed Engels avevano chiamato il loro partito: nome scientificamente esatto, lo scopo finale del partito bolscevico essendo il comunismo. L'Umanità, dal capitalismo, poteva passare direttamente soltanto al socialismo, ossia alla proprietà comune dei mezzi di produzione e alla ripartizione dei prodotti secondo il lavoro di ciascuno. Lenin diceva: il nostro partito guarda più lontano. Il socialismo deve inevitabilmente trasformarsi a poco a poco nel comunismo, sulla cui bandiera sta scritto: «Da ognuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni».
Lenin richiedeva, infine, nelle sue Tesi, la creazione di una Internazionale nuova, la creazione della III Internazionale, l'Internazionale Comunista, libera dall'opportunismo, dal socialsciovinismo.
Le Tesi di Lenin suscitarono un furibondo clamore nelle file della borghesia, dei menscevichi e dei socialisti rivoluzionari.
I menscevichi rivolsero agli operai un appello che esordiva con questo preavviso: «La rivoluzione è in pericolo». Il pericolo, secondo loro, stava in ciò che i bolscevichi esigevano il passaggio del potere ai Soviet dei deputati operai e soldati.
Plekhanov, nel suo giornale Edinstvo («L'Unità»), pubblicò un articolo, qualificando il discorso di Lenin come un «discorso delirante ». Plekhanov faceva eco alle parole del menscevico Ceidze, il quale aveva dichiarato: «Lenin solo resterà al di fuori della rivoluzione, ma noi proseguiremo la nostra strada».
Il 14 (27) aprile, si tenne a Pietrogrado la conferenza bolscevica della città, che approvò le Tesi di Lenin, ponendole alla base della propria attività.
Qualche tempo dopo, le organizzazioni locali del partito approvarono a loro volta le Tesi di Lenin.
Tutto il partito , ad eccezione di alcuni individui isolati del tipo di Kamenev, Rykov, Piatakov, accoglieva le Tesi di Lenin fra grande entusiasmo.
 


2. Inizio della crisi del Governo provvisorio. Conferenza d'Aprile del partito bolscevico.
Mentre i bolscevichi si preparavano allo sviluppo ulteriore della rivoluzione, il Governo provvisorio continuava a tramare contro il popolo. Il 18 aprile (1° Maggio), Miliukov, ministro per gli affari esteri, dichiarò agli alleati: «Il popolo intiero desidera continuare la guerra mondiale fino alla vittoria finale e il Governo provvisorio intende osservare pienamente gli impegni assunti con i nostri alleati».
Così, il Governo provvisorio giurava fedeltà ai trattati dello zar e prometteva di continuare a spargere ancora tanto sangue del popolo quanto ne sarebbe occorso agli imperialisti per raggiungere la «vittoria finale».
Il 19 aprile (2 maggio) questa dichiarazione («la nota di Miliukov») divenne di dominio pubblico fra gli operai e i soldati e il 20 aprile (3 maggio), il Comitato Centrale del partito bolscevico chiamò le masse a protestare contro la politica imperialistica del Governo provvisorio. Infatti, il 20-21 aprile (3-4 maggio) 1917, una gran massa di operai e soldati, non meno di 100 mila persone, profondamente indignata in seguito alla «nota di Miliukov», scese in piazza: sulle bandiere spiccavano le parole d'ordine: «Pubblicate i trattati segreti!», «Abbasso la guerra!», «Tutto il potere ai Soviet!».
Gli operai e i soldati affluivano dai sobborghi verso il centro, verso la sede del Governo provvisorio, mentre sulla prospettiva Nevski e in altri luoghi della città avvenivano conflitti tra i dimostranti e alcuni gruppi di borghesi.
I controrivoluzionari più accaniti, come il generale Kornilov, incitarono a sparare sui dimostranti e ne dettero anche l'ordine, ma le truppe si rifiutarono di obbedire.
Durante la dimostrazione, un piccolo numero di membri del Comitato di Pietrogrado del partito (Bagdatiev e altri) aveva lanciato la parola d'ordine dell'immediato rovesciamento del Governo provvisorio. Il Comitato Centrale del partito bolscevico condannò recisamente la condotta di quegli avventurieri «di sinistra», considerando che una simile parola d'ordine, intempestiva ed errata, avrebbe ostacolato il partito nella sua azione per la conquista della maggioranza nei Soviet ed era in contraddizione con l'orientamento del partito verso lo sviluppo pacifico della rivoluzione.
Gli avvenimenti del 20-21 aprile (3-4 maggio), segnarono l'inizio della crisi del Governo provvisorio.
Era la prima seria incrinatura nella politica di conciliazione condotta dai menscevichi e dai socialisti-rivoluzionari.
Il 2 (15) maggio 1917, sotto la pressione delle masse, Miliukov e Gutsckov furono infatti esclusi dal Governo provvisorio.
Si formò un primo Governo provvisorio di coalizione , in cui entravano, accanto ai rappresentanti della borghesia, i menscevichi (Skobelev e Zereteli) e i socialisti-rivoluzionari (Cernov, Kerenski e altri).
In tal modo, i menscevichi, i quali nel 1905 avevano ritenuto inammissibile che i rappresentanti della socialdemocrazia partecipassero ad un Governo provvisorio rivoluzionario , ritenevano ora ammissibile che i loro rappresentanti partecipassero a un governo provvisorio controrivoluzionario .
I menscevichi e i socialisti-rivoluzionari passavano, così, nel campo della borghesia controrivoluzionaria.
Il 24 aprile (7 maggio) 1917, si aprì la VII Conferenza bolscevica (Conferenza d'Aprile). Era la prima volta, da quando esisteva, che il partito bolscevico poteva tenere legalmente una conferenza. Per la sua importanza, essa ha assunto, nella storia del partito, lo stesso valore di un congresso.
La Conferenza d'Aprile, a cui erano presenti 133 delegati con voto deliberativo e 18 con voto consultivo, che rappresentavano complessivamente 80 mila aderenti, dimostrò lo sviluppo travolgente del partito.
La conferenza discusse ed elaborò la linea del partito in tutte le questioni fondamentali della guerra e della rivoluzione: situazione generale, guerra, Governo provvisorio, Soviet, questione agraria, questione nazionale, ecc.
Nella sua relazione, Lenin sviluppò i princìpi già espressi precedentemente nelle Tesi d'Aprile. Il compito del partito era il seguente: effettuare il passaggio dalla prima tappa della rivoluzione «che ha dato il potere alla borghesia... alla sua seconda tappa che deve dare il potere al proletariato e agli strati poveri dei contadini» (Lenin ). Il partito doveva orientarsi verso la preparazione della rivoluzione socialista e come compito immediato del partito, Lenin formulava la parola d'ordine: «Tutto il potere ai Soviet!».
La parola d'ordine «Tutto il potere ai Soviet!» voleva dire che era indispensabile porre fine al dualismo del potere, ossia alla divisione del potere tra il Governo provvisorio e i Soviet; che era necessario rimettere tutto il potere ai Soviet, e scacciare dagli organi del potere i rappresentanti dei grandi proprietari fondiari e dei capitalisti.
La conferenza stabilì che uno dei compiti più importanti del partito consisteva nello spiegare instancabilmente alle masse questa verità: «Il Governo provvisorio per il suo carattere è un organo di dominio dei grandi proprietari fondiari e della borghesia», e così pure nel denunciare ciò che vi era di nefasto nella politica conciliatrice dei socialisti-rivoluzionari e dei menscevichi, che ingannavano il popolo con promesse menzognere e lo esponevano ai colpi della guerra imperialistica e della controrivoluzione.
Alla conferenza, Kamenev e Rykov presero la parola contro Lenin. Essi, a rimorchio dei menscevichi, ripetevano che la Russia non era ancora matura per la rivoluzione socialista, che in Russia era possibile soltanto la repubblica borghese. E proponevano al partito e alla classe operaia di limitarsi a «controllare» il Governo provvisorio. In sostanza, proprio come i menscevichi, volevano mantenere in vita il capitalismo, il potere della borghesia.
Anche Zinoviev si pronunciò contro Lenin sulla questione se il partito bolscevico doveva rimanere nel blocco di Zimmerwald o se doveva rompere con quel blocco e creare una nuova Internazionale. Come avevano dimostrato gli anni della guerra, quel blocco, pur facendo propaganda per la pace, di fatto, non era giunto alla rottura coi guerrafondai borghesi. Perciò, Lenin insisteva perché si uscisse immediatamente dal blocco e si organizzasse una nuova Internazionale, l'Internazionale Comunista, mentre Zinoviev proponeva invece di rimanere con gli zimmerwaldiani. Lenin bollò a fuoco il discorso di Zinoviev, definendo la sua tattica «arciopportunistica e nociva».
La Conferenza d'Aprile discusse anche sulla questione agraria e su quella nazionale.
In conformità alla relazione di Lenin sulla questione agraria, la conferenza si pronunciò per la confisca delle terre dei grandi proprietari fondiari e l'assegnazione delle stesse ai comitati contadini, come per la nazionalizzazione di tutte le terre del paese. I bolscevichi chiamavano i contadini alla lotta per la terra e dimostravano loro che il partito dei bolscevichi era l'unico partito rivoluzionario che li aiutasse effettivamente ad abbattere i proprietari fondiari.
La relazione del compagno Stalin sulla questione nazionale ebbe una grande importanza. Lenin e Stalin, già prima della rivoluzione, alla vigilia della guerra imperialistica, avevano elaborato i princìpi della politica del partito bolscevico sulla questione nazionale. Lenin e Stalin affermavano che il partito proletario doveva sostenere il movimento di liberazione nazionale dei popoli oppressi, diretto contro l'imperialismo. Di conseguenza, il partito bolscevico sosteneva il diritto delle nazioni all'autodecisione, a disporre di sé stesse fino e compresa la loro separazione e la loro costituzione in Stati indipendenti. Il compagno Stalin, relatore del Comitato Centrale, sostenne questa tesi.
Contro Lenin e Stalin si pronunciò Piatakov, che insieme a Bukharin, già durante gli anni della guerra, aveva assunto nella questione nazionale una posizione nazional-sciovinistica. Piatakov e Bukharin erano contro il diritto delle nazioni all'autodecisione.
La posizione risoluta e conseguente del partito nella questione nazionale, la lotta del partito per la completa eguaglianza di tutte le nazioni e per l'abolizione di tutte le forme di oppressione e di ineguaglianza nazionale gli assicurarono la simpatia e l'appoggio delle nazionalità oppresse.
Ecco il testo della risoluzione sulla questione nazionale, approvato dalla Conferenza d'Aprile.
 
La politica di oppressione nazionale, retaggio dell'autocrazia o della monarchia, è sostenuta dai grandi proprietari fondiari, dai capitalisti e dalla piccola borghesia che vogliono così difendere i propri privilegi di classe e dividere gli operai delle diverse nazionalità. L'imperialismo contemporaneo, che tende sempre più ad asservire i popoli deboli, è un nuovo fattore aggravante l'oppressione nazionale.
Nella misura in cui è realizzabile nella società capitalistica, la soppressione del giogo nazionale è possibile soltanto in regime democratico e repubblicano conseguente e con una direzione dello Stato che assicuri la piena eguaglianza di diritti a tutte le nazioni e a tutte le lingue.
A tutte le nazioni che fanno parte della Russia deve essere riconosciuto il diritto alla libera separazione e alla costituzione in Stati indipendenti. Negare questo diritto, non prendere i provvedimenti che ne garantiscano l'applicazione pratica, vuol dire sostenere la politica di conquista e di annessione. Solo il riconoscimento da parte del proletariato del diritto delle nazioni alla libera separazione assicura la piena solidarietà degli operai delle diverse nazioni e agevola un ravvicinamento veramente democratico delle nazioni...
La questione del diritto delle nazioni alla libera separazione non è lecito confonderla con la questione dell'utilità per tale o tal'altra nazione di separarsi in questo o quel momento. Il partito del proletariato deve decidere su quest'ultima questione in ogni caso particolare, in modo assolutamente indipendente o dal punto di vista degli interessi dello sviluppo sociale nel suo complesso e degli interessi della lotta di classe del proletariato per il socialismo.
Il partito rivendica una larga autonomia regionale, la soppressione del controllo dall'alto, l'abolizione dell'uso obbligatorio di una lingua di Stato e la delimitazione delle frontiere delle regioni che si autogovernano e delle regioni autonome, sulla base delle condizioni economiche, dei costumi e delle abitudini, della composizione nazionale della popolazione, ecc. accertate dalle stesse popolazioni locali.
Il partito del proletariato respinge decisamente la cosiddetta «autonomia culturale nazionale», consistente nel togliere allo Stato ogni competenza negli affari scolastici, ecc. e nell'affidarli a qualcosa come delle Diete nazionali. Gli operai che vivono nella stessa località e che lavorano persino nella stessa impresa, sono divisi artificiosamente dall'autonomia culturale-nazionale, a seconda della loro appartenenza a questa o quella «cultura nazionale», il che equivale a dire che essa rafforza i legami degli operai con la cultura borghese delle diverse nazioni, mentre il compito della socialdemocrazia è quello di rafforzare la cultura internazionale del proletariato mondiale.
Il partito rivendica che sia inclusa nella Costituzione una legge fondamentale annullante qualsiasi privilegio di qualunque nazionalità, qualsiasi violazione dei diritti e delle minoranze nazionali.
Gli interessi della classe operaia esigono che gli operai di tutte le nazionalità che si trovano in Russia siano uniti in organizzazioni proletarie uniche, di carattere politico, sindacale, cooperativo ed educativo, ecc. Solo se gli operai delle diverse nazionalità saranno uniti in organizzazioni uniche, il proletariato potrà condurre alla vittoria la lotta contro il capitale internazionale e contro il nazionalismo borghese. («Il P. C. (b) dell'U.R.S.S. nelle sue risoluzioni», parte I, pagg. 239-240 ed. russa).
 
Fu così che alla Conferenza di Aprile si smascherò la linea opportunista, antileninista di Kamenev, Zinoviev, Piatakov, Bukharin, Rykov e dei loro scarsi seguaci.
La conferenza compatta seguì Lenin, assumendo una posizione chiara su tutte le questioni importanti e orientandosi verso la vittoria della rivoluzione socialista.
 


3. Successi del partito bolscevico nella capitale. L'offensiva al fronte dell'esercito del Governo provvisorio fallisce. Repressione della dimostrazione di luglio degli operai e dei soldati.
Forte delle decisioni della Conferenza d'Aprile, il partito spiegò un'immensa attività per conquistare le masse, per educarle e prepararle alla lotta. La linea del partito, in quel periodo, mirava ad isolare dalle masse i partiti menscevico e socialista-rivoluzionario ed a conquistare la maggioranza nei Soviet, spiegando pazientemente la politica bolscevica e smascherando la politica di conciliazione di questi partiti.
Oltre al lavoro nei Soviet, i bolscevichi svolgevano un'attività intensissima nei sindacati, nei comitati di fabbrica e d'officina.
Particolarmente importante era il loro lavoro nell'esercito: ovunque creavano organizzazioni militari; sia al fronte che nelle retrovie, lavoravano instancabilmente ad organizzare soldati e marinai. Il giornale bolscevico del fronte Okopnaia Pravda [«La Verità delle Trincee»] contribuiva potentemente a diffondere lo spirito rivoluzionario tra i soldati.
Fu per merito della propaganda e dell'agitazione bolscevica, se già nei primi mesi della rivoluzione, in molte città gli operai rinnovarono i Soviet, soprattutto rionali, cacciando via i menscevichi e i socialisti-rivoluzionari ed eleggendo al loro posto i partigiani dei bolscevichi.
Il lavoro dei bolscevichi otteneva degli splendidi risultati soprattutto a Pietrogrado.
Dal 30 maggio al 3 giugno (12-16 giugno) 1917, si tenne la Conferenza dei Comitati di fabbrica di Pietrogrado, in cui già i tre quarti dei delegati si dichiararono per i bolscevichi. Quasi tutto il proletariato della città seguiva la parola d'ordine dei bolscevichi: «Tutto il potere ai Soviet!».
Il 3 (16) giugno 1917, si riunì il I Congresso panrusso dei Soviet. I bolscevichi erano ancora in minoranza nei Soviet e disponevano al Congresso di poco più di 100 delegati rispetto a 700-800 menscevichi, socialisti-rivoluzionari ed altri.
I bolscevichi, al I Congresso dei Soviet, denunciarono risolutamente la rovinosa politica di conciliazione con la borghesia e svelarono il carattere imperialistico della guerra. Lenin pronunciò un discorso in cui dimostrava che la linea bolscevica era giusta e dichiarava che soltanto il potere dei Soviet poteva dare il pane ai lavoratori, la terra ai contadini, ottenere la pace e salvare il paese dalla catastrofe.
In quei giorni, nei quartieri operai di Pietrogrado era in corso una grande campagna per preparare una dimostrazione e presentare delle rivendicazioni al congresso dei Soviet. Volendo prevenire una manifestazione spontanea degli operai e contando di sfruttare ai suoi intenti lo stato d'animo rivoluzionario delle masse, il Comitato Esecutivo del Soviet di Pietrogrado decise di fissare la dimostrazione per il 18 giugno (1° luglio). I menscevichi e i socialisti-rivoluzionari speravano che la dimostrazione si sarebbe svolta ispirandosi a parole d'ordine antibolsceviche. Energicamente, il partito bolscevico prese le sue misure. Il compagno Stalin scrisse in quei giorni sulla Pravda : «...il nostro compito è di fare in modo che la dimostrazione di Pietrogrado del 18 giugno si svolga sotto le nostre parole d'ordine rivoluzionarie».
E infatti la dimostrazione del 18 giugno 1917, davanti alle tombe dei caduti per la rivoluzione, riuscì una vera rassegna delle forze del partito bolscevico. Essa mostrò che le masse diventavano sempre più rivoluzionarie e riponevano una fiducia sempre maggiore nel partito bolscevico. Le parole d'ordine dei menscevichi e dei socialisti-rivoluzionari a favore della fiducia nel Governo provvisorio e della necessità di continuare la guerra furono sommerse dalla massa enorme delle parole d'ordine bolsceviche. Quattrocentomila dimostranti sfilarono dietro le bandiere su cui erano stato scritte le parole d'ordine: «Abbasso la guerra!», «Abbasso i dieci ministri capitalisti!», «Tutto il potere ai Soviet!».
Era un fiasco completo per i menscevichi e per i socialisti-rivoluzionari, un vero disastro per il Governo provvisorio nella capitale.
Ciò nondimeno il Governo provvisorio, forte dell'appoggio del I Congresso dei Soviet, decise di proseguire la sua politica imperialistica. E in quella stessa giornata del 18 giugno, docilmente eseguendo la volontà degli imperialisti anglo-francesi, gettava i soldati del fronte all'attacco. La borghesia vedeva in quell'offensiva l'unico mezzo per soffocare la rivoluzione sperando, nel caso di una vittoria, di afferrare tutto il potere nelle proprie mani, di isolare i Soviet e di schiacciare i bolscevichi, e, nel caso di una sconfitta, di poterne attribuire tutta la colpa ai bolscevichi, accusandoli di aver disgregato l'esercito.
Si poteva essere certi che l'offensiva sarebbe fallita, come effettivamente fallì. La stanchezza dei soldati, la loro incomprensione degli scopi dell'offensiva, la loro sfiducia verso un comando che era loro come straniero, l'estrema scarsezza di munizioni e artiglieria: ecco le varie circostanze che determinarono la sconfitta dell'offensiva.
La notizia dell'offensiva e della sua sconfitta esasperò tutta la capitale. L'indignazione degli operai e dei soldati non ebbe limiti. Apparve all'evidenza che il Governo provvisorio, proclamando una politica di pace, ingannava il popolo. Era chiaro che il Governo provvisorio voleva continuare la guerra imperialistica. Risultò evidente che il Comitato Esecutivo Centrale dei Soviet di Russia e il Soviet di Pietrogrado non si erano voluti o non si erano potuti opporre a questa attività criminale trascinandosi al seguito del Governo provvisorio.
L'indignazione rivoluzionaria degli operai e dei soldati di Pietrogrado traboccava. Il 3 (16) luglio, a Pietrogrado, nel rione di Vyborg, scoppiarono delle dimostrazioni spontanee, che durarono tutta la giornata. Le dimostrazioni, dapprima isolate le une dalle altre, si fusero tosto in una unica grandiosa manifestazione armata sotto la parola d'ordine del passaggio del potere ai Soviet. Il partito bolscevico era contro un'azione armata, in quel momento, perché considerava che la crisi rivoluzionaria non era ancora matura, che l'esercito e la provincia non erano ancora pronti ad appoggiare l'insurrezione nella capitale e che un'insurrezione isolata e prematura della capitale poteva solo agevolare la vittoria della controrivoluzione sull'avanguardia della rivoluzione. Ma, quando divenne evidente che non era possibile far desistere le masse dalla dimostrazione, il partito decise di parteciparvi per imprimerle un carattere pacifico e organizzato. E ci riuscì: centinaia di migliaia di dimostranti si diressero verso le sedi del Soviet di Pietrogrado e del Comitato Esecutivo Centrale dei Soviet di Russia, reclamando dai Soviet che prendessero il potere nelle proprie mani, rompessero ogni legame con la borghesia imperialistica e svolgessero una politica attiva di pace.
Nonostante il carattere pacifico della manifestazione, contro i dimostranti furono scatenati dei distaccamenti reazionari di junker (allievi ufficiali) e di ufficiali. Le vie di Pietrogrado furono inondate dal sangue degli operai e dei soldati: per la repressione erano stati chiamati dal fronte i reparti militari più arretrati, più controrivoluzionari.
Soffocata la dimostrazione degli operai e dei soldati, i menscevichi e i socialisti-rivoluzionari, in alleanza con la borghesia e con i generali guardie bianche, si scagliarono contro il partito bolscevico. I locali della redazione della Pravda furono devastati; la Pravda , la Soldatskaia Pravda [«La Verità del Soldato»] e numerosi altri giornali bolscevichi furono soppressi. Nelle strade, solo perché vendeva il Listok Pravdy [«Il Foglio della Verità»], fu ucciso dagli junker l'operaio Voinov. Cominciò il disarmo delle guardie rosse. Le unità militari rivoluzionarie, che erano di stanza a Pietrogrado, furono fatte partire per il fronte. Arresti furono operati nelle retrovie e al fronte. Il 7 luglio, fu spiccato mandato di cattura contro Lenin. Furono arrestati parecchi noti dirigenti del partito bolscevico; la tipografia Trud [Il lavoro], dove si stampavano le pubblicazioni bolsceviche, fu devastata. Un comunicato del procuratore di Pietrogrado informava che Lenin e diversi altri bolscevichi erano deferiti al tribunale per «alto tradimento» e per aver organizzato l'insurrezione armata. L'accusa a carico di Lenin era stata fabbricata di sana pianta alla sede dello stato maggiore del generale Denikin, sulla base di deposizioni di spie e di agenti provocatori.
È in questo modo, che il Governo provvisorio di coalizione, di cui facevano parte rappresentanti notissimi dei menscevichi e dei socialisti-rivoluzionari come Zereteli e Skobelev, Kerenski e Cernov, affondava nella cloaca dell'imperialismo e della controrivoluzione aperta. Invece di una politica di pace, il governo conduceva una politica di guerra, invece di difendere i diritti democratici del popolo, conduceva una politica che mirava a sopprimerli e a domare con la forza delle armi gli operai e i soldati.
Ciò che non avevano osato fare i rappresentanti della borghesia - Gutsckov e Miliukov - osarono fare i «socialisti» Kerenski e Zereteli, Cernov e Skobelev.
Il dualismo del potere era cessato.
Era cessato in favore della borghesia, poiché tutto il potere era passato nelle mani del Governo provvisorio, e i Soviet con la loro direzione menscevica e socialista-rivoluzionaria si erano trasformati in un'appendice del Governo provvisorio.
Il periodo pacifico della rivoluzione era finito poiché la parola era stata data alla sciabola.
Di fronte a una situazione mutata, il partito bolscevico decise di modificare la propria tattica: passò al lavoro clandestino, mise al sicuro, nella più profonda illegalità, il suo capo, Lenin, e cominciò a prepararsi all'insurrezione per rovesciare con la forza delle armi il potere della borghesia ed instaurare il potere dei Soviet.
 


4. Il partito bolscevico s'orienta verso la preparazione dell'insurrezione armata. Il VI Congresso del partito.
Mentre nella stampa borghese e piccolo-borghese imperversava un'inaudita campagna di calunnie contro i bolscevichi, si riuniva a Pietrogrado il VI Congresso del partito. Si riuniva dieci anni dopo il V Congresso di Londra e cinque anni dopo la Conferenza bolscevica di Praga. I lavori congressuali si svolsero dal 26 luglio al 3 agosto 1917 clandestinamente. Nella stampa si era annunciata soltanto la convocazione del congresso, senza indicare però dove si sarebbe tenuto. Le prime sedute ebbero luogo nel quartiere di Vyborg, le altre in una scuola vicino alla porta di Narva, dove sorge attualmente una Casa di Cultura. La stampa borghese reclamava l'arresto dei congressisti mentre gli sbirri della polizia segreta, inutilmente, si facevano in quattro per scoprire dove si teneva il congresso.
Così, cinque mesi dopo il rovesciamento dello zarismo, i bolscevichi erano costretti a riunirsi clandestinamente, e Lenin, il capo del partito proletario, era costretto a rimanere nascosto in una capanna nei pressi della stazione ferroviaria di Razliv.
Perseguitato dagli sbirri del Governo provvisorio, Lenin non poteva assistere al congresso, ma egli lo diresse egualmente pur dal fondo del suo rifugio per mezzo dei suoi compagni e discepoli che si trovavano a Pietrogrado: Stalin, Sverdlov, Molotov, Orgionikidze.
Al congresso partecipavano 157 delegati con voto deliberativo e 128 con voto consultivo. Il partito contava in quel periodo circa 240 mila aderenti. Al 3 (16) luglio, ossia prima del soffocamento della dimostrazione operaia, quando l'attività dei bolscevichi era ancora legale, il partito possedeva 41 giornali e riviste, di cui 29 in lingua russa e 12 in altre lingue.
Le persecuzioni scatenate nelle giornate di luglio contro i bolscevichi e contro la classe operaia, anziché diminuire l'influenza del nostro partito, l'aumentarono. I delegati delle organizzazioni locali riferivano moltissimi fatti i quali provavano che gli operai e i soldati stavano abbandonando in massa i menscevichi e i socialisti-rivoluzionari che essi chiamavano con disprezzo «sociaI-carcerieri». Gli operai e i soldati aderenti ai partiti menscevico e socialista-rivoluzionario, stracciavano le loro tessere, abbandonavano quei partiti, colle maledizioni sulle labbra, e richiedevano ai bolscevichi di accettarli nelle loro file.
Al centro dei lavori del congresso si ebbero la relazione politica del Comitato Centrale e l'esame della situazione politica. In questi rapporti, il compagno Stalin dimostrò con la massima esattezza che, malgrado tutti gli sforzi della borghesia, la rivoluzione saliva e si sviluppava. Egli dimostrò che la rivoluzione poneva una serie di problemi: applicare il controllo operaio sulla produzione e sulla ripartizione dei prodotti; dare la terra ai contadini; passare il potere dalle mani della borghesia alle mani della classe operaia e dei contadini poveri. Egli dichiarò che la rivoluzione, per il suo carattere, diventava socialista.
La situazione politica nel paese, dopo le giornate di luglio, si era nettamente modificata. Il dualismo del potere era cessato. I Soviet, con la loro direzione menscevica e socialista-rivoluzionaria, si erano rifiutati di prendere tutto il potere: ecco perché i Soviet erano divenuti impotenti. Il potere si era concentrato nelle mani del Governo provvisorio borghese che continuava a disarmare la rivoluzione, a saccheggiare le organizzazioni, a colpire il partito bolscevico. Lo sviluppo pacifico della rivoluzione non era più possibile. Non rimaneva - disse il compagno Stalin - che prendere il potere con la forza, rovesciando il Governo provvisorio. Ma solo il proletariato, avendo come alleati i contadini poveri, poteva prendere il potere con la forza.
I Soviet, sempre diretti dai menscevichi e dai socialisti-rivoluzionari, erano scivolati nel campo della borghesia e, nella nuova situazione, potevano agire solo come un ausilio del Governo provvisorio. Dopo le giornate di luglio, diceva il compagno Stalin, la parola d'ordine «Tutto il potere ai Soviet» doveva essere ritirata. Però il ritiro temporaneo di quella parola d'ordine non voleva dire affatto la rinuncia alla lotta per il potere dei Soviet. Si trattava non dei Soviet in generale in quanto organi di lotta rivoluzionaria, ma soltanto di quei determinati Soviet d'allora, diretti dai menscevichi e dai socialisti-rivoluzionari.
 
Il periodo pacifico della rivoluzione è finito, - dichiarò il compagno Stalin, - è cominciato il periodo non pacifico, il periodo dei conflitti e delle esplosioni... («Resoconto del VI Congresso del P. O. S. D. R. (b)» pag. 111 ed. russa).
 
Il partito s'orientava verso l'insurrezione armata.
Ma al congresso si trovarono certuni che, esprimendo l'influenza della borghesia, si pronunziarono contro l'orientamento verso la rivoluzione socialista.
Il trotzkista Preobragenski propose di includere nella risoluzione sulla conquista del potere, che si poteva avviare il paese verso il socialismo solo se la rivoluzione proletaria fosse scoppiata in Occidente.
Contro questa proposta trotzkista si levò il compagno Stalin.
 
Non è esclusa la possibilità - disse il compagno Stalin – che proprio la Russia sia quel paese che aprirà la strada al socialismo... È necessario respingere l'idea superata che soltanto l'Europa può additarci il cammino. C'è un marxismo dogmatico e c'è un marxismo creatore. Io sono sul terreno dal marxismo creatore. (Ibidem , pagg. 233-234)
 
Bukharin, occupando posizioni trotzkiste, sosteneva che i contadini erano animati da uno spirito patriottardo, che essi si trovavano uniti in un blocco con la borghesia e che non avrebbero seguito la classe operaia.
Rispondendo a Bukharin, il compagno Stalin indicava: vi sono diversi strati di contadini: i contadini agiati che appoggiano la borghesia imperialistica, e i contadini poveri che aspirano all'alleanza con la massa operaia e la appoggeranno nella lotta per la vittoria della rivoluzione.
Il congresso respinse gli emendamenti di Preobragenski e di Bukharin e approvò il progetto di risoluzione del compagno Stalin.
Il congresso discusse e approvò la piattaforma economica dei bolscevichi i cui punti essenziali erano: la confisca della terra dei grandi proprietari fondiari e la nazionalizzazione di tutta la terra nel paese, la nazionalizzazione delle banche, la nazionalizzazione della grande industria, il controllo operaio sulla produzione e sulla ripartizione.
Il congresso mise in rilievo il significato della lotta per il controllo operaio sulla produzione, controllo che ebbe una grande importanza quando si passò alla nazionalizzazione della grande industria.
Il VI Congresso, in tutte le sue decisioni, mise in rilievo in modo particolare la tesi di Lenin sull'alleanza del proletariato coi contadini poveri, come condizione per la vittoria della rivoluzione socialista.
Il congresso condannò la teoria menscevica sulla neutralità dei sindacati, e mostrò che la classe operaia della Russia poteva adempiere i suoi compiti solo se i sindacati rimanevano organizzazioni combattive di classe, riconoscendo la direzione politica del partito bolscevico.
Il congresso approvò una risoluzione «Sulle Unioni della gioventù» che, in quel periodo, sorgevano spesso in modo spontaneo. In seguito, col suo lavoro ulteriore, il partito seppe fare di quelle organizzazioni giovanili la propria riserva.
Al congresso fu discusso se Lenin doveva presentarsi dinanzi al tribunale. Kamenev, Rykov, Trotzki ed altri, già prima del congresso, ritenevano che Lenin doveva costituirsi davanti al tribunale dei controrivoluzionari. Il compagno Stalin insorse risolutamente contro la comparsa di Lenin di fronte al tribunale. Il VI Congresso pure si pronunciò nello stesso senso, considerando che non si sarebbe trattato di un processo, ma di una vendetta in atto. Non vi era dubbio che la borghesia voleva una cosa sola - la soppressione fisica di Lenin, il suo nemico più pericoloso. Il congresso protestò energicamente contro le persecuzioni poliziesche a cui la borghesia sottoponeva i capi del proletariato rivoluzionario e inviò un messaggio di saluto a Lenin.
Il VI Congresso approvò un nuovo statuto del partito. Vi era stabilito che tutte le organizzazioni del partito dovevano avere come punto di partenza i princìpi del centralismo democratico .
Il che voleva dire:
1) elezione di tutti gli organi dirigenti del partito, dalle istanze superiori a quelle inferiori;
2) rendiconto periodico degli organi del partito alle proprie organizzazioni rispettive;
3) severa disciplina di partito e sottomissione della minoranza alla maggioranza;
4) obbligo incondizionato di applicare le decisioni degli organi superiori da parte degli organi inferiori e di tutti i membri del partito.
Lo statuto stabiliva che i nuovi aderenti erano accettati dalle organizzazioni di base, su raccomandazione di due membri del partito, e dopo conferma dell'assemblea generale dei membri dell'organizzazione del partito.
Il VI Congresso accettò nel partito i mezrayonzi [«interrionali»], insieme con il loro capo Trotzki. Questo piccolo gruppo che esisteva a Pietrogrado, dal 1913, era composto di menscevichi trotzkisti e di alcuni ex bolscevichi che avevano abbandonato il partito. L'organizzazione dei mezrayonzi , durante la guerra, si era rivelata un'organizzazione centrista. Essi lottavano contro i bolscevichi, ma erano pure, su molti punti, in disaccordo con i menscevichi, occupando, così, una posizione intermedia, centrista, oscillante. Durante il VI Congresso del partito, i mezrayonzi , dichiararono di essere d'accordo su tutti i punti con i bolscevichi e chiesero di essere ammessi nel partito. Il congresso ne accolse la domanda, pensando che, col tempo, avrebbero potuto diventare dei veri bolscevichi. Infatti, alcuni mezrayonzi , come Volodarski, Urizki e altri, divennero veramente bolscevichi. In quanto a Trotzki e certi suoi amici intimi, come si vide in seguito, essi erano entrati nel partito, non per lavorare a suo vantaggio, ma per scalzarlo alle radici e farlo saltare dall'interno.
Tutte le decisioni del VI Congresso miravano a preparare il proletariato e i contadini poveri all'insurrezione armata. Il VI Congresso orientò il partito verso l'insurrezione armata, verso la rivoluzione socialista.
Il manifesto del partito lanciato dal congresso era un appello agli operai, ai soldati, ai contadini affinché si preparassero agli scontri decisivi con la borghesia e terminava con queste parole:
 
Preparatevi ai nuovi combattimenti, compagni di lotta! Con calma, coraggio e fermezza, non lasciatevi prendere nei lacci delle provocazioni, raccogliete le vostre forze, inquadratevi in ordine di battaglia! Sotto la bandiera del partito, proletari e soldati! sotto la nostra bandiera, oppressi delle campagne!
 
 


5. Complotto del generale Kornilov contro la rivoluzione. Schiacciamento del complotto. I Soviet di Pietrogrado e di Mosca passano dalla parte dei bolscevichi.
Afferrato che ebbe il potere, la borghesia si preparò a schiacciare i Soviet divenuti impotenti e a stabilire un'aperta dittatura della controrivoluzione. Il milionario Riabuscinski ebbe il cinismo di dichiarare che, a suo parere, l'unica via d'uscita dalla situazione era che «la scarna mano della fame, la miseria del popolo, serrasse alla gola i falsi amici del popolo - i Soviet e i Comitati democratici». Al fronte, imperversavano i tribunali da campo e le condanne a morte di soldati. Il 3 (16) agosto 1917, il generale in capo Kornilov impose che la pena di morte fosse istituita anche nelle retrovie.
Il 12 (25) agosto, si aprì a Mosca, nel grande Teatro, la conferenza di Stato indetta dal Governo provvisorio allo scopo di mobilitare le forze della borghesia e dei proprietari fondiari. Vi partecipavano soprattutto i rappresentanti dei grandi proprietari fondiari, della borghesia, dei generali, degli ufficiali, dei cosacchi. I Soviet vi erano rappresentati dai menscevichi e dai socialisti-rivoluzionari.
Nel giorno dell'apertura della Conferenza, i bolscevichi organizzarono a Mosca, in segno di protesta, uno sciopero generale cui partecipò la maggioranza degli operai. Contemporaneamente, scioperi simili scoppiarono in varie altre città.
Il socialista-rivoluzionario Kerenski fece il gradasso; nel suo discorso minacciò di soffocare «col ferro e nel sangue» ogni tentativo di movimento rivoluzionario, compresi i tentativi dei contadini di impadronirsi a forza delle terre dei grandi proprietari fondiari.
In quanto al generale controrivoluzionario Kornilov, egli reclamò addirittura «la soppressione dei Comitati e dei Soviet».
E avvenne allora al Gran Quartiere Generale un vero pellegrinaggio di banchieri, di grandi commercianti, di industriali che accorrevano da Kornilov ad offrirgli denari ed aiuto.
Dal generale Kornilov si videro pure i rappresentanti degli «alleati», ossia dell'Inghilterra e della Francia, venuti ad esigere che si affrettasse l'offensiva contro la rivoluzione.
Si marciava dunque a grandi passi verso il complotto controrivoluzionario del generale Kornilov.
E questo complotto era preparato in modo aperto. Per distogliere da esso l'attenzione pubblica, i cospiratori facevano correre la voce che, a Pietrogrado, i bolscevichi stavano preparando l'insurrezione per il 27 agosto (9 settembre), cioè al compimento dei primi sei mesi della rivoluzione. Mentre il Governo provvisorio, con a capo Kerenski, si scagliava sui bolscevichi, intensificando il terrore contro il partito del proletariato, il generale Kornilov concentrava truppe per una marcia su Pietrogrado, per annientare i Soviet, e formare un governo di dittatura militare.
Kornilov per tradurre in atto il suo colpo di mano controrivoluzionario si era prima inteso con Kerenski. Ma ecco che quando mosse all'attacco, il suo complice Kerenski cambiò bruscamente fronte, abbandonandolo. Kerenski temeva che le masse popolari, levandosi in armi contro il complotto di Kornilov per schiacciarlo, avrebbero spazzato via al tempo stesso anche il governo borghese, se questo non si fosse subito staccato dai kornilovisti.
Il 25 agosto (7 settembre), Kornilov, per «salvare la patria», come egli proclamava, diresse su Pietrogrado il 3° corpo di cavalleria, comandato dal generale Krymov. In risposta alla rivolta di Kornilov, il Comitato Centrale del partito bolscevico invitò gli operai e i soldati a impugnare le armi e a dare ai controrivoluzionari una meritata lezione. Gli operai si armano rapidamente e si preparano alla lotta. I reparti di guardie rosse vedono, in quei giorni, aumentare di parecchie volte i loro effettivi. I sindacati mobilitano i loro iscritti. Le unità militari rivoluzionarie di Pietrogrado sono sul piede di guerra. Alla periferia di Pietrogrado si scavano delle trincee, si pongono dei reticolati e si divelgono le rotaie delle ferrovie. Alcune migliaia di marinai armati giungono da Kronstadt in difesa di Pietrogrado. Incontro alla «divisione selvaggia», che marcia su Pietrogrado, si mandano dei delegati che spiegano a quei soldati, che sono dei montanari del Caucaso, i veri motivi del colpo di mano di Kornilov, e la «divisione selvaggia» si rifiuta di continuare la marcia su Pietrogrado. Degli agitatori sono inviati anche presso altri reparti di Kornilov. Ovunque il pericolo incombe, si creano dei comitati rivoluzionari e degli stati maggiori di lotta contro Kornilov.
Lividi di spavento, i capi socialisti-rivoluzionari e menscevichi, Kerenski compreso, chiesero in quei giorni protezione ai bolscevichi convinti com'erano che, nella capitale, i bolscevichi erano la sola forza reale capace di sconfiggere Kornilov.
Ma mobilitando le masse per la disfatta di Kornilov, i bolscevichi non cessavano la lotta neppure contro il governo kerenskiano. I bolscevichi smascheravano di fronte alle masse il governo kerenskiano, dei menscevichi e dei socialisti-rivoluzionari, i quali, con tutta la loro politica, avevano favorito obiettivamente il complotto controrivoluzionario di Kornilov.
Tutti questi provvedimenti fecero sì che il complotto fosse schiacciato. Il generale Krymov si suicidò; Kornilov e i suoi complici, Denikin e Lukomski, furono arrestati, sebbene non dovesse passare molto tempo perché Kerenski li liberasse.
Il crollo dell'avventura di Kornilov rivelò di colpo il rapporto di forze tra la rivoluzione e la controrivoluzione e mise in piena luce che tutto il campo della controrivoluzione aveva il destino segnato: dai generali e dal partito dei cadetti fino ai menscevichi ed ai socialisti-rivoluzionari, caduti nelle reti della borghesia. Era ormai evidente che la politica della continuazione di una guerra estenuante e lo sfacelo economico, causato dal prolungarsi della guerra, avevano definitivamente compromesso l'influenza di questa gente sulle masse popolari.
La disfatta di Kornilov mostrò, inoltre, che il partito bolscevico si era sviluppato, diventando la forza rivoluzionaria decisiva, capace di battere in breccia tutte le peggiori trame controrivoluzionarie. Pur non essendo ancora un partito al governo, nei giorni del complotto di Kornilov, il nostro partito si era affermato come la vera forza al governo, perché le sue direttive erano eseguite dagli operai e dai soldati senza esitare.
Infine, la disfatta di Kornilov mostrò che i Soviet, i quali sembravano morti, in realtà serbavano in seno una forza immensa di resistenza rivoluzionaria. Senza dubbio erano proprio i Soviet e i loro comitati rivoluzionari che avevano sbarrato la strada alle truppe di Kornilov di cui avevano spezzate le forze.
La lotta contro Kornilov diede un forte impulso ai Soviet dei deputati operai e soldati, li liberò dalle pastoie della politica di conciliazione, li portò sulla strada maestra della lotta rivoluzionaria e li orientò verso il partito bolscevico.
L'influenza dei bolscevichi nei Soviet si accrebbe più che mai.
Del pari, l'influenza dei bolscevichi aumentava rapidamente nelle campagne.
La rivolta di Kornilov aveva dimostrato alle grandi masse contadine che i proprietari fondiari e i generali, schiacciati che fossero i bolscevichi e i Soviet, avrebbero messo i piedi sul collo dei contadini. Ecco perché le grandi masse di contadini poveri si raccolsero sempre più strettamente attorno ai bolscevichi. Anche i contadini medi, le cui oscillazioni avevano frenato lo sviluppo della rivoluzione nel periodo dall'aprile all'agosto 1917, dopo la disfatta di Kornilov cominciarono a mettersi decisamente dalla parte del partito bolscevico, unendosi alla massa dei contadini poveri. Le grandi masse contadine si rendevano conto a poco a poco che solo il partito bolscevico poteva liberarle dalla guerra, che solo il partito bolscevico era capace di vincere i proprietari fondiari e disposto a dare la terra ai contadini. Nei mesi di settembre e d'ottobre 1917, le occupazioni delle terre dei grandi proprietari fondiari da parte dei contadini si accrebbero grandemente. I contadini si misero ad arare, senza autorizzazione, queste terre padronali e il movimento si generalizzò nel paese intero. Né le esortazioni, né le spedizioni punitive riuscivano più ad arrestare la marcia dei contadini verso la rivoluzione.
La marea rivoluzionaria saliva.
Comincia allora un periodo di ripresa e di rinnovamento nella vita dei Soviet, il periodo della loro bolscevizzazione . Le fabbriche, le officine, le unità militari rieleggono i loro deputati, sostituiscono nei Soviet i menscevichi e i socialisti-rivoluzionari con i rappresentanti del partito bolscevico. Il giorno dopo la vittoria riportata su Kornilov, il 31 agosto (13 settembre), il Soviet di Pietrogrado si pronuncia per la politica dei bolscevichi; la vecchia presidenza menscevica e socialista-rivoluzionaria del Soviet, con alla testa Ceidze, rassegna le dimissioni cedendo il posto ai bolscevichi. Il 5 (18 settembre), il Soviet di Mosca dei deputati operai passa dalla parte dei bolscevichi. La sua presidenza socialista-rivoluzionaria e menscevica rassegna anch'essa le dimissioni sgombrando il cammino ai bolscevichi.
Tutto ciò costituiva la prova che le condizioni essenziali, necessarie per l'insurrezione vittoriosa erano giunte a maturità.
La parola d'ordine «Tutto il potere ai Soviet!» si poneva nuovamente all'ordine del giorno.
Ma non era più la vecchia parola d'ordine per il passaggio del potere ai Soviet menscevichi e socialisti-rivoluzionari. No, era la parola d'ordine dell'insurrezione dei Soviet contro il Governo provvisorio, allo scopo di consegnare tutto il potere del paese ai Soviet, diretti dai bolscevichi.
I partiti conciliatori cominciarono a sbandare.
Sotto la pressione dei contadini animati da spirito rivoluzionario, dai socialisti-rivoluzionari si staccò un'ala sinistra, i socialisti-rivoluzionari «di sinistra», che esprimeva il suo malcontento nei riguardi della politica di conciliazione con la borghesia.
Tra i menscevichi si formò, a sua volta, un gruppo di «sinistri», i cosiddetti «internazionalisti» che propendevano per i bolscevichi.
Il gruppo degli anarchici, dall'influenza ormai insignificante, si divise definitivamente in minuscoli gruppi, alcuni dei quali finirono per confondersi con elementi dei bassifondi sociali: criminali, ladri ed agenti provocatori, mentre altri divennero espropriatori-«idealisti», cioè si dedicarono a rapinare i contadini e i piccoli borghesi della città, a mettere le mani sui locali delle società operaie e i loro risparmi, e altri ancora, passarono apertamente nel campo controrivoluzionario per sistemare la loro esistenza, cercando un posticino nei trogoli della borghesia: ma tutti si pronunciavano contro qualsiasi potere, anche e soprattutto contro il potere rivoluzionario degli operai e dei contadini, ben sapendo che il potere rivoluzionario non avrebbe loro permesso né di derubare il popolo né di dilapidarne gli averi.
Dopo la disfatta di Kornilov, i menscevichi e i socialisti-rivoluzionari fecero ancora un tentativo per trattenere l'ascesa rivoluzionaria sempre più vigorosa. A tal fine, essi convocarono per il 12 (25) settembre 1917 una conferenza democratica panrussa composta dei rappresentanti dei partiti socialisti, dei Soviet conciliatori, dei sindacati, degli zemstvo , dei circoli industriali e commerciali e dell'esercito. La conferenza designò nel suo seno un Preparlamento (Consiglio provvisorio della repubblica). I conciliatori speravano di riuscire, servendosi di questo Preparlamento, ad arrestare la rivoluzione e a far passare il paese dalla via della rivoluzione sovietica sulla via dello sviluppo costituzionale borghese, sulla via del parlamentarismo borghese: vano tentativo di politicanti falliti, per far girare all'indietro la ruota della rivoluzione. Questo tentativo doveva fallire pietosamente: ciò che infatti avvenne. Gli operai schernivano le esercitazioni parlamentari dei conciliatori e battezzarono, per beffa, il Preparlamento col nome di predbannik (prebagno).
Il Comitato Centrale del partito bolscevico decise di boicottarlo. E sebbene il gruppo bolscevico nel Preparlamento, dove si trovavano uomini dello stampo di Kamenev e Teodorovic, non volesse uscirne, il Comitato Centrale del partito lo obbligò a lasciare i seggi del Preparlamento.
Kamenev e Zinoviev insistevano perché si partecipasse al Preparlamento, perché volevano distogliere in questo modo il partito dalla preparazione dell'insurrezione. Il compagno Stalin, in una riunione del gruppo bolscevico della Conferenza democratica panrussa, parlò risolutamente contro questa partecipazione. Egli definì il Preparlamento un «aborto kornilovista».
Lenin e Stalin consideravano come un grave errore parteciparvi anche per breve tempo, perché ciò poteva far sorgere tra le masse l'illusione che il Preparlamento fosse effettivamente capace di fare qualche cosa per i lavoratori.
Nello stesso tempo, i bolscevichi prepararono con tenacia la convocazione del II Congresso dei Soviet, ove contavano di ottenere la maggioranza. Nonostante tutte le manovre insidiose dei menscevichi e dei socialisti-rivoluzionari insediatisi nel Comitato Esecutivo Centrale dei Soviet, e sotto la pressione dei Soviet bolscevichi, il Il Congresso dei Soviet di tutta la Russia fu indetto per la seconda quindicina dell'ottobre 1917.
 


6. Insurrezione d'Ottobre a Pietrogrado e arresto del Governo provvisorio. II Congresso dei Soviet e formazione del governo sovietico. I decreti del II Congresso dei Soviet sulla pace e sulla terra. Trionfo della Rivoluzione Socialista. Cause della vittoria della Rivoluzione Socialista.
I bolscevichi si preparavano energicamente all'insurrezione. Lenin rilevava che, avendo ottenuto la maggioranza nei Soviet dei deputati operai e soldati delle due capitali, a Mosca e a Pietrogrado, i bolscevichi potevano e dovevano prendere il potere nelle mani. Facendo il bilancio dei progressi compiuti, Lenin sottolineava: «La maggioranza del popolo è per noi ». Nei suoi articoli e nelle lettere al Comitato Centrale e alle organizzazioni bolsceviche, Lenin dava un piano completo per l'insurrezione: come utilizzare le unità militari, la flotta e le guardie rosse; quali erano i punti decisivi che dovevano essere occupati a Pietrogrado, per assicurare il successo dell'insurrezione, ecc.
Il 7 (20) ottobre, Lenin giunge clandestinamente dalla Finlandia a Pietrogrado. Il 10 (23) ottobre 1917, si tiene la storica riunione del Comitato Centrale del partito, che decide l'inizio dell'insurrezione armata per i prossimi giorni. La storica risoluzione del Comitato Centrale del partito, scritta da Lenin diceva:
 
Il Comitato Centrale riconosce che, tanto la situazione internazionale della rivoluzione russa (l'insurrezione della flotta in Germania come manifestazione estrema in tutta Europa dello sviluppo delle forze della rivoluzione socialista mondiale, nonché la minaccia d'una pace fra gli imperialisti, allo scopo di soffocare la rivoluzione in Russia), quanto la situazione militare caratterizzata dall'incontestabile decisione della borghesia russa e di Kerenski e consorti di consegnare Pietrogrado ai tedeschi, quanto anche la conquista della maggioranza nei Soviet da parte del partito del proletariato - connesso tutto ciò con le sollevazioni contadine e con la svolta della fiducia del popolo verso il nostro partito (elezioni di Mosca) - ed, infine, l'evidente preparazione di un secondo tentativo simile a quello di Kornilov (allontanamento delle truppe da Pietrogrado, invio di cosacchi verso Pietrogrado, accerchiamento di Minsk da parte dei cosacchi ecc.), tutti questi fatti mettono l'insurrezione armata all'ordine del giorno.
Riconoscendo in tal modo che l'insurrezione armata è inevitabile, ed è giunta del tutto a maturità, il Comitato Centrale invita tutte le organizzazioni del partito a regolarsi sulla base di questa constatazione, a discutere e risolvere da questo punto di vista tutte le questioni pratiche (Congresso dei Soviet della regione del Nord, allontanamento delle truppe da Pietrogrado, manifestazioni popolari di Mosca e di Minsk, ecc.). (Lenin, «Opere scelte», vol. VI. pag. 333, Cooperativa Editrice dei lavoratori deII'URSS, ed. italiana).
 
Contro questa storica decisione parlarono e votarono due membri del Comitato Centrale - Kamenev e Zinoviev. Essi, come i menscevichi, sognavano una repubblica parlamentare borghese e calunniavano la classe operaia, sostenendo che non aveva la forza sufficiente per realizzare la rivoluzione socialista e non era ancora sufficientemente matura per la presa del potere.
In quella riunione, Trotzki, pur non votando apertamente contro la risoluzione, presentò un emendamento che avrebbe provocato la sconfitta e l'annientamento dell'insurrezione. Egli propose di non cominciare l'insurrezione prima dell'apertura del Il Congresso dei Soviet, il che voleva dire temporeggiare con l'insurrezione, rivelarne in anticipo la data ed avvertirne il Governo provvisorio.
Il Comitato Centrale del partito bolscevico inviò dei fiduciari nel bacino del Donetz, negli Urali, a Helsingfors, a Kronstadt, sul fronte del Sud-Ovest, ecc. per organizzarvi l'insurrezione. I compagni Voroscilov, Molotov, Dzerginski, Orgionikidze, Kirov, Kaganovic, Kuibyscev, Frunze, Iaroslavski e altri furono specificamente incaricati dal partito di dirigere l'insurrezione nelle varie località. Negli Urali, a Sciadrinsk, il compagno Zdanov dirigeva l'azione nell'esercito. Sul fronte Ovest, nella Bielorussia, era il compagno Iegiov che preparava le masse dei soldati all'insurrezione. I fiduciari del Comitato Centrale rendevano edotti i dirigenti delle organizzazioni bolsceviche locali dei piani dell'insurrezione e li tenevano pronti per l'immediato sostegno dell'insurrezione di Pietrogrado.
Secondo le direttive del Comitato Centrale del partito si creò un Comitato militare rivoluzionario presso il Soviet di Pietrogrado, che divenne lo stato maggiore legale dell'insurrezione.
Nello stesso tempo, anche la controrivoluzione raccoglieva in fretta le sue forze. Si vide formarsi un'unione controrivoluzionaria detta «Unione degli Ufficiali». Dappertutto, i controrivoluzionari creavano degli stati maggiori per la formazione di battaglioni di assalto. Alla fine di ottobre, la controrivoluzione disponeva di 43 battaglioni d'assalto. Si erano creati dei battaglioni interamente composti di cavalieri di S. Giorgio.
Il governo Kerenski propose di trasportare il governo da Pietrogrado a Mosca, dimostrando con ciò, all'evidenza, che intendeva consegnare Pietrogrado ai tedeschi per prevenire l'insurrezione. La protesta degli operai e dei soldati della guarnigione di Pietrogrado obbligò il Governo provvisorio a rimanere a Pietrogrado.
Il 16 (29) ottobre, si tenne la sessione allargata del Comitato Centrale del partito che elesse un Centro del partito , con a capo il compagno Stalin per dirigere l'insurrezione. Questo Centro costituì il nucleo dirigente del Comitato militare rivoluzionario presso il Soviet di Pietrogrado, e diresse praticamente tutta l'insurrezione.
Durante la sessione del Comitato Centrale, i capitolardi Zinoviev e Kamenev parlarono nuovamente contro l'insurrezione. Messi a posto anche questa volta, essi decisero di pronunciarsi pubblicamente, sulla stampa, contro l'insurrezione, contro il partito. Il 18 (31) ottobre, il giornale menscevico Novaia Gizn pubblicava infatti una dichiarazione di Kamenev e di Zinoviev sulla preparazione da parte del partito bolscevico di un'insurrezione, che essi consideravano come un'avventura. Così, Kamenev e Zinoviev rivelavano ai nemici che il Comitato Centrale aveva deciso di scatenare l'insurrezione, di organizzarla a breve scadenza. Era il tradimento! Lenin scrisse a questo proposito: «Kamenev e Zinoviev hanno denunciato a Rodzianko e a Kerenski la decisione del Comitato Centrale del loro partito per l'insurrezione armata». Lenin propose al Comitato Centrale l'espulsione di Zinoviev e di Kamenev dal partito.
Avvertiti dai traditori, i nemici della rivoluzione presero subito provvedimenti per prevenire l'insurrezione e schiacciare lo stato maggiore della rivoluzione, il partito dei bolscevichi. Il Governo provvisorio tenne una riunione segreta in cui decise le misure da prendersi per la lotta contro i bolscevichi e il 19 ottobre chiamò d'urgenza a Pietrogrado delle truppe ritirate dal fronte. Pattuglie rafforzate circolavano per le vie. La controrivoluzione era riuscita a concentrare a Mosca delle forze particolarmente importanti. Il Governo provvisorio aveva elaborato il suo piano: alla vigilia dell'apertura del Il Congresso dei Soviet, attaccare e occupare l'Istituto Smolny, la sede del Comitato Centrale dei bolscevichi, e schiacciare il centro dirigente bolscevico. A tal fine, erano state ammassate nelle vicinanze di Pietrogrado delle truppe che il governo credeva sicure.
Però i giorni e le ore del Governo provvisorio erano ormai segnati. Nessuna forza poteva più arrestare la marcia vittoriosa della rivoluzione socialista.
Il 21 ottobre (3 novembre), i bolscevichi inviarono dei commissari del Comitato militare rivoluzionario in tutte le unità rivoluzionarie. Durante le giornate che precedettero l'insurrezione, le unità militari, le fabbriche e le officine si prepararono con energia alla battaglia. Compiti precisi erano stati assegnati anche alle navi da guerra «Aurora» e «Alba della libertà».
Ma in una seduta del Soviet di Pietrogrado, Trotzki, per millanteria, spiffera al nemico la data prestabilita dai bolscevichi per l'inizio dell'insurrezione. Per impedire al governo kerenskiano di domare l'insurrezione armata, il Comitato Centrale del partito decide di scatenarla e di portarla a compimento prima della data fissata, un giorno prima che s'iniziasse il II Congresso dei Soviet.
Kerenski cominciò col proibire, all'alba del 24 ottobre (6 novembre), l'organo centrale del partito bolscevico Raboci Put («La Via Operaia») e coll'inviare delle autoblindate alle porte della redazione del giornale e della tipografia dei bolscevichi. Ma verso le 10 del mattino, su indicazione del compagno Stalin, le guardie rosse e i saldati rivoluzionari fecero retrocedere le autoblindate e stabilirono dei forti posti di guardia nelle adiacenze della tipografia e della redazione del Raboci Put . Verso le 11 del mattino, il giornale uscì con un appello al rovesciamento del Governo provvisorio. Contemporaneamente, per ordine del Centro del partito che dirigeva l'insurrezione, si concentravano d'urgenza a Smolny reparti di soldati rivoluzionari e di guardie rosse.
L' Insurrezione era cominciata.
Il 24 ottobre (6 novembre) nella notte, Lenin giunge a Smolny e assume la direzione dell'insurrezione. Per tutta la notte i reparti di soldati rivoluzionari e di guardie rosse affluiscono verso Smolny. I bolscevichi li dirigono verso il centro della capitale per prendere d'assalto il Palazzo d'Inverno, dove il Governo provvisorio si è trincerato.
Il 25 ottobre (7 novembre), la Guardia rossa e le truppe rivoluzionarie occupano le stazioni, la posta, il telegrafo, i ministeri, la banca di Stato.
Il Preparlamento è sciolto.
Smolny, la sede del Soviet di Pietrogrado e del Comitato Centrale dei bolscevichi, diventa il Quartier Generale della rivoluzione, donde partono gli ordini per la battaglia.
Gli operai di Pietrogrado dimostrarono in quei giorni che erano stati ad una buona scuola, sotto la direzione del partito bolscevico. Le unità delle truppe rivoluzionarie, preparate all'insurrezione dall'attività dei bolscevichi, eseguirono fedelmente gli ordini di combattimento e si batterono a fianco della Guardia rossa. E la flotta non fu da meno dell'esercito. Kronstadt era un fortilizio del partito bolscevico, e, già da molto tempo, non vi si riconosceva più il potere del Governo provvisorio. L'incrociatore «Aurora», con il rombo dei suoi cannoni puntati contro il Palazzo d'Inverno, annunziò il 25 ottobre (7 novembre), l'inizio d'un'altra èra - l'èra della Grande Rivoluzione Socialista.
Il 25 ottobre (7 novembre), fu pubblicato l'appello dei bolscevichi «Ai cittadini della Russia», nel quale si annunciava che il Governo provvisorio borghese era stato deposto e che il potere statale era passato nelle mani dei Soviet.
Il Governo provvisorio si era trincerato nel Palazzo d'Inverno sotto la protezione degli junker e dei battaglioni d'assalto. Nella notte dal 25 al 26 ottobre (7-8 novembre), gli operai, i soldati e i marinai rivoluzionari presero d'assalto il Palazzo d'Inverno e procedettero all'arresto del Governo provvisorio.
L'insurrezione armata di Pietrogrado aveva vinto.
Il II Congresso panrusso dei Soviet si riunì a Smolny alle 22 e 45 del 25 ottobre (7 novembre) 1917, quando l'insurrezione vittoriosa era giunta al punto culminante e il potere nella capitale si trovava già di fatto nelle mani del Soviet di Pietrogrado.
I bolscevichi ottennero al congresso la schiacciante maggioranza. I menscevichi, i bundisti e i socialisti-rivoluzionari di destra, vedendo che avevan fatto il loro tempo, abbandonarono il congresso, dichiarando che si rifiutavano di partecipare ai suoi lavori. Nella dichiarazione che essi lessero al congresso qualificavano la Rivoluzione d'Ottobre come «un complotto militare». Il congresso bollò a sangue i menscevichi ed i socialisti-rivoluzionari, affermando che non solo non ne rimpiangeva la defezione, ma ne era soddisfatto, giacché, grazie all'uscita dei traditori, il congresso diventava veramente un congresso rivoluzionario di deputati operai e soldati.
Il congresso proclamò che il potere passava interamente nelle mani dei Soviet.
 
Forte della volontà dell'immensa maggioranza degli operai, dei soldati e dei contadini, forte dell'insurrezione vittoriosa degli operai e della guarnigione di Pietrogrado, il Congresso prende il potere nello proprie mani - proclamava l'appello del Il Congresso dei Soviet.
 
Nella notte del 26 ottobre (8 novembre) 1917, il II Congresso dei Soviet approvò il decreto sulla pace . Il congresso invitava i paesi belligeranti a concludere immediatamente un armistizio di almeno tre mesi per intavolare le trattative di pace. Pur rivolgendosi ai governi e ai popoli di tutti i paesi belligeranti, il congresso si rivolgeva anche «agli operai coscienti delle tre nazioni più progredite dell'Umanità e degli Stati più forti partecipanti alla guerra in corso: Inghilterra, Francia e Germania». Il congresso chiedeva l'aiuto di quegli operai «per far trionfare la causa della pace e, al tempo stesso, la causa della liberazione da ogni schiavitù e da ogni sfruttamento delle masse lavoratrici e sfruttate».
Nella stessa notte, il II Congresso dei Soviet approvò il decreto sulla terra , in virtù del quale «il diritto di proprietà dei grandi proprietari sulla terra era abolito immediatamente senza alcuna indennità». Questa legge agraria si ispirava a un Mandato generale contadino stabilito sulla base di 242 Mandati contadini locali. Ai termini di quel Mandato, il diritto di proprietà privata sulla terra era abolito per sempre e sostituito dalla proprietà nazionale, dalla proprietà dello Stato sulla terra. Le terre dei grandi proprietari fondiari, della corona e dei monasteri dovevano essere date in godimento gratuito a tutti i lavoratori.
Tutti i contadini, in forza di quel decreto, ottennero dalla Rivoluzione Socialista d'Ottobre più di 150 milioni di dessiatine di nuove terre dianzi possedute dai grandi proprietari fondiari, dalla borghesia, dalla famiglia imperiale, dai monasteri, dalle chiese.
I contadini furono esonerati dal pagamento delle annualità d'affitto ai proprietari fondiari per una somma di circa 500 milioni di rubli oro.
Tutte le ricchezze del sottosuolo (nafta, carbone, minerali, ecc.), le foreste e le acque divennero proprietà del popolo.
Infine, il Il Congresso panrusso dei Soviet costituì il primo governo sovietico, il Consiglio dei Commissari del popolo, composto interamente di bolscevichi. Presidente del primo Consiglio dei Commissari del popolo fu eletto Lenin.
Così terminò lo storico II Congresso dei Soviet.
I delegati ritornarono ai loro paesi per diffondere la notizia della vittoria dei Soviet a Pietrogrado e per assicurare l'estensione del potere sovietico all'intero paese.
Il potere non passò subito ai Soviet in tutte le località. Mentre a Pietrogrado esisteva già il potere sovietico, a Mosca si combatté ancora nelle strade per alcuni giorni, aspramente e accanitamente. Per impedire il passaggio del potere al Soviet di Mosca, i partiti controrivoluzionari menscevico e socialista-rivoluzionario, aiutati dalle guardie bianche e dagli junker, impegnarono una lotta armata contro gli operai e i soldati. Solamente dopo alcuni giorni i ribelli furono battuti e il potere del Soviet instaurato a Mosca.
Nella stessa Pietrogrado, in alcuni suoi quartieri, nei giorni che immediatamente seguirono la vittoria della rivoluzione, si ebbero tentativi controrivoluzionari di rovesciare il potere sovietico. Il 10 (23) novembre 1917, Kerenski, fuggito durante l'insurrezione di Pietrogrado nella zona del fronte settentrionale, raccolse alcune unità cosacche e le inviò contro Pietrogrado al comando del generale Krasnov. L'11 novembre 1917, un'organizzazione controrivoluzionaria, il «Comitato per la salvezza della patria e della rivoluzione», con a capo i socialisti-rivoluzionari, scatenò a Pietrogrado una rivolta di junker . Ma i ribelli furono battuti senza troppe difficoltà. Nel volgere di un sol giorno, alla sera dell'11 novembre, la rivolta degli junker era soffocata dai marinai e dalle guardie rosse e il 13 novembre sulle alture di Pulkovo era battuto il generale Krasnov. Come durante l'insurrezione d'Ottobre, Lenin personalmente diresse il soffocamento della rivolta antisovietica. La sua fermezza inflessibile, la sua certezza nella vittoria ispiravano le masse, ne assicuravano la coesione. Il nemico fu sconfitto. Krasnov, fatto prigioniero, diede «la parola d'onore» che avrebbe cessato di lottare contro il potere sovietico. Per questa sua «parola d'onore» fu liberato; ma in seguito, Krasnov doveva violare la sua parola di generale. Kerenski, invece, vestito da donna, poté fuggirsene in «direzione sconosciuta».
A Moghilev, al Gran Quartier Generale dell'esercito, anche il generale Dukhonin tentò di scatenare una ribellione. Il governo sovietico lo aveva invitato a intavolare immediatamente le trattative per l'armistizio con il comando tedesco, ma Dukhonin si era rifiutato di obbedire. Allora, per ordine del potere sovietico, Dukhonin venne destituito. Il Gran Quartier Generale controrivoluzionario fu liquidato e Dukhonin venne ucciso dai soldati, che erano insorti contro di lui.
Anche i ben noti opportunisti che si trovavano nel partito, Kamenev, Zinoviev, Rykov, Scliapnikov e altri, tentarono una losca manovra contro il potere sovietico. Essi reclamavano che si costituisse un «governo socialista omogeneo», con la partecipazione dei menscevichi e dei socialisti-rivoluzionari, solo allora abbattuti dalla Rivoluzione d'Ottobre. Ma il 15 (28) novembre 1917, il Comitato Centrale del partito bolscevico approvò una risoluzione che respingeva l'accordo con quei partiti controrivoluzionari: Kamenev e Zinoviev furono proclamati traditori della rivoluzione. Il 17 (30) novembre, Kamenev, Zinoviev, Rykov, Miliutin, in disaccordo con la politica del partito, dichiararono di ritirarsi dal Comitato Centrale. Lo stesso 17 novembre, Noghib, a nome suo e di altri membri del Consiglio dei Commissari del popolo, Rykov, Miliutin, Teodorovic. A. Scliapnikov, D. Riazanov, lurenev, Larin, dichiarò che, in disaccordo con la politica del Comitato Centrale del partito, si dimettevano dal Consiglio dei Commissari del popolo. La diserzione di quel pugno di vili rese esultanti i nemici della Rivoluzione d'Ottobre. Tutta la borghesia e i suoi complici sghignazzando gridavano allo sfacelo del bolscevismo, profetizzando la rovina del partito bolscevico. Ma quel pugno di disertori non scosse neppur per un istante il partito. Il Comitato Centrale del partito li bollò a fuoco con disprezzo come disertori della rivoluzione e complici della borghesia e passò all'ordine del giorno.
In quanto poi ai socialisti-rivoluzionari «di sinistra», costoro, per conservare la loro influenza tra le masse contadine che simpatizzavano in modo manifesto per il bolscevismo, decisero di non giungere alla rottura e di conservare provvisoriamente il fronte unico col partito bolscevico. Il congresso dei Soviet contadini, tenutosi nel novembre del 1917, riconobbe tutte le conquiste della Rivoluzione Socialista d'Ottobre e i decreti del potere sovietico. Si conclude un accordo con i socialisti-rivoluzionari «di sinistra», un certo numero dei quali entra nel Consiglio dei Commissari del popolo (Kolegaiev, Spiridonova, Proscian e Steinberg). Ma questo accordo durerà soltanto fino alla firma della pace di Brest-Litovsk e alla formazione dei comitati di contadini poveri, cioè fino a quando tra i contadini si opererà una profonda differenziazione e i socialisti-rivoluzionari «di sinistra», esprimendo sempre più gli interessi dei kulak, scateneranno una rivolta contro i bolscevichi e saranno battuti dal potere sovietico.
Dall'Ottobre 1917 al gennaio-febbraio 1918, la rivoluzione sovietica si estese al paese intero. L'estensione del potere sovietico a tutto il territorio del nostro immenso paese procedeva ad un ritmo così accelerato, che Lenin la definì «la marcia trionfale» del potere sovietico.
La Grande Rivoluzione Socialista d'Ottobre trionfava.
Delle diverse cause che hanno determinato la vittoria relativamente facile della rivoluzione socialista in Russia, ecco ora quali sono le principali:
1. La Rivoluzione d'Ottobre aveva di fronte un nemico relativamente debole, male organizzato, di scarsa esperienza politica, quale era la borghesia russa. Non ancora forte economicamente e completamente dipendente dalle ordinazioni del governo, la borghesia russa non aveva né indipendenza politica né la sufficiente iniziativa, indispensabili per trovare una via d'uscita alla situazione. Né aveva l'esperienza delle combinazioni e delle mistificazioni politiche in grande stile che ha, per esempio, la borghesia francese. Né era stata alla scuola dei compromessi disonesti in grande stile come, per esempio, la borghesia inglese. Ricercando ieri ancora un'intesa con lo zar, rovesciato dalla rivoluzione di Febbraio, non aveva saputo far di meglio, giunta al potere, che continuare, nelle linee fondamentali, la politica dell'odiato zar. Proprio come lo zar, essa voleva conservare, sostanzialmente, la grande proprietà terriera, nonostante la fame di terra e i ceppi dei proprietari fondiari onde languivano a morte i contadini. In quanto alla sua politica verso il proletariato, la borghesia russa superava lo zar nel suo odio verso gli operai, giacché si sforzava non soltanto di conservare e di rafforzare l'oppressione capitalistica, ma di renderla ancor più intollerabile con l'attuazione delle serrate in massa.
Nulla di strano, dunque, che il popolo non vedesse nessuna differenza sostanziale tra la politica dello zar e la politica della borghesia e avesse riversato sul Governo provvisorio borghese tutto l'odio che nutriva contro lo zar.
Finché i partiti conciliatori dei socialisti-rivoluzionari e dei menscevichi esercitarono una certa influenza sul popolo, la borghesia poté nascondersi dietro questi partiti e conservare il potere. Ma dopo che i menscevichi e i socialisti-rivoluzionari si furono smascherati come agenti della borghesia imperialistica, perdendo in tal guisa la propria influenza sul popolo, la borghesia e il suo Governo provvisorio restarono senza appoggio.
2. A capo della Rivoluzione d'Ottobre si trovava una classe rivoluzionaria come la classe operaia della Russia, una classe temprata nelle battaglie, che in poco tempo aveva percorso due rivoluzioni e che aveva acquistato, alla vigilia della terza rivoluzione, l'autorità di capo del popolo nella lotta per la pace, per la terra, per la libertà, per il socialismo. Senza un capo della rivoluzione, sorretto dalla fiducia del popolo, come la classe operaia della Russia, non si sarebbe realizzata l'alleanza tra gli operai e i contadini, e, senza questa alleanza, la Rivoluzione di Ottobre non avrebbe potuto vincere.
3. La classe operaia della Russia aveva, nella rivoluzione, un potente alleato nei contadini poveri che rappresentavano la grande maggioranza dei contadini. L'esperienza di otto mesi di rivoluzione, che si può paragonare senza alcun dubbio all'esperienza di parecchie decine di anni di sviluppo «normale», non era andata perduta per le masse lavoratrici delle campagne. Durante quel periodo, le masse contadine avevano potuto mettere alla prova dei fatti tutti i partiti della Russia e rendersi conto che né i cadetti, né i socialisti-rivoluzionari, né i menscevichi avrebbero mai seriamente lottato contro i grandi proprietari fondiari e mai versato il loro sangue per i contadini, che in Russia v'era un solo partito, non legato affatto ai proprietari fondiari e pronto a schiacciarli per soddisfare i bisogni dei contadini: il partito dei bolscevichi. E in ciò consistette la base reale dell'alleanza del proletariato con i contadini poveri. Quest'alleanza della classe operaia con i contadini poveri determinò anche la condotta dei contadini medi che oscillarono a lungo, e solo alla vigilia della Rivoluzione d'Ottobre passarono decisamente dalla parte della Rivoluzione, unendosi ai contadini poveri.
È superfluo dimostrare che senza quest'alleanza la Rivoluzione d'Ottobre non avrebbe potuto vincere.
4. A capo della classe operaia si trovava un partito provato nelle lotte politiche come il partito bolscevico. Soltanto un partito come il partito bolscevico, sufficientemente ardito per portare il popolo all'assalto decisivo e sufficientemente guardingo per evitare gli scogli di qualunque genere sul cammino del successo, soltanto un partito come questo poteva unire in un modo così saggio, in un solo torrente rivoluzionario, dei movimenti rivoluzionari tanto diversi quanto il movimento democratico generale per la pace, il movimento democratico contadino per l'occupazione delle terre dei proprietari fondiari, il movimento di liberazione nazionale dei popoli oppressi in lotta per l'eguaglianza nazionale e il movimento socialista del proletariato per il rovesciamento della borghesia e per l'instaurazione della dittatura del proletariato.
Evidentemente, è la fusione di tutte queste diverse correnti rivoluzionarie in un torrente rivoluzionario unico e potente che decise delle sorti del capitalismo in Russia.
5. La Rivoluzione d'Ottobre cominciò mentre la guerra imperialistica infuriava in pieno, mentre i principali Stati borghesi, scissi in due campi nemici e impegnati a farsi la guerra e ad indebolirsi vicendevolmente, non potevano né intervenire seriamente negli «affari russi», né agire attivamente contro la Rivoluzione d'Ottobre.
È evidente che questa circostanza ha agevolato fortemente la vittoria della Rivoluzione Socialista d'Ottobre.
 


Lotta del partito bolscevico per consolidare il potere sovietico. Pace di Brest-Litovsk. Il VII Congresso del partito.
Per consolidare il potere sovietico, era necessario distruggere, fare a pezzi il vecchio apparato statale borghese e sostituirlo con l'apparato nuovo dello Stato sovietico. Era necessario distruggere i residui delle vecchie caste e il regime d'oppressione nazionale, abolire i privilegi della Chiesa, sopprimere la stampa controrivoluzionaria e le organizzazioni controrivoluzionarie di ogni specie, legali e illegali, sciogliere l'Assemblea costituente borghese. Infine, bisognava, dopo aver nazionalizzato la terra, nazionalizzare pur tutta la grande industria e uscire dallo stato di guerra, strappare il paese dalla guerra, dal maggior ostacolo al consolidamento del potere sovietico.
Tutti questi provvedimenti furono tradotti in atto in alcuni mesi dalla fine del 1917 alla metà del 1918.
Il sabotaggio dei funzionari dei vecchi ministeri, organizzato dai socialisti-rivoluzionari e dai menscevichi, è spezzato e liquidato. I ministeri sono soppressi e sostituiti con organi amministrativi sovietici e coi Commissariati del popolo corrispondenti. Si crea il Consiglio supremo dell'economia nazionale, per gestire l'industria del paese; si organizza la Commissione straordinaria panrussa (Vecehà ), con a capo il compagno Dzerginski, per combattere la controrivoluzione e il sabotaggio. Si emette un decreto per la formazione dell'Esercito Rosso e della Flotta Rossa. L'Assemblea costituente, le cui elezioni si sono svolte in gran parte prima della Rivoluzione d'Ottobre e che si è rifiutata di ratificare i decreti del II Congresso dei Soviet sulla pace, sulla terra, sul passaggio del potere ai Soviet, è sciolta.
Per fare scomparire in modo definitivo i residui del feudalismo, delle caste e dell'ineguaglianza in tutti i domini della vita sociale, si emettono vari decreti sull'abolizione delle caste, sulla soppressione delle restrizioni nazionali e confessionali, sulla separazione della Chiesa dallo Stato e sulla separazione della scuola dalla Chiesa, sulla uguaglianza delle donne e sulla uguaglianza delle diverse nazionalità della Russia.
In una speciale decisione del governo sovietico, nota sotto il nome di «Dichiarazione dei diritti dei popoli della Russia» si stabilisce che il libero sviluppo dei popoli della Russia e la loro piena eguaglianza di diritti sono consacrati dalla legge.
Per scalzare alle radici la potenza economica della borghesia e organizzare un'economia nuova, l'economia nazionale sovietica, e, innanzi tutto, per organizzare una nuova industria, l'industria sovietica, sono nazionalizzate le banche, le ferrovie, il commercio estero, la flotta mercantile e tutti i rami della grande industria: carbone, metallurgia, nafta, prodotti chimici, costruzioni meccaniche, industria tessile, zuccherifici, ecc.
Infine, per liberare il nostro paese dalla dipendenza finanziaria e dallo sfruttamento dei capitalisti stranieri, si annullarono i prestiti contratti all'estero dallo zar e dal Governo provvisorio. I popoli del nostro paese non intendevano pagare i debiti che erano stati contratti per continuare la guerra di rapina e che asservivano il nostro paese al capitale straniero.
Tutti questi ed altri analoghi provvedimenti scalzarono alle radici la potenza della borghesia, dei proprietari fondiari, dei funzionari reazionari, dei partiti controrivoluzionari e consolidarono in modo notevole il potere sovietico all'interno del paese.
Ma non si poteva ritenere del tutto consolidata la situazione del potere sovietico, finché la Russia si trovava in stato di guerra contro la Germania e l'Austria. Per consolidare in modo definitivo il potere sovietico, occorreva finire la guerra. Perciò il partito sviluppò la lotta per la pace fin dai primi giorni che seguirono la vittoria della Rivoluzione d'Ottobre.
Il governo sovietico propose «a tutti i popoli belligeranti e ai loro governi di intavolare senza indugi le trattative per una pace democratica giusta». Ma gli «alleati» - l'Inghilterra e la Francia - respinsero la proposta del governo sovietico. Di fronte a questo rifiuto, il governo sovietico, adempiendo la volontà dei Soviet, decise di impegnare trattative con la Germania e con l'Austria.
I negoziati cominciarono il 3 (16) dicembre, a Brest-Litovsk. Il 5 (18) dicembre, un armistizio era concluso.
Le trattative si svolsero mentre l'economia nazionale attraversava una crisi profonda; tutti erano stanchi della guerra e il fronte che le nostre truppe abbandonavano era in disgregazione. Durante le trattative, si rese evidente che gli imperialisti tedeschi volevano impadronirsi di immensi territori dell'ex impero zarista e trasformare la Polonia, l'Ucraina e le regioni baltiche in tanti Stati dipendenti dalla Germania.
Continuare la guerra in quelle condizioni voleva dire mettere in pericolo l'esistenza della repubblica sovietica di recente formatasi. La classe operaia e i contadini si videro costretti ad accettare dure condizioni di pace, a retrocedere di fronte al predone che in quel momento era il più pericoloso, l'imperialismo tedesco, se volevamo ottenere una tregua, consolidare il potere sovietico e creare un esercito nuovo, l'Esercito Rosso, che fosse capace di difendere il paese dall'aggressore.
Tutti i controrivoluzionari, dai menscevichi e socialisti-rivoluzionari alle più accanite guardie bianche, scatenarono un'agitazione furibonda contro la firma del trattato di pace. Le loro intenzioni erano chiare: essi volevano far fallire le trattative di pace, provocare un'offensiva tedesca ed esporre ai suoi colpi il potere sovietico non ancora consolidato, mettere in pericolo le conquiste degli operai e dei contadini.
I loro alleati, in quella infame bisogna, erano Trotzki e il suo tirapiedi Bukharin, il quale, insieme con Radek e Piatakov, si trovava a capo di un gruppo ostile al partito, che per mascherarsi si chiamava gruppo dei «comunisti di sinistra». Trotzki e il gruppo dei «comunisti di sinistra» mossero, all'interno del partito, una lotta accanita contro Lenin e per la continuazione della guerra. Costoro facevano apertamente il giuoco degli imperialisti tedeschi e dei controrivoluzionari dell'interno, giacché volevano esporre la giovane repubblica sovietica, che non aveva ancora un esercito, ai colpi dell'imperialismo tedesco.
Politica di provocazione, mascherata abilmente da frasi di sinistra.
Il 10 febbraio 1918, le trattative di pace a Brest-Litovsk furono interrotte. Sebbene Lenin e Stalin, a nome del Comitato Centrale del partito, avessero insistito perché la pace fosse conclusa, Trotzki, presidente della delegazione sovietica a Brest-Litovsk, infranse, a tradimento, le direttive esplicite del partito bolscevico. Egli dichiarò che la Repubblica sovietica si rifiutava di firmare la pace alle condizioni proposte dalla Germania e, al tempo stesso, comunicò ai tedeschi che la Repubblica sovietica non avrebbe continuato la guerra e avrebbe continuato a smobilitare l'esercito.
Atto mostruoso. Gli imperialisti tedeschi non potevano sperare di più da un traditore degli interessi del paese sovietico!
La Germania ruppe l'armistizio e riprese l'offensiva. I resti del nostro vecchio esercito cedettero alla pressione delle truppe tedesche e si diedero alla fuga. I tedeschi avanzarono rapidamente, occupando un immenso territorio e minacciando Pietrogrado. L'imperialismo tedesco, dopo essere penetrato in terra sovietica, si proponeva di rovesciare il potere sovietico e di ridurre la nostra patria allo stato di colonia. Il vecchio, disorganizzato esercito zarista non poteva resistere alla valanga dell'esercito imperialista tedesco e indietreggiava sotto i colpi dell'invasore.
Tuttavia l'intervento armato degli imperialisti tedeschi suscitò un potente impulso rivoluzionario nel paese. All'appello lanciato dal partito e dal governo sovietico: «La patria socialista è in pericolo», la classe operaia rispose affrettandosi a costituire le unità dell'Esercito Rosso. I giovani reparti del nuovo esercito - l'esercito del popolo rivoluzionario - respinsero eroicamente l'assalto del predone tedesco, armato fino ai denti, assestandogli un colpo demolitore alle porte di Narva e Pskov. L'avanzata tedesca su Pietrogrado fu arrestata. E il 23 febbraio - giorno in cui furono respinte le truppe dell'imperialismo tedesco - segnò la nascita del giovane Esercito Rosso.
Già il 18 febbraio 1918, il Comitato Centrale del partito aveva approvato di inviare un telegramma al governo tedesco, proponendo l'immediata conclusione della pace. Era allo scopo di assicurarsi condizioni di pace più favorevoli, che i tedeschi continuavano l'offensiva. Il 22 febbraio solamente il governo tedesco accettò di firmare la pace e a condizioni per noi molto più gravi che al tempo dei primi negoziati.
Lenin, Stalin e Sverdlov dovettero sostenere una delle più accanite lotte nel Comitato Centrale contro Trotzki, Bukharin e gli altri trotzkisti per ottenere un voto in favore della pace. Lenin indicò che Bukharin e Trotzki «avevano di fatto aiutato gli imperialisti tedeschi e ostacolato il progresso e lo sviluppo della rivoluzione in Germania». (Lenin, «Opere», vol. XXII, pag. 307 ed. russa).
Il 23 febbraio, il Comitato Centrale decise di accettare le condizioni del comando tedesco e di firmare il trattato di pace. Il tradimento di Trotzki e di Bukharin era costato caro alla Repubblica sovietica: la Lettonia, l'Estonia, senza parlare della Polonia, passavano alla Germania; l'Ucraina era staccata dalla Repubblica sovietica per farla divenire uno Stato vassallo della Germania. La Repubblica sovietica si impegnava di pagare ai tedeschi una indennità di guerra.
Intanto i «comunisti di sinistra», continuando la lotta contro Lenin, rotolavano sempre più in basso nel pantano del tradimento.
L'Ufficio del partito della regione di Mosca, di cui si erano per il momento impadroniti i «comunisti di sinistra» (Bukharin, Ossinski, Iakovleva, Stukov, Manzev) approvò una risoluzione scissionistica di sfiducia verso il Comitato Centrale e dichiarò che considerava «quasi impossibile evitare la scissione a breve scadenza nel partito». Essi giunsero persino, in quella risoluzione, a prendere una decisione antisovietica: «Nell'interesse della rivoluzione internazionale - scrivevano - noi riteniamo utile prendere in considerazione l'eventuale soppressione del potere sovietico, che diventa ora puramente formale».
Lenin qualificò quella risoluzione come «strana e mostruosa».
In quel momento, non era ancora chiara per il partito la vera causa della condotta ostile al partito di Trotzki e dei «comunisti di sinistra». Ma, come è risultato dal recente processo (all'inizio del 1938) dell'organizzazione antisovietica nota col nome di «blocco dei destri e dei trotzkisti», Bukharin e il gruppo dei «comunisti di sinistra» da lui diretto, tramavano allora, insieme con Trotzki e coi socialisti-rivoluzionari «di sinistra», un complotto contro il governo sovietico. È accertato che Bukharin, Trotzki e i loro complici si ponevano come scopo di sabotare il trattato di pace di Brest-Litovsk, di fare arrestare V.I. Lenin, I.V. Stalin, I.M. Sverdlov, di assassinarli e di formare un nuovo governo composto di bukhariniani, di trotzkisti e di socialisti-rivoluzionari «di sinistra».
Mentre organizzava un complotto controrivoluzionario, il gruppo dei «comunisti di sinistra», sostenuto da Trotzki, attaccava, in modo aperto, il partito bolscevico, nello scopo di scinderlo e di disgregarne le file. Ma, in quel difficile momento, il partito si strinse attorno a Lenin, Stalin e Sverdlov e sostenne il Comitato Centrale tanto nella questione della pace, che in tutte le altre questioni.
Il gruppo dei «comunisti di sinistra» venne a trovarsi isolato e battuto.
Per risolvere definitivamente la questione della pace, il partito convocò il suo VII Congresso.
Il congresso si aprì il 6 marzo 1918. Era il primo congresso convocato dopo che il nostro partito aveva preso il potere. Erano presenti 46 delegati con voto deliberativo e 8 con voto consultivo, che rappresentavano 145 mila membri del partito. In realtà, il partito contava in quel tempo non meno di 270 mila aderenti. La differenza era dovuta al fatto che, data l'urgenza del congresso, una parte considerevole delle organizzazioni non aveva fatto in tempo ad inviare i suoi delegati, mentre le organizzazioni, il cui territorio era stato momentaneamente occupato dai tedeschi, si erano trovate nell'impossibilità di farsi rappresentare.
A proposito della pace di Brest-Litovsk, Lenin disse al congresso: «...la crisi penosa che attraversa il nostro partito, in seguito al fatto che una opposizione di sinistra si è formata nel suo seno, rappresenta una delle crisi più gravi che abbia vissute la rivoluzione russa». (Lenin,«Opere», vol. XXII, pag. 321 ed. russa).
La risoluzione di Lenin sulla pace di Brest-Litovsk fu approvata con 30 voti contro 12 e 4 astenuti.
Lenin scrisse all'indomani, nell'articolo «Una pace disgraziata»:
 
Le condizioni della pace sono infinitamente gravose. Tuttavia l'ultima parola la dirà la storia... Al lavoro per l'organizzazione, l'organizzazione e l'organizzazione! Ad onta di tutte le prove, l'avvenire è nostro. (Ibidem , pag. 288).
 
Nella risoluzione del congresso si indicava che erano inevitabili nuovi attacchi militari da parte degli Stati imperialistici contro la Repubblica dei Soviet; che, perciò, il congresso riteneva compito fondamentale del partito prendere i provvedimenti più energici e risoluti per rinsaldare la propria disciplina e la disciplina degli operai e dei contadini, per preparare le masse a difendere con abnegazione la patria socialista, per organizzare l'Esercito Rosso, per dare un'istruzione militare generale alla popolazione.
Il congresso, dopo aver confermato che la linea di Lenin, nella questione della pace di Brest-Litovsk, era giusta, condannò la posizione di Trotzki e di Bukharin, bollando a fuoco il tentativo dei «comunisti di sinistra», battuti, di proseguire nel congresso stesso la loro attività scissionistica.
La conclusione della pace di Brest-Litovsk permise al partito di guadagnare tempo per consolidare il potere sovietico, per riordinare l'economia del paese.
La conclusione della pace permise di valersi dei conflitti nel campo dell'imperialismo (la guerra che continuava tra il blocco austro-tedesco e l'Intesa), di disgregare le forze dell'avversario, di organizzare l'economia sovietica, di creare l'Esercito Rosso.
La conclusione della pace permise al proletariato di conservare l'appoggio dei contadini e di raccogliere le forze per battere i generali bianchi, durante la guerra civile.
Nel periodo della Rivoluzione d'Ottobre, Lenin aveva insegnato al partito bolscevico l'arte di attaccare arditamente e risolutamente quando esistono le condizioni necessarie. Nel periodo di Brest-Litovsk, Lenin insegnò al partito anche l'arte di ripiegarsi in buon ordine quando le forze dell'avversario sono evidentemente superiori alle nostre, per poter, con la massima energia, preparare una nuova offensiva contro il nemico.
La storia ha dimostrato la giustezza della linea di Lenin.
Il VII Congresso decise di cambiare il nome del partito e di modificarne il programma. Il partito si venne a chiamare Partito comunista (bolscevico) di Russia - P.C.(b)R. È Lenin che propone di chiamare comunista il nostro partito, perché questo nome risponde esattamente allo scopo che il partito si assegna: realizzare il comunismo.
Per stabilire il nuovo programma del partito, fu eletta una commissione speciale composta da Lenin, Stalin ed altri, e come base del programma si prese un progetto preparato da Lenin.
Così il VII Congresso realizzò un grandioso compito storico: batté i nemici nascostisi in seno al partito, i «comunisti di sinistra» e i trotzkisti; riuscì a strappare il paese alla guerra imperialistica e ad ottenere la pace, la tregua: permise al partito di guadagnar tempo per organizzare l'Esercito Rosso e proclamò come dovere del partito di instaurare l'ordine socialista nell'economia nazionale.
 


8. Il piano di Lenin per iniziare l'edificazione socialista. I comitati di contadini poveri mettono a freno i kulak. La rivolta dei socialisti-rivoluzionari «di sinistra» schiacciata. Il V Congresso dei Soviet e l'approvazione della Costituzione della R.S.F.S.R.
Conclusa la pace e ottenuta una tregua, il potere sovietico intraprese un ampio lavoro di edificazione socialista. Il periodo trascorso dal novembre 1917 al febbraio del 1918 era stato chiamato da Lenin il periodo dell'«assalto delle guardie rosse contro il capitale». Il potere sovietico era riuscito, nella prima metà del 1918, a spezzare la potenza economica della borghesia, concentrare nelle proprie mani le leve di comando dell'economia nazionale (fabbriche, officine, banche, ferrovie, commercio estero, flotta mercantile, ecc.), spezzare l'apparato statale borghese e stroncare vittoriosamente i primi tentativi della controrivoluzione di rovesciare il potere sovietico.
Ma tutto ciò non bastava; era ben lontano dall'essere sufficiente. Per procedere in avanti, era necessario passare dalla distruzione del vecchio ordine di cose alla costruzione del nuovo. Ecco perché, nella primavera del 1918, comincia il passaggio, «dall'espropriazione degli espropriatori» alla nuova tappa dell'edificazione socialista, al consolidamento materiale delle vittorie ottenute, all'edificazione dell'economia nazionale sovietica. Lenin giudicava necessario approfittare al massimo della tregua per cominciare a gettare le fondamenta dell'economia socialista. I bolscevichi dovevano imparare a organizzare e a gestire la produzione in modo nuovo. Lenin scriveva che il partito bolscevico aveva saputo persuadere la Russia, aveva strappato per il popolo la Russia ai ricchi; ora, diceva Lenin, il partito bolscevico deve imparare a governare la Russia.
Lenin pensava che il compito principale, in quella tappa, era di registrare la produzione dell'economia nazionale e di controllare l'uso che si faceva dell'insieme della produzione. Nell'economia del paese, prevalevano gli elementi piccolo-borghesi. Milioni di piccoli proprietari nelle città e nelle campagne, costituivano un terreno propizio per lo sviluppo del capitalismo. Questi piccoli proprietari non riconoscevano né la disciplina del lavoro, né la disciplina dello Stato; essi non sì sottomettevano né alla registrazione, né al controllo. In quel difficile momento, era soprattutto pericoloso l'elemento piccolo-borghese speculatore e mercantile, del pari che i tentativi dei piccoli proprietari e dei commercianti di arricchirsi sulla miseria del popolo.
Il partito impegnò una lotta energica contro ogni rilassatezza nella produzione, contro l'indisciplina del lavoro nell'industria. Le nuove abitudini di lavoro erano lentamente assimilate dalle masse. Perciò, la lotta per la disciplina divenne, in quel periodo, il compito centrale.
Lenin affermò la necessità di sviluppare nell'industria l'emulazione socialista, di introdurre il salario a cottimo, di lottare contro il livellamento dei salari, di impiegare, altri metodi educativi e persuasivi, anche dei metodi coercitivi nei riguardi dei profittatori che volevano strappare quanto più era possibile allo Stato, contro coloro che si davano all'ozio e alla speculazione. Egli pensava che la nuova disciplina - la disciplina fondata su dei legami tra compagni, la disciplina sovietica - sarebbe stata elaborata da milioni di lavoratori nel corso della loro attività quotidiana. Egli scriveva che «quest'opera avrebbe occupato un'intera epoca storica». (Lenin, «Opere», vol. XXIII, pag. 44 ed. russa).
Sono tutti questi problemi dell'edificazione socialista, tutti questi problemi sulla creazione di nuovi rapporti di produzione, socialisti, che furono chiariti da Lenin nel suo poderoso scritto «I compiti immediati del potere sovietico».
Pure su queste questioni, i «comunisti di sinistra», facendo causa comune con i socialisti-rivoluzionari e i menscevichi, impegnarono la lotta contro Lenin, Bukharin, Ossinski e gli altri insorgevano contro l'introduzione della disciplina, contro la direzione unica nelle aziende, contro l'impiego degli specialisti nell'industria, contro l'applicazione del principio del rendimento economico.
Essi calunniavano Lenin, strillando che quella politica significava il ritorno all'ordine borghese. Nello stesso tempo, i «comunisti di sinistra» predicavano il punto di vista trotzkista secondo cui l'edificazione socialista e la vittoria del socialismo erano in Russia impossibili.
Tutte queste frasi «di sinistra» dei «comunisti di sinistra» non tendevano che a nascondere la difesa dei kulak, degli oziosi, degli speculatori, che tutti erano contro la disciplina e consideravano con ostilità la regolamentazione statale della vita economica, la registrazione e il controllo.
Regolate le questioni organizzative della nuova industria, della industria sovietica, il partito passò ai problemi riguardanti le campagne. Nelle campagne, in quel periodo, la lotta tra i contadini poveri e i kulak si svolgeva in pieno. I kulak si venivano rafforzando e si accaparravano le terre prese ai grandi proprietari fondiari; i contadini poveri avevano bisogno di aiuto. I kulak, lottando contro lo Stato proletario, si rifiutavano di vendergli il grano a prezzi stabiliti e volevano, a mezzo della carestia, obbligarlo a rinunciare all'applicazione dei provvedimenti socialisti. Il partito si assegnò come compito di schiacciare i kulak controrivoluzionari. Per organizzare i contadini poveri e per vincere i kulak che detenevano eccedenze di grano, si organizzò l'invio di operai nelle campagne.
 
Compagni operai! - scrisse Lenin - Ricordatevi che la rivoluzione si trova in una situazione critica. Ricordatevi che la rivoluzione potete salvarla voi soli e nessun altro. Decine di migliaia di operai avanzati, coscienti, devoti al socialismo, incapaci di lasciarsi corrompere con le mance o di commettere un furto, e capaci di creare una forza ferrea contro i kulak, gli speculatori, i ladri, i concussionari, i disorganizzatori, ecco gli uomini che ci occorrono. (Ibidem, pag. 25).
 
«La lotta per il grano è la lotta per il socialismo», dichiarò Lenin, ed è sotto quella parola d'ordine che furono organizzati gli operai da inviare nelle campagne. Furono emanati diversi decreti per stabilire la dittatura nel campo degli approvvigionamenti e attribuire agli organi del Commissariato degli Approvvigionamenti dei poteri straordinari per la compera del grano ai prezzi stabiliti.
Con decreto dell'11 giugno 1918 furono istituiti i comitati di contadini poveri , che ebbero una grande importanza nella lotta contro i kulak, nella ridistribuzione delle terre confiscate, nella ripartizione delle scorte, nel ritiro delle eccedenze in mano ai kulak, nell'approvvigionamento dei centri operai e dell'Esercito Rosso. Cinquanta milioni di ettari di terre dei kulak furono trasmesse nelle mani dei contadini poveri e medi. I kulak furono espropriati di una parte considerevole dei loro mezzi di produzione, a favore dei contadini poveri.
L'organizzazione dei comitati di contadini poveri segnò una nuova tappa nello sviluppo della rivoluzione socialista nelle campagne. Questi comitati furono i punti d'appoggio della dittatura del proletariato nelle campagne. È in gran parte per loro tramite che la popolazione contadina forniva dei contingenti all'Esercito Rosso.
L'invio di proletari nelle campagne e l'organizzazione dei comitati di contadini poveri consolidarono il potere sovietico nelle campagne ed ebbero un'immensa importanza politica per conquistare i contadini medi al potere sovietico.
Alla fine del 1918, i comitati dei contadini poveri, avendo adempiuto il loro compito, cessarono di esistere e si fusero con i Soviet rurali.
Il 4 luglio 1918, si aprì il V Congresso dei Soviet. I socialisti-rivoluzionari «di sinistra» vi impegnarono una lotta accanita contro Lenin e in difesa dei kulak. Essi esigevano che si cessasse la lotta contro i kulak e si rinunziasse a inviare nelle campagne reparti di operai per provvedere agli approvvigionamenti, Quando i socialisti-rivoluzionari «di sinistra» si furono convinti che la maggioranza del congresso si opponeva energicamente alla loro linea, scatenarono una rivolta a Mosca, occuparono la via Triokhsviatitelski, donde cominciarono a sparare cannonate contro il Kremlino. Però, in poche ore, l'avventura socialista-rivoluzionaria «di sinistra» fu schiacciata dai bolscevichi. Anche in diverse altre località del paese, le organizzazioni locali socialiste-rivoluzionarie «di sinistra» avevano tentato di rivoltarsi, ma i tentativi erano stati ovunque rapidamente sventati.
Come si è potuto recentemente stabilire al processo dell'organizzazione antisovietica nota col nome di «blocco dei destri e dei trotzkisti», la rivolta dei socialisti-rivoluzionari «di sinistra» era stata scatenata a conoscenza e con il consenso di Bukharin e di Trotzki e costituiva una parte del piano generale del complotto controrivoluzionario ordito dai bukhariniani, dai trotzkisti e dai socialisti-rivoluzionari «di sinistra» contro il potere sovietico.
Nello stesso tempo, il socialista-rivoluzionario «di sinistra» Bliumkin, più tardi agente di Trotzki, penetrava nei locali dell'ambasciata tedesca e, allo scopo di provocare la guerra con la Germania, assassinava l'ambasciatore Mirbach. Ma il governo sovietico poté scongiurare la guerra e far fallire la provocazione dei controrivoluzionari.
Al V Congresso dei Soviet fu approvata la Costituzione della R.S.F.S.R. (Repubblica Socialista Federativa Sovietica di Russia), la prima Costituzione sovietica.
 


Conclusioni riassuntive
In otto mesi, dal febbraio all'ottobre 1917, il partito bolscevico disimpegnò un compito difficilissimo: conquista la maggioranza nella classe operaia e nei Soviet; fa passare dalla parte della rivoluzione socialista milioni di contadini; strappa le masse all'influenza dei partiti piccolo-borghesi (socialisti-rivoluzionari, menscevichi, anarchici); smaschera, a poco a poco, la politica di questi partiti diretta contro gli interessi dei lavoratori. Il partito bolscevico sviluppa un'intensa attività politica al fronte e nelle retrovie, preparando le masse alla Rivoluzione Socialista d'Ottobre.
Momenti decisivi nella storia del partito in quel periodo sono: il ritorno di Lenin dall'emigrazione, le Tesi d'Aprile di Lenin, la Conferenza d'Aprile del partito e il VI Congresso del partito. Dalle decisioni del partito, la classe operaia attinge la forza e la certezza nella vittoria, in queste decisioni trova la risposta alle questioni più importanti della rivoluzione. La Conferenza d'Aprile orienta il partito verso la lotta per il passaggio dalla rivoluzione democratico-borghese alla rivoluzione socialista. Il VI Congresso orienta il partito verso l'insurrezione armata contro la borghesia e il suo Governo provvisorio.
I partiti conciliatori, socialista-rivoluzionario e menscevico, gli anarchici e gli altri partiti non comunisti completano la loro evoluzione: già prima della rivoluzione d'Ottobre diventano tutti partiti borghesi, difendono l'integrità e la conservazione del regime capitalistico. Il partito bolscevico, da solo, dirige la lotta delle masse per abbattere la borghesia e instaurare il potere dei Soviet.
Contemporaneamente, i bolscevichi sventano i tentativi compiuti, in seno al partito, dai capitolardi, Zinoviev, Kamenev, Rykov, Bukharin, Trotzki, Piatakov per far deviare il partito dal cammino della rivoluzione socialista.
Sotto la direzione del partito bolscevico, la classe operaia, alleata con i contadini poveri e sostenuta dai soldati e dai marinai, rovescia il potere della borghesia, instaura il potere dei Soviet, istituisce un nuovo tipo di Stato, lo Stato sovietico socialista, abolisce la grande proprietà terriera, dà la terra in godimento ai contadini, nazionalizza tutte le terre del paese, espropria i capitalisti, riesce a porre fine alla guerra, a concludere la pace, ottiene la tregua necessaria e crea, così, le condizioni richieste per una vasta edificazione socialista.
La Rivoluzione Socialista d'Ottobre ha battuto il capitalismo, ha tolto alla borghesia i mezzi di produzione e ha fatto delle fabbriche, delle officine, della terra, delle ferrovie, delle banche una proprietà di tutto il popolo, una proprietà sociale.
La Rivoluzione Socialista d'Ottobre ha instaurato la dittatura del proletariato e ha dato la direzione d'un immenso Stato alla classe operaia, di cui ha fatto la classe dominante.
La Rivoluzione Socialista d'Ottobre ha aperto una nuova èra nella storia del genere umano, l'èra delle rivoluzioni proletarie.

26 luglio 2017