Redatta da una Commissione del CC del PC(b) dell'U.R.S.S. diretta da Stalin.
STORIA DEL PARTITO COMUNISTA (BOLSCEVICO) DELL’U.R.S.S.
1917-2017 - 100° Anniversario della Grande Rivoluzione Socialista d'Ottobre

Apriamo la Celebrazione del Centenario della Grande Rivoluzione Socialista d'Ottobre iniziando a pubblicare l'opera “Storia del Partito Comunista (bolscevico) dell'U.R.S.S.” redatta da una commissione incaricata dal Comitato Centrale del PC(b) dell'U.R.S.S. presieduta da Stalin nel 1938. Noi marxisti-leninisti italiani dobbiamo studiare quest'opera esattamente come indicava Mao ai comunisti cinesi nel Rapporto del maggio 1941 “Riformiamo il nostro studio”: “Adottare, come principale materiale di studio del marxismo-leninismo, la Storia del Partito comunista (bolscevico) dell'U.R.S.S. (breve corso). Quest'opera è la migliore sintesi e il miglior bilancio del movimento comunista mondiale negli ultimi cento anni, un modello di unità tra teoria e pratica, il solo modello completo esistente al mondo. Vedendo come Lenin e Stalin hanno unito la verità universale del marxismo alla pratica concreta della rivolunione nell'Unione Sovietica e hanno su questa base sviluppato il marxismo, comprenderemo come dobbiamo lavorare in Cina.” E noi per proseguire la marcia sulla via dell'Ottobre verso l'Italia unita, rossa e socialista.
Nel testo da noi pubblicato le citazioni che nel volume appaiono di corpo più piccolo hanno un carattere graziato e non bastoncino.
 
Introduzione
Il Partito comunista (bolscevico) dell'U.R.S.S. ha percorso un lungo e glorioso cammino, dai primi piccoli circoli e gruppi marxisti, sorti in Russia nel decennio 1880-1890, al grande partito bolscevico che ora dirige il primo Stato socialista del mondo, lo Stato degli operai e dei contadini.
Il Partito comunista dell'U.R.S.S. è sorto – sulla base del movimento operaio della Russia di prima della rivoluzione – dai circoli e gruppi marxisti che si erano legati col movimento operaio a cui apportavano la coscienza socialista. Il Partito comunista dell'U.R.S.S. si è ispirato e s'ispira alla dottrina rivoluzionaria del marxismo-leninismo. I suoi capi hanno sviluppato ulteriormente, nelle condizioni nuove dell'epoca dell'imperialismo, delle guerre imperialistiche e delle rivoluzioni proletarie, la dottrina di Marx e di Engels; l'hanno portata a un livello più alto.
Il Partito comunista dell'U.R.S.S. si è sviluppato e rafforzato in una lotta di principio contro i partiti piccolo-borghesi nel seno del movimento operaio: contro i socialisti-rivoluzionari (e anteriormente contro i loro predecessori: i populisti), i menscevichi, gli anarchici, i nazionalisti borghesi di tutte le sfumature e, nell'interno del partito, contro le correnti mensceviche opportunistiche: i trotzkisti, i bukhariniani, i fautori delle deviazioni nazionalistiche e altri gruppi antileninisti.
Il Partito comunista dell'U.R.S.S. si è consolidato e temprato nella lotta rivoluzionaria contro tutti i nemici della classe operaia, contro tutti i nemici dei lavoratori, i grandi proprietari fondiari, i capitalisti i kulah, i sabotatori, le spie, contro tutti i mercenari degli Stati capitalistici che accerchiano l'Unione Sovietica.
La storia del Partito comunista dell'U.R.S.S. è la storia di tre rivoluzioni: rivoluzione democratico-borghese del 1905, rivoluzione democatico-borghese del febbraio 1917 e rivoluzione socialista dell'ottobre 1917.
La storia del Partito comunista dell'U.R.S.S. è la storia del rovesciamento dello zarismo, la storia del rovesciamento del potere dei proprietari fondiari e dei capitalisti, la storia della disfatta dell'intervento armato straniero durante la guerra civile, la storia della costruzione dello Stato sovietico e della società socialista nel nostro paese.
Lo studio della storia del Partito comunista dell'U.R.S.S. ci arricchisce di tutta l'esperienza della lotta per il socialismo, sostenuta dagli operai e dai contadini del nostro paese.
Lo studio della storia del Partito comunista dell'U.R.S.S., lo studio della storia della lotta sostenuta dal nostro partito contro tutti i nemici del marxismo-leninismo, contro tutti i nemici dei lavoratori, ci aiuta ad assimiliare il bolscevismo e rafforza la nostra vigilanza politica.
Lo studio dell'eroica storia del partito bolscevico ci dà per arma la conoscenza delle leggi che regolano lo sviluppo sociale e la lotta politica, ci dà per arma la conoscenza delle forze motrici della rivoluzione.
Lo studio della storia del Partito comunista dell'U.R.S.S. rafforza in noi la certezza che la grande causa del partito di Lenin-Stalin vincerà definitivamente, la certezza che il comunismo vincerà in tutto il mondo.
Questo libro espone sommariamente la storia del Partito comunista (bolscevico) dell'U.R.S.S.
 
I.
La lotta per la creazione del Partito operaio socialdemocratico di Russia
(1883-1901)

1. Abolizione della servitù della gleba e sviluppo del capitalismo industriale in Russia. Formazione del proletariato industriale moderno. I primi passi del movimento operaio.

 
La Russia degli zar era entrata nella via dello sviluppo capitalistico più tardi degli altri paesi: fino al decennio 1860-1870, pochissime erano in Russia le fabbriche e le officine; prevaleva l'economia feudale della nobiltà agraria. Mentre l'industria, sotto il regime della servitù della gleba, non poteva pienamente svilupparsi, nell'agricoltura il lavoro non libero, il lavoro servile, era assai poco produttivo. Il corso dello sviluppo economico spingeva, quindi, alla soppressione della servitù. Nel 1861, il governo zarista, indebolito dalla disfatta militare subita nella battaglia di Crimea e spaventato dalle rivolte dei contadini contro i proprietari fondiari, si vide costretto ad abolire la servitù.
Ma i contadini continuarono ad essere oppressi anche dopo l'abolizione della servitù. Al tempo dell'«emancipazione», i proprietari fondiari li avevano spogliati privandoli di una parte considerevole delle terre di cui godevano prima. Gli appezzamenti, che erano stati stralciati così dalle loro terre, furono chiamati dai contadini «otrezki» (tagli, dal verbo otrezat : tagliare). E come riscatto per la loro «emancipazione», ai contadini venne imposto di pagare circa due miliardi di rubli ai proprietari fondiari.
Dopo l'abolizione della servitù della gleba, i contadini si videro costretti a prendere in affitto la terra dei proprietari fondiari alle più onerose condizioni. Come canone d'affitto, oltre a un pagamento in moneta, il contadino era spesso obbligato a coltivare gratuitamente, con le proprie scorte vive e morte, una certa quota di terra del proprietario fondiario. È ciò che si chiamava «prestazioni in lavoro», «servigi gratuiti». Più sovente ancora, il contadino era costretto a pagare in natura il canone d'affitto della terra con la metà dell'intero raccolto. Ciò era chiamato lavoro «ispolu », ossia, lavoro a mezzadria.
Cosicché, la situazione era rimasta quasi la stessa come al tempo della servitù della gleba e differiva solo in quanto il contadino, ora personalmente libero, non poteva più essere venduto o comprato come una cosa qualunque.
I proprietari fondiari dissanguavano i contadini delle aziende arretrate spogliandoli con gli affitti, le multe, in tutti i modi. Sotto il giogo dei proprietari fondiari, la grande maggioranza dei contadini non poteva migliorare le proprie aziende. L'agricoltura della Russia di allora era quindi arretrata al massimo: causa sovente di cattive raccolte e carestie.
Le sopravvivenze dell'economia feudale, i canoni enormi e le aliquote da pagare per il riscatto della terra, non di rado superanti il reddito delle aziende, gettavano nella miseria i contadini, li portavano a sicura rovina, li obbligavano ad abbandonare i villaggi per cercare altrove lavoro. Così i contadini battevano alla porta delle fabbriche e delle officine e gli industriali trovavano a buon mercato le braccia di cui avevano bisogno.
Sulle spalle degli operai e dei contadini gravavano e ispravnki , e uriadniki , e gendarmi, e poliziotti, e guardie, un intero esercito in difesa dello zar, dei capitalisti, dei proprietari fondiari contro i lavoratori, contro gli sfruttati. Le pene corporali restarono in vigore fino al 1903. Nonostante l'abolizione della servitù della gleba, i contadini erano fustigati per un nonnulla, per il mancato pagamento delle imposte. Polizia e cosacchi bastonavano gli operai, soprattutto durante gli scioperi, quando la massa abbandonava il lavoro, non potendo più oltre sopportare le angherie degli industriali. Nella Russia dello zar, gli operai e i contadini non godevano di alcun diritto politico. L'autocrazia zarista era il peggiore nemico del popolo.
Una prigione di popoli, ecco ciò che era la Russia zarista. Prive di ogni diritto, le numerose nazionalità non russe subivano senza tregua ogni sorta di umiliazioni e di sopraffazioni. Il governo dello zar inculcava nei russi l'idea che le popolazioni native delle regioni nazionali fossero razze inferiori, le chiamava ufficialmente «allogene», rinfocolava il disprezzo e l'odio nei loro riguardi, fomentava scientemente gli odii nazionali, aizzava i popoli l'uno contro l'altro, scatenava pogrom contro gli ebrei, massacri fra tartari e armeni in Transcaucasia.
Nelle regioni nazionali, tutte, o quasi, le cariche statali erano affidate a funzionari russi. Tutti gli affari, nelle istituzioni come davanti ai tribunali, erano trattati in lingua russa. Era vietata la pubblicazione di giornali e di libri nelle lingue nazionali; nelle scuole l'insegnamento nella lingua materna era proibito. Il governo zarista si sforzava di soffocare ogni manifestazione delle culture nazionali e «russificava» per forza le altre nazionalità. Lo zarismo era il carnefice e l'aguzzino dei popoli non russi.
Dopo l'abolizione della servitù della gleba, il capitalismo industriale in Russia si venne sviluppando abbastanza rapidamente, nonostante le sopravvivenze della servitù della gleba che ancora ne ostacolavano il cammino. In 25 anni, dal 1865 al 1890, soltanto gli operai occupati nelle grandi fabbriche e officine e nelle ferrovie erano saliti dal numero di 706 mila a 1 milione e 433 mila, ossia erano più che raddoppiati.
Ancora più celermente si sviluppò la grande industria capitalistica nel decennio 1890-1900. Verso la fine del secolo XIX, gli operai occupati nelle grandi fabbriche e officine, nell'industria mineraria e nelle ferrovie, soltanto in 50 governatorati della Russia europea, salirono a 2 milioni 207 mila, e, in tutta la Russia, a 2 milioni e 792 mila.
Proletariato industriale moderno, fondamentalmente distinto dagli operai delle fabbriche dell'epoca della servitù della gleba e dagli operai della piccola industria, artigiana o simile, tanto per la sua concentrazione nelle grandi aziende capitalistiche, quanto per la sua combattività, rivoluzionaria.
L'ascesa industriale in quel decennio era soprattutto dovuta all'intenso sviluppo delle ferrovie. Dal 1890 al 1900, furono costruite oltre 21 mila verste [una versta = km. 1,067] di nuove ferrovie. Alle ferrovie occorreva una grande quantità di metallo (per le rotaie, le locomotive, le vetture); esse consumavano una quantità sempre maggiore di combustibili, carbon fossile e nafta. Di qui lo sviluppo dell'industria dei combustibili e dell'industria metallurgica.
Come in tutti i paesi capitalistici, nella Russia di prima della rivoluzione, le annate di sviluppo industriale si alternavano con annate di crisi industriale e di stagnazione che colpivano duramente la classe operaia, gettando centinaia di migliaia di operai nella disoccupazione e nella miseria.
Benché lo sviluppo del capitalismo, dopo l'abolizione della servitù della gleba, fosse in Russia abbastanza rapido, l'evoluzione economica del paese era in notevole ritardo su quella degli altri paesi capitalistici. La stragrande maggioranza della popolazione era ancora dedita all'agricoltura. Nel suo celebre libro «Lo sviluppo del capitalismo in Russia», Lenin riportò molti dati significativi tratti dal censimento generale del 1897. E risultò che nell'agricoltura erano occupati quasi cinque sesti della popolazione, mentre appena un sesto all'incirca era occupato nella grande e piccola industria, nel commercio, nelle ferrovie, nei trasporti acquei, nell'edilizia, nell'industria forestale, e così via.
Dal che deriva che la Russia, nonostante lo sviluppo del capitalismo, era un paese agrario, economicamente arretrato, un paese di piccola borghesia, cioè un paese in cui prevaleva ancora la piccola proprietà, la piccola azienda contadina individuale poco produttiva.
Il capitalismo, però, non si sviluppava soltanto nelle città, ma anche nelle campagne. La classe dei contadini, la classe più numerosa nella Russia d'allora, si disgregava, si differenziava. Fra i contadini più agiati veniva sorgendo uno strato superiore, lo strato dei kulak, la borghesia rurale, mentre, d'altra parte, numerosi contadini cadevano in miseria, e si vedeva ingrossare nelle campagne la massa dei contadini poveri, dei proletari rurali e dei semiproletari. In quanto ai contadini medi, il loro numero diminuiva di anno in anno.
Nel 1903, la Russia contadina era costituita da circa 10 milioni di famiglie. Nel suo opuscolo «Ai contadini poveri», Lenin calcolò che non meno di 3 milioni e mezzo di queste famiglie contadine non possedevano neppure un cavallo . I contadini poveri seminavano, in generale, soltanto un piccolo appezzamento di terra e affittavano il resto ai kulak, recandosi poi in cerca di lavoro altrove per guadagnarsi un po' di pane. Date le loro condizioni, i contadini poveri erano i più vicini al proletariato: Lenin li chiamò proletari rurali o semiproletari.
D'altra parte, tra questi 10 milioni di famiglie contadine, un milione e mezzo di contadini ricchi, di kulak, si erano accaparrata la metà di tutte le terre contadine arabili. Questa borghesia rurale si arricchiva opprimendo i contadini poveri e medi, sfruttando il lavoro dei salariati agricoli e dei giornalieri e si trasformava così in capitalisti agrari.
Nel decennio 1870-1880, e soprattutto in quello successivo, la classe operaia di Russia si viene destando e si impegna la lotta contro i capitalisti. Le condizioni degli operai erano estremamente penose. Dal 1880 al 1890, la giornata lavorativa negli stabilimenti era di almeno 12 ore e mezzo e nell'industria tessile raggiungeva le 14-15 ore. Era largamente sfruttato il lavoro delle donne e dei fanciulli. I fanciulli erano sottoposti allo stesso orario degli adulti, pur percependo, come le donne, un salario notevolmente inferiore. I salari erano irrisori. La maggior parte degli operai guadagnava mensilmente sette od otto rubli. Gli operai meglio retribuiti delle officine metallurgiche e delle fonderie non guadagnavano mensilmente più di 35 rubli. Nulla era fatto per garantire la sicurezza sul lavoro: di qui un gran numero di infortuni, sovente mortali. Nessuna assicurazione sociale; l'assistenza medica solo a pagamento. Pessime le condizioni d'abitazione. Nei bugigattoli, nelle baracche, si ammucchiavano dieci, dodici persone. Di frequente, gli industriali truffavano gli operai, obbligandoli a comprare nei loro spacci dei prodotti che facevano pagare tre volte più caro; inoltre, li spogliavano a forza di multe.
Gli operai cominciarono a mettersi d'accordo tra di loro e ad esigere collettivamente che le loro condizioni insopportabili fossero migliorate. Si abbandonava il lavoro. I primi scioperi del 1870-1890 scoppiavano di solito a causa delle multe esorbitanti, delle ruberie e delle frodi nel pagamento dei salari o a causa delle riduzioni delle tariffe.
Esasperati, gli operai, durante questi primi scioperi, spezzavano talvolta le macchine, rompevano i vetri degli stabilimenti, devastavano gli spacci padronali e gli uffici.
Ma gli operai sviluppati cominciavano a comprendere che per lottare con successo contro i capitalisti, era necessario organizzarsi. Nacquero così le prime associazioni operaie.
Nel 1875, si costituì, a Odessa, l'«Unione degli operai della Russia meridionale». Questa prima organizzazione operaia, dopo aver funzionato per otto o nove mesi, fu distrutta dal governo dello zar.
Nel 1878, fu fondata a Pietroburgo l'«Unione settentrionale degli operai russi», i cui capi erano il falegname Khalturin e l'aggiustatore Obnorski. Il suo programma diceva che, per i suoi obiettivi, l'Unione si sentiva affine ai partiti socialdemocratici operai occidentali. Suo scopo finale era la rivoluzione socialista, «il rovesciamento del regime politico ed economico dello Stato, regime estremamente ingiusto». Obnorski, uno degli organizzatori dell'Unione, era vissuto qualche tempo all'estero, dove aveva avuto modo di conoscere l'attività dei partiti socialdemocratici marxisti e della I Internazionale, diretta da Marx. Questo fatto pose la sua impronta sul programma dell'«Unione settentrionale degli operai russi». Come compito immediato, l'Unione fissava la conquista delle libertà politiche e dei diritti politici per il popolo (libertà di parola, di stampa, di riunione, ecc.). Tra le rivendicazioni immediate, era compresa anche la riduzione della giornata lavorativa.
I membri dell'Unione erano circa 200 ed altrettanto i simpatizzanti. L'Unione aveva incominciato a partecipare agli scioperi e a dirigerli, ma anche essa fu distrutta dal governo dello zar.
Il movimento operaio continuava però a svilupparsi, allargandosi a sempre nuove regioni. Nel decennio 1880-1890, gli scioperi furono numerosi, e in cinque anni (1881-1886) si ebbero oltre 48 scioperi, cui parteciparono 80 mila operai.
Un'importanza particolare per la storia del movimento rivoluzionario ebbe soprattutto il grande sciopero scoppiato nel 1885, nella fabbrica Morozov, a Orekhovo-Zuevo.
Nello stabilimento lavoravano circa 8 mila operai. Le loro condizioni peggioravano continuamente: dal 1882 al 1884 i salari avevano subìto cinque riduzioni; nel 1884, d'un sol colpo, erano stati ridotti di un quarto. Per giunta, l'industriale Morozov caricava di multe gli operai. Al processo che seguì lo sciopero, fu stabilito che, su ogni rublo di guadagno, venivano sottratti all'operaio, a profitto dell'industriale, da 30 a 50 copechi, sotto forma di multa. Esasperati da questo furto, nel gennaio del 1885 gli operai proclamarono lo sciopero preventivamente preparato. Lo dirigeva Pietro Moisseienko, un operaio sviluppato, ex membro dell'«Unione settentrionale degli operai russi» e ricco già di esperienza rivoluzionaria. Alla vigilia del movimento, Moisseienko, insieme con altri operai tessili, coi più coscienti, aveva elaborato un elenco di rivendicazioni approvato in seguito in una riunione segreta degli operai. Gli operai esigevano soprattutto l'abolizione delle multe esorbitanti.
Lo sciopero fu violentemente represso: oltre 600 operai furono arrestati e alcune decine processati.
Scioperi simili scoppiarono nel 1885 negli stabilimenti di Ivanovo-Voznessensk.
L'anno seguente, il governo dello zar, spaventato dai progressi del movimento operaio, si vide costretto a promulgare una legge sulle multe, in virtù della quale il loro importo non doveva essere intascato dai padroni, ma servire ai bisogni degli operai stessi.
L'esperienza dello sciopero Morozov e degli altri scioperi insegnò agli operai che con una lotta organizzata potevano ottenere molte cose. Nel movimento operaio cominciarono a emergere dei dirigenti e degli organizzatori capaci che difendevano con fermezza gli interessi della classe operaia.
Contemporaneamente, favorite dall'ascesa del movimento operaio di Russia e sotto l'influenza di quello dell'Europa occidentale, cominciano a crearsi in Russia le prime organizzazioni marxiste.
 

2. Populismo e marxismo in Russia. Plekhanov e il suo gruppo dell'«Emancipazione del lavoro». Lotta di Plekhanov contro il populismo. Diffusione del marxismo in Russia.
Prima della fondazione dei gruppi marxisti, l'attività rivoluzionaria era svolta in Russia dai populisti, avversari del marxismo.
Il primo gruppo marxista russo nacque nel 1883. Era il gruppo dell'«Emancipazione del lavoro», organizzato da G.V. Plekhanov all'estero, a Ginevra, dove egli era stato costretto a rifugiarsi in seguito alle persecuzioni del governo dello zar per la sua attività rivoluzionaria.
Plekhanov era stato dapprima populista. Avendo poi studiato nell'emigrazione il marxismo, abbandonò il populismo e divenne un eminente propagandista del marxismo.
Il gruppo dell'«Emancipazione del lavoro» svolse una grande attività per diffondere il marxismo in Russia. Tradusse in lingua russa varie opere di Marx e di Engels: «Il Manifesto del Partito comunista», «Lavoro salariato e capitale», «Il passaggio del socialismo dall'utopia alla scienza» ed altre, e le stampò all'estero per diffonderle clandestinamente in Russia. G.V. Plekhanov, Zassulic, Axelrod e altri aderenti a quel gruppo scrissero pure parecchi libri nei quali esponevano la dottrina di Marx e di Engels, le idee del socialismo scientifico .
All'opposto dei socialisti utopisti, Marx ed Engels, i grandi maestri del proletariato, hanno spiegato per primi che il socialismo non era una fantasticheria di sognatori (utopisti), ma il risultato necessario dello sviluppo della società capitalistica contemporanea. Essi hanno mostrato che il regime capitalistico sarebbe caduto allo stesso modo che era caduto il regime della servitù della gleba, e che il capitalismo, creando il proletariato, creava esso stesso il suo proprio becchino. Essi hanno dimostrato che soltanto la lotta di classe del proletariato, soltanto la vittoria del proletariato sulla borghesia avrebbe liberato l'umanità dal capitalismo, dallo sfruttamento.
Marx ed Engels hanno insegnato al proletariato ad acquistare coscienza della propria forza, dei propri interessi di classe e ad unirsi per una lotta decisiva contro la borghesia. Marx ed Engels hanno scoperto le leggi secondo le quali la società capitalistica si sviluppa ed hanno dimostrato scientificamente che lo sviluppo della società capitalistica e la lotta di classe nel seno di questa società devono inevitabilmente portare alla caduta del capitalismo, alla vittoria del proletariato, alla dittatura del proletariato .
Marx ed Engels hanno insegnato che non è possibile liberarsi dal dominio del capitale e trasformare con mezzi pacifici la proprietà capitalistica in proprietà sociale; che la classe operaia può giungervi solo con la violenza rivoluzionaria contro la borghesia, con la rivoluzione proletaria , instaurando il proprio dominio politico, la dittatura del proletariato, la quale deve schiacciare la resistenza degli sfruttatori e creare una nuova società, la società comunista senza classi.
Marx ed Engels hanno insegnato che il proletariato industriale è la classe più rivoluzionaria e, quindi, la classe d'avanguardia della società capitalistica, e che una sola classe come il proletariato può raccogliere intorno a sé tutte le forze malcontente del capitalismo e condurle all'assalto. Ma per vincere il vecchio mondo e creare una società nuova, senza classi, il proletariato deve avere il proprio partito operaio, che Marx ed Engels hanno chiamato partito comunista.
Diffondere le idee di Marx e di Engels: ecco ciò che intraprese il primo gruppo marxista russo, il gruppo dell'«Emancipazione del lavoro» di Plekhanov.
Quando il gruppo dell'«Emancipazione del lavoro» impegnò la lotta per il marxismo nella stampa russa all'estero, il movimento socialdemocratico non esisteva ancora in Russia. Era indispensabile innanzi tutto aprire la via a questo movimento sull'arena teorica e ideologica. E il più grosso ostacolo ideologico alla diffusione del marxismo socialdemocratico era, in quel tempo, costituito dalle concezioni populistiche, prevalenti allora tra gli operai d'avanguardia e gli intellettuali di aspirazioni rivoluzionarie.
Con lo sviluppo del capitalismo in Russia, la classe operaia diventava una potente forza d'avanguardia, capace di condurre una lotta rivoluzionaria organizzata. Ma la funzione d'avanguardia della classe operaia non era compresa dai populisti. Essi a torto ritenevano che la principale forza rivoluzionaria fosse rappresentata non dalla classe operaia, ma dai contadini e che il dominio dello zar e dei proprietari fondiari potesse essere rovesciato soltanto dalle «rivolte» contadine. I populisti non conoscevano la classe operaia e non comprendevano che, senza l'alleanza con la classe operaia e senza la sua direzione, i contadini non avrebbero potuto vincere lo zarismo e i proprietari fondiari. Essi non capivano che la classe operaia era la classe più rivoluzionaria e più avanzata della società.
I populisti avevano dapprima tentato di condurre i contadini alla lotta contro il governo dello zar. A tal fine i giovani intellettuali rivoluzionari, in abito contadino, erano andati nelle campagne, «al popolo», come si diceva allora. Di qui, il nome di «populisti». Ma essi non furono seguiti dai contadini, che, del resto, essi non conoscevano né comprendevano bene. Dopo che la polizia li ebbe in maggioranza arrestati, i populisti decisero di continuare la lotta contro l'autocrazia zarista con le loro sole forze, senza il popolo, ciò che condusse a errori ancora più gravi.
La società segreta populista Narodnaia Volia [La volontà del popolo], passò alla preparazione di attentati contro lo zar, e il 1° marzo 1881, dei suoi aderenti riuscivano, con una bomba, a uccidere lo zar Alessandro II. Ma il popolo non ne ricavò alcun vantaggio. Sopprimendo alcuni uomini, non era possibile rovesciare l'autocrazia zarista, né annientare la classe dei proprietari fondiari. Il posto dello zar ucciso fu preso da un altro: Alessandro III, durante il cui regno l'esistenza degli operai e dei contadini divenne ancora più penosa.
La via prescelta dai populisti per lottare contro lo zarismo, quella degli attentati individuali, del terrorismo individuale, era falsa e nociva per la rivoluzione. La politica del terrorismo individuale si ispirava alla falsa teoria populistica degli «eroi» attivi e della «folla» passiva, che attende dagli «eroi» le grandi gesta. Secondo quella falsa teoria, soltanto le individualità eccezionali fanno la storia, mentre la massa, il popolo, la classe, la «folla», come si esprimevano, con una smorfia di disprezzo, gli scrittori populisti, è incapace di azioni coscienti, organizzate, ma può solo seguire ciecamente gli «eroi». Ecco perché i populisti avevano rinunciato ad ogni attività rivoluzionaria di massa tra i contadini e la classe operaia ed erano passati al terrorismo individuale. E avvenne così che essi indussero Stefano Khalturin, uno dei più grandi rivoluzionari del tempo, ad abbandonare il lavoro organizzativo d'una unione operaia rivoluzionaria per consacrarsi interamente al terrorismo.
I populisti distoglievano i lavoratori dalla lotta contro la classe degli oppressori, uccidendo senza alcun vantaggio per la rivoluzione alcuni rappresentanti isolati di questa classe. E in tal modo ostacolavano lo sviluppo dell'iniziativa rivoluzionaria e dell'attività della classe operaia e dei contadini.
I populisti impedivano alla classe operaia di comprendere la sua funzione dirigente nella rivoluzione, ostacolavano la creazione di un partito autonomo della classe operaia.
Sebbene l'organizzazione segreta dei populisti fosse stata distrutta dal governo dello zar, le concezioni populistiche sopravvissero ancora a lungo tra gli intellettuali di aspirazioni rivoluzionarie. I populisti superstiti resistevano ostinatamente alla diffusione del marxismo in Russia e impedivano alla classe operaia di organizzarsi.
Ecco perché il marxismo in Russia poté svilupparsi e rafforzarsi solo lottando contro i populisti.
Fu il gruppo dell'«Emancipazione del lavoro» che impegnò la lotta contro le concezioni false dei populisti e dimostrò quale danno le loro teorie e i loro metodi di lotta recassero al movimento operaio.
Nei suoi articoli contro i populisti, Plekhanov dimostrò che le loro concezioni non avevano nulla di comune col socialismo scientifico, nonostante il titolo di socialisti che essi si davano.
Plekhanov fu il primo a criticare marxisticamente le concezioni false dei populisti. Battendole in breccia, Plekhanov, nello stesso tempo, sviluppò una brillante difesa delle concezioni marxiste.
Quali erano questi errori principali dei populisti, a cui Plekhanov assestò un rude colpo?
Primo. I populisti affermavano che il capitalismo era in Russia un fenomeno «casuale», che non vi si sarebbe sviluppato e che neppure il proletariato, quindi, vi si sarebbe rafforzato e sviluppato.
Secondo. I populisti non consideravano la classe operaia come la classe all'avanguardia della rivoluzione. Essi sognavano di giungere al socialismo senza il proletariato. Essi consideravano i contadini, diretti dagli intellettuali, come la principale forza della rivoluzione e la comunità contadina come l'embrione e la base del socialismo.
Terzo. I populisti avevano delle concezioni false e nocive sul corso della storia del genere umano. Essi non conoscevano, essi non comprendevano le leggi dello sviluppo economico e politico della società e, da questo punto di vista, erano del tutto arretrati. Secondo loro, non erano né le classi, né la lotta di classe che facevano la storia, ma soltanto delle individualità eminenti, degli «eroi», che le masse, la «folla», il popolo, le classi seguivano ciecamente.
Lottando contro i populisti e smascherandoli, Plekhanov scrisse una serie di opere marxiste, sulle quali i marxisti in Russia studiarono e si educarono. Le opere di Plekhanov. come «Il socialismo e la lotta politica», «Le nostre divergenze», «Studio sullo sviluppo della concezione monistica della storia», prepararono il terreno per la vittoria del marxismo in Russia.
Plekhanov vi espose le questioni fondamentali del marxismo. Particolarmente importante fu il suo «Studio sullo sviluppo della concezione monistica della storia», edito nel 1895. Lenin disse che su quel libro «si educò un'intera generazione di marxisti russi». (Lenin, «Opere complete», vol. XIV, pag. 347 ed. russa).
Nei suoi scritti contro i populisti, Plekhanov dimostrò che era assurdo porre il quesito come essi facevano: deve o non deve il capitalismo svilupparsi in Russia? La verità è questa, diceva, sulla base dei fatti, Plekhanov: la Russia è già entrata nella via dello sviluppo capitalistico e nessuna forza può farla deviare.
I rivoluzionari non potevano proporsi di frenare lo sviluppo del capitalismo in Russia - e in nessun modo, del resto, avrebbero potuto farlo. Dovevano invece basarsi sulla imponente forza rivoluzionaria generata dallo sviluppo del capitalismo: sulla classe operaia; dovevano svilupparne la coscienza di classe; dovevano organizzarla ed aiutarla a costituire il proprio partito, il partito operaio.
Plekhanov confutò un'altra concezione essenziale e non meno falsa dei populisti: la negazione della funzione d'avanguardia del proletariato nella lotta rivoluzionaria. I populisti consideravano il sorgere del proletariato in Russia come una specie di «calamità storica»; parlavano nei loro scritti della «piaga della proletarizzazione». Plekhanov, difendendo la dottrina marxista e dimostrando che essa era applicabile in pieno alla Russia, dimostrava che, nonostante la prevalenza numerica dei contadini e la relativa inferiorità numerica del proletariato, proprio nel proletariato, nel suo sviluppo, i rivoluzionari dovevano riporre le loro migliori speranze.
Perché proprio nel proletariato?
Perché - rispondeva - il proletariato, nonostante la sua inferiorità numerica attuale, è la classe lavoratrice legata alla forma più progredita dell'economia - alla grande produzione, e perché ha, dato questo fatto, un grande avvenire.
Perché il proletariato, come classe, cresce di anno in anno, si sviluppa politicamente, può facilmente organizzarsi per le condizioni stesse del lavoro nella grande industria e perché è eminentemente rivoluzionario, in virtù della sua stessa condizione proletaria, nulla avendo da perdere nella rivoluzione, fuorché le proprie catene.
Ben diversa è la situazione dei contadini.
I contadini [si trattava allora dei contadini individuali], nonostante la loro grande importanza numerica, costituiscono la classe lavoratrice che è legata alla forma più arretrata dell'economia, alla piccola produzione, e perciò, non ha né può avere, un grande avvenire.
I contadini, non soltanto non crescono, come classe, ma al contrario, si differenziano , d'anno in anno, in borghesia (kulak) e in contadini poveri (proletari, semiproletari). Inoltre, data la loro dispersione, i contadini più difficilmente si prestano all'organizzazione e, in quanto piccoli proprietari, partecipano meno volentieri del proletariato al movimento rivoluzionario.
I populisti affermavano che in Russia si sarebbe giunti al socialismo non già attraverso la dittatura del proletariato, bensì attraverso la comunità contadina, che essi consideravano come l'embrione e la base del socialismo. Ma questa comunità non era, non poteva essere né la base, né l'embrione del socialismo, poiché vi dominavano i kulak, veri vampiri che dissanguavano i contadini poveri, gli operai agricoli e i piccoli contadini. La proprietà comune della terra, che esisteva ufficialmente, e la ridistribuzione della terra a cui si procedeva ogni tanto, proporzionalmente ai membri delle famiglie, non mutavano affatto la situazione. Della terra usufruivano soltanto quei membri della comunità che possedevano scorte vive e morte e sementi, cioè soltanto i contadini agiati e i kulak. I contadini che non possedevano neppure un cavallo, i contadini poveri e, in generale, i piccoli contadini, si vedevano costretti a cedere la loro terra ai kulak e ad offrire le loro braccia come giornalieri. La comunità contadina, in realtà, non serviva che a mascherare le usurpazioni dei kulak ed era un comodo mezzo nelle mani dello zarismo per riscuotere le tasse dai contadini, secondo il principio della responsabilità collettiva. Ecco perché lo zarismo non toccava la comunità contadina. Era dunque ridicolo considerarla come l'embrione o la base del socialismo.
Plekhanov confutò anche la terza concezione essenziale e non meno falsa dei populisti. I populisti attribuivano ma funzione di prim'ordine, nello sviluppo sociale, agli «eroi», alle individualità eccezionali ed alle loro idee, e ritenevano invece che le masse, la «folla», il popolo, le classi avessero solo una funzione insignificante. Plekhanov accusò i populisti di idealismo , dimostrando che la verità non era dalla parte dell'idealismo, ma dalla parte del materialismo di Marx ed Engels.
Plekhanov chiarì e sviluppò la concezione del materiaIismo marxista. Ispirandosi ai principi di questa dottrina, egli dimostrò che lo sviluppo della società è determinato, in ultima analisi, non già dai desideri e dalle idee delle individualità eccezionali, bensì dallo sviluppo delle condizioni materiali di esistenza della società, dai mutamenti che avvengono nei modi di produzione dei beni materiali necessari all'esistenza della società, dalle modificazioni delle relazioni fra le classi nel campo della produzione dei beni materiali, e infine dalla lotta delle classi per la loro funzione e il loro posto rispettivi nel campo della produzione e della distribuzione dei beni materiati. Non sono le idee, dunque, che determinano la situazione economica e sociale degli uomini, ma è la situazione economica e sociale degli uomini che determina le loro idee. Le individualità eccezionali possono diventare delle nullità, se le loro idee e aspirazioni contrastano con lo sviluppo economico della società, con le necessità della classe d'avanguardia. Uomini eccezionali possono, invece, veramente eccellere se le loro idee e le loro aspirazioni esprimono in modo esatto le necessità dello sviluppo economico della società, le necessità della classe d'avanguardia.
Alle affermazioni dei populisti che la massa è una folla e che soltanto gli eroi fanno la storia e trasformano la folla in popolo, i marxisti rispondevano: no, non sono gli eroi che fanno la storia, ma è la storia che fa gli eroi, e quindi non sono gli eroi che creano il popolo, ma è il popolo che crea gli eroi e fa progredire la storia. Gli eroi, le individualità eccezionali possono avere una grande parte nella vita sociale, solo nella misura in cui sanno comprendere in modo giusto le condizioni di sviluppo della società, e comprendere come migliorarle. Gli eroi, le individualità eccezionali possono venirsi a trovare nella situazione ridicola di uomini falliti ed inutili, se non sanno comprendere giustamente le condizioni di sviluppo della società e si scagliano contro le necessità storiche della società, pretendendo di essere i «facitori» della storia.
È a questa categoria di eroi falliti che appartenevano precisamente i populisti.
Gli scritti, la lotta di Plekhanov, compromisero seriamente l'influenza dei populisti tra gli intellettuali rivoluzionari. Ma la disfatta ideologica del populismo era ben lungi dall'essere completa. Questo compito - dare il colpo di grazia al populismo come nemico del marxismo – era riserbato a Lenin.
La maggioranza dei populisti, poco dopo la disfatta del partito «La Volontà del Popolo», rinunciò alla lotta rivoluzionaria contro il governo dello zar e si mise a predicare la riconciliazione, l'accordo col governo. I populisti, dal 1880 al 1900, diventarono i portavoce degli interessi dei kulak.
Il gruppo dell'«Emancipazione del lavoro» elaborò due progetti di programma per i socialdemocratici russi (il primo nel 1884 e il secondo nel 1887). Un passo molto importante era fatto verso la fondazione di un partito socialdemocratico marxista in Russia.
Ma il gruppo dell'«Emancipazione del lavoro» commise anche gravi errori. Il suo primo progetto di programma racchiudeva ancora residui di concezioni populistiche, ammetteva la tattica del terrorismo individuale.
Plekhanov inoltre non si rendeva conto che, nel corso della rivoluzione, il proletariato poteva e doveva mettersi alla testa dei contadini, e che soltanto avendo come alleato i contadini poteva vincere lo zarismo. Plekhanov considerava inoltre la borghesia liberale come una forza capace di dare un appoggio, sia pure precario, alla rivoluzione. I contadini, invece, in alcuni suoi scritti, erano completamente dimenticati, come quando, ad esempio, scriveva:
 
Oltre la borghesia e il proletariato, noi non vediamo altre forze sociali sulle quali possano appoggiarsi nel nostro paese le intese d'opposizione o rivoluzionarie. (Plekhanov, «Opere», vol. III, pag. 119 ed. russa).
 
Queste idee false di Plekhanov racchiudevano l'embrione delle sue future concezioni mensceviche.
Tanto il gruppo dell'«Emancipazione del lavoro» quanto i circoli marxisti di quel tempo, in pratica, non erano ancora collegati col movimento operaio. Era ancora il periodo in cui in Russia la teoria marxista, le idee marxiste, i princìpi programmatici della socialdemocrazia si limitavano ad apparire ed affermarsi. Nel decennio 1884- 1894, la socialdemocrazia esisteva soltanto nella forma di piccoli gruppi e di circoli poco o nulla collegati col movimento operaio di massa. Simile al bimbo non ancora nato, ma che già si sviluppa nel seno materno, la socialdemocrazia, come scriveva Lenin, attraversava «un processo di sviluppo uterino ».
Il gruppo dell'«Emancipazione del lavoro» - indicava Lenin - «aveva fondato solo teoricamente la socialdemocrazia e fatto solo il primo passo verso il movimento operaio».
Spettò a Lenin di risolvere tanto il problema della fusione del marxismo col movimento operaio in Russia quanto quello della correzione degli errori commessi dal gruppo dell'«Emancipazione del lavoro».
 

3. L'inizio dell'attività rivoluzionaria di Lenin. L'«Unione di lotta per l'emancipazione della classe operaia» a Pietroburgo.
Vladimiro Jlic Ulianov (Lenin), fondatore del bolscevismo, nacque a Simbirsk (oggi Ulianovsk) nel 1870. Nel 1887, Lenin entrò all'Università di Kazan, ma, arrestato, ne fu presto espulso per la sua partecipazione al movimento rivoluzionario studentesco. A Kazan, Lenin aveva aderito a un circolo marxista organizzato da Fedosseiev. Trasferitosi a Samara, Lenin raggruppò rapidamente attorno a sè il primo circolo marxista di quella città. Fin da allora, egli sorprendeva tutti per la sua conoscenza del marxismo.
Sul finire del 1893, Lenin va ad abitare a Pietroburgo. Già i suoi primi discorsi producono una grande impressione sui soci dei circoli marxisti pietroburghesi. Le sue conoscenze profondissime, la sua capacità nell'applicare il marxismo alla situazione economica e politica della Russia contemporanea, la sua fede ardente e incrollabile nella vittoria della causa operaia, le sue grandi attitudini organizzative: tutto ciò fece di Lenin il dirigente riconosciuto dei marxisti pietroburghesi.
Lenin era molto amato dagli operai d'avanguardia che frequentavano i circoli dove egli insegnava.
«Le nostre lezioni - ricorda l'operaio Babusckin a proposito delle lezioni svolte da Lenin nei circoli operai – destavano un vivo interesse; noi tutti ne eravamo molto soddisfatti e ammiravamo sempre l'ingegno del nostro conferenziere».
Nel 1895, Lenin raggruppò a Pietroburgo tutti i circoli marxisti operai (ve n'era già una ventina) nell'«Unione di lotta per l'emancipazione della classe operaia». Così egli preparava la costituzione di un partito operaio rivoluzionario marxista.
Lenin assegnò all'«Unione di lotta» il compito di collegarsi più strettamente con il movimento operaio di massa e di assumerne la direzione politica. Dalla propaganda del marxismo tra pochi operai di avanguardia, riuniti in circoli di propaganda, Lenin propose di passare all'agitazione politica sulle questioni di, attualità tra le grandi masse della classe operaia. La svolta così effettuata verso l'agitazione tra le masse fu della massima importanza per lo sviluppo del movimento operaio in Russia.
Dopo il 1890, nell'industria s'iniziò un periodo di ascesa. Il numero degli operai aumentò; il movimento operaio si sviluppò. Dal 1895 al 1899 scioperarono, secondo dati non completi, non meno di 221 mila operai. Il movimento operaio diveniva una forza considerevole nella vita politica del paese. La vita stessa veniva così confermando le idee sostenute dai marxisti, nella lotta contro i populisti, circa la funzione d'avanguardia della classe operaia nel movimento rivoluzionario.
Diretta da Lenin, l'«Unione di lotta per l'emancipazione della classe operaia» collegava la lotta degli operai per le rivendicazioni economiche - miglioramento delle condizioni di lavoro, diminuzione della giornata lavorativa, aumento di salari - con la lotta politica contro lo zarismo. L'«Unione di lotta» educava politicamente gli operai.
Diretta da Lenin, l'«Unione di lotta per l'emancipazione della classe operaia», - di Pietroburgo, - fu la prima a realizzare in Russia la fusione del socialismo col movimento operaio . Quando uno sciopero scoppiava in una fabbrica l'«Unione di lotta», che, per mezzo degli aderenti ai suoi circoli, conosceva benissimo la situazione nei vari stabilimenti, interveniva subito, diffondendo manifestini e appelli socialisti. Quei manifestini denunciavano l'oppressione a cui gli operai erano sottoposti da parte degli industriali, spiegavano come gli operai dovevano lottare per i propri interessi, esponevano le rivendicazioni operaie. I manifestini proclamavano tutta la verità sulle piaghe del capitalismo, sulla vita miserrima degli operai, sulla opprimente giornata di 12-14 ore, sulla loro situazione di pària. Al tempo stesso, vi si trovavano le rivendicazioni politiche adeguate. Il 1894 stava per finire, quando Lenin scrisse, insieme all'operaio Babusckin, il primo di questi manifestini d'agitazione con un appello agli scioperanti dell'officina Semiannikov di Pietroburgo. Nell'autunno del 1895, Lenin rivolse un manifestino agli operai e alle operaie in isciopero della fabbrica Thornton, appartenente ad industriali inglesi che incassavano milioni di profitti. La giornata lavorativa superava le 14 ore e i tessitori guadagnavano mensilmente circa 7 rubli. Lo sciopero si concluse con la vittoria. In breve volgere di tempo, l'«Unione di lotta» stampò decine di manifestini analoghi rivolti agli operai di vari stabilimenti. Ognuno di quei foglietti animava potentemente gli operai, i quali vedevano che i socialisti li aiutavano e difendevano.
Diretti dall'«Unione di lotta», 30 mila tessili scioperarono a Pietroburgo nell'estate del 1896. La rivendicazione principale era la diminuzione della giornata lavorativa. Sotto la pressione di quello sciopero, il governo dello zar si vide costretto a promulgare la legge del 2 giugno 1897, che limitava la giornata lavorativa a 11 ore e mezzo. Fino a quel momento, nessun limite era esistito, in generale, alla giornata di lavoro.
Nel dicembre 1895, Lenin è arrestato dal governo dello zar. Ma anche in prigione, egli continua la lotta rivoluzionaria. Aiuta l'«Unione di lotta» con consigli e suggerimenti; spedisce dalla prigione opuscoli e manifestini. È allora che Lenin scrive l'opuscolo «Sugli scioperi» e il manifestino «Al governo zarista», in cui denuncia i feroci arbìtri del governo dello zar. È in prigione che Lenin scrive ancora il progetto di programma del partito. (Lo scrive con del latte tra le righe di un libro di medicina).
L'«Unione di lotta» di Pietroburgo dette un poderoso impulso al raggruppamento dei circoli operai in analoghe unioni anche in altre città e regioni della Russia. Verso il 1895, organizzazioni marxiste sorgono in Transcaucasia. Nel 1894, a Mosca, si costituisce l'«Unione operaia». In Siberia, verso il 1900, si forma l'«Unione socialdemocratica» siberiana. Nel decennio 1890-1900 a Ivanovo-Voznessensk, a Iaroslavl, a Kostroma, nascono dei gruppi marxisti che in seguito formeranno l'Unione settentrionale del partito socialdemocratico». A cominciare dal 1895, a Rostov sul Don, Iekaterinoslav, Kiev, Nikolaiev, Tula, Samara, Kazan, Orekhovo-Zuevo e altre città sorgono gruppi e unioni socialdemocratiche.
L'«Unione di lotta per l'emancipazione della classe operaia» di Pietroburgo costituì, come disse Lenin, il primo serio embrione di un partito rivoluzionario basato sui movimento operaio: in ciò risiede la sua importanza.
Ed è all'esperienza rivoluzionaria dell'«Unione di lotta» di Pietroburgo che Lenin si ispirò lavorando in seguito alla creazione del partito marxista socialdemocratico di Russia. Dopo l'arresto di Lenin e dei suoi compagni di lotta più stretti, la direzione dell'«Unione di lotta» di Pietroburgo subì considerevoli modificazioni. Degli uomini nuovi erano apparsi che si attribuivano il titolo di «giovani», mentre qualificavano come «vecchi» Lenin ed i suoi compagni. Questi «giovani», si misero a seguire una linea politica falsa. Essi affermavano che bisognava chiamare gli operai solamente alla lotta economica contro i padroni; in quanto alla lotta politica, era la borghesia liberale che doveva incaricarsene e doveva assumerne la direzione.
A costoro si dette il nome di «economisti».
Era il primo gruppo conciliatore, opportunista, nelle file delle organizzazioni marxiste di Russia.
 

4. Lotta di Lenin contro il populismo e il «marxismo legale». Concezione di Lenin sull'alleanza della classe operaia coi contadini. Il Congresso del Partito operaio socialdemocratico di Russia.
Benché già Plekhanov, nel decennio 1880-1890, avesse battuto in breccia il sistema delle concezioni populistiche, nei primi anni del decennio successivo una parte della gioventù rivoluzionaria nutriva ancora simpatie per quelle concezioni. Vi era chi continuava a pensare che la Russia potesse evitare la via di sviluppo capitalistico e che la funzione principale nella rivoluzione spettasse ai contadini anziché alla classe operaia. I populisti superstiti cercavano in tutti i modi d'impedire la diffusione del marxismo in Russia; essi impegnarono la lotta contro i marxisti diffamandoli in tutti i modi. Era perciò necessario demolire dalle fondamenta il populismo sull'arena ideologica, per assicurare la diffusione continua del marxismo e la possibilità di fondare un partito socialdemocratico.
Questo compito fu assolto da Lenin.
Nel suo libro «Che cosa sono gli "amici del popolo” e come lottano contro i socialdemocratici» (1894), Lenin strappò la maschera ai populistri, a questi falsi «amici del popolo» che, nella pratica, marciavano contro il popolo.
I populisti nel decennio 1890-1900 avevano, in realtà, rinunciato da lunga data ad ogni lotta rivoluzionaria contro il governo dello zar. I populisti liberali predicavano la riconciliazione col governo zarista. «Essi pensavano semplicemente, osservava Lenin parlando dei populisti di quel periodo, che se lo si prega con grazia e dolcezza, il governo potrà accomodare tutto nel migliore dei modi». (Lenin, «Opere scelte», vol. I, pag. 302, Cooperativa Editrice dei Lavoratori Esteri nell'URSS, ed. italiana).
I populisti del decennio 1890-1900 chiudevano gli occhi sulle condizioni dei contadini poveri, sulla lotta di classe nelle campagne, sullo sfruttamento dei contadini poveri da parte dei kulak, decantavano i progressi delle aziende dei kulak. Essi, in realtà, si rivelavano come i portavoce degli interessi dei kulak.
Contemporaneamente, nelle loro riviste, i populisti attaccavano i marxisti. Deformando e travisando scientemente le concezioni dei marxisti russi, essi li accusavano di voler la rovina dei contadini, di voler «cucinare ogni mugik nella caldaia della fabbrica». Smascherando quella menzognera campagna dei populisti, Lenin dimostrò che non si trattava affatto dei «desideri» dei marxisti, ma della reale marcia dello sviluppo capitalistico in Russia in seguito al quale il numero dei proletari sarebbe inevitabilmente cresciuto e il proletariato sarebbe diventato il becchino del regime capitalistico.
Lenin dimostrò che i veri amici del popolo, coloro che volevano distruggere il giogo dei capitalisti e dei proprietari fondiari, distruggere lo zarismo, non erano i populisti, ma i marxisti.
Nel suo libro «Che cosa sono gli "amici del popolo”», Lenin espose per la prima volta l'idea dell'alleanza rivoluzionaria degli operai e dei contadini, come mezzo principale per abbattere lo zarismo, i proprietari fondiari, la borghesia.
Lenin, in parecchi suoi lavori di quel periodo, criticò anche i mezzi di lotta politica impiegati dalla «Volontà del Popolo», il gruppo principale dei populisti, e, più tardi, dei loro continuatori, i socialisti- rivoluzionari, in particolare la tattica del terrorismo individuale. Lenin considerava questa tattica nociva al movimento rivoluzionario, poiché sostituiva alla lotta delle masse la lotta degli eroi isolati. Questa tattica rivelava mancanza di fiducia nel movimento rivoluzionario popolare.
Nel libro «Che cosa sono gli "amici del popolo”», Lenin tracciò gli obbiettivi fondamentali dei marxisti russi. Lenin pensava che i marxisti russi dovevano, in primo luogo, organizzare, con i circoli marxisti isolati, un partito operaio socialista unico. Lenin rilevava inoltre che la classe operaia di Russia, avendo come alleato i contadini, avrebbe rovesciato l'autocrazia zarista e che, successivamente, il proletariato russo avendo come alleato le masse lavoratrici e sfruttate e a fianco del proletariato degli altri paesi, avrebbe preso la strada maestra di un'aperta lotta politica, verso la vittoria della rivoluzione comunista.
Ecco come, più di quarant'anni fa, Lenin indicò giustamente il cammino che la classe operaia doveva seguire nella sua lotta, determinò la sua funzione di forza rivoluzionaria d'avanguardia nella società, e definì la funzione dei contadini, in quanto alleati della classe operaia.
Già nel decennio 1890-1900, la lotta di Lenin e dei suoi compagni contro il populismo si era conclusa con la definitiva disfatta del populismo sull'arena ideologica.
Di grandissima importanza fu anche la lotta di Lenin contro il «marxismo legale». Ma come sempre accade nella storia, ai grandi movimenti sociali si aggregano dei «compagni di strada» temporanei. Tra questi «compagni di strada» si trovano anche i cosiddetti «marxisti legali ». Quando il marxismo ebbe assunto un largo sviluppo in Russia, gli intellettuali borghesi incominciarono ad indossare l'abito marxista. Essi facevano stampare i loro articoli nei giornali e nelle riviste legali, cioè permesse dal governo dello zar; di qui il nome di «marxisti legali».
I «marxisti legali» lottavano a modo loro contro il populismo. Ma essi cercavano di utilizzare questa lotta e la bandiera del marxismo per subordinare e adattare il movimento operaio agli interessi della società borghese, agli interessi della borghesia. Della dottrina di Marx essi respingevano la parte essenziale, cioè la teoria della rivoluzione proletaria, della dittatura del proletariato. Il marxista legale più noto, Pietro Struve, decantava la borghesia, e invece di incitare alla lotta rivoluzionaria contro il capitalismo, invitava a «riconoscere la propria mancanza di cultura e a mettersi alla scuola del capitalismo».
Nella lotta contro i populisti, Lenin riteneva ammissibile accordi temporanei coi «marxisti legali» allo scopo di utilizzarli contro i populisti, per pubblicare insieme, ad esempio, una raccolta di scritti contro quel partito. Ma, contemporaneamente, Lenin criticava molto aspramente i «marxisti legali», additandone la sostanza liberale borghese.
Molti di quei «compagni di strada» dovevano divenire in seguito cadetti (partito principale della borghesia russa), e durante la guerra civile, delle guardie bianche in piena regola.
Contemporaneamente alle «Unioni di lotta» di Pietroburgo, di Mosca, di Kiev, ecc., varie organizzazioni socialdemocratiche sorsero fra le nazionalità delle regioni periferiche a occidente della Russia. Dopo il 1890, gli elementi marxisti abbandonarono il partito nazionalista polacco e costituirono la «Social-democrazia di Polonia e di Lituania». Verso il 1900, sorsero le organizzazioni della Social-democrazia lettone. Nell'ottobre del 1897, nei governatorati occidentali della Russia, fu costituita l'Unione Generale Socialdemocratica ebrea: il Bund.
Nel 1898, alcune «Unioni di lotta» - quelle di Pietroburgo, di Mosca, di Kiev, di Ieckaterinoslav, - insieme col Bund , fecero un primo tentativo di unificarsi in un partito socialdemocratico. A tal fine, convocarono il I Congresso del Partito Operaio Socialdemocratico di Russia (P.O.S.D.R.) nel marzo 1898, a Minsk.
Al primo congresso del P.O.S.D.R. parteciparono solo nove delegati. Lenin non poteva essere presente, poiché, in quel tempo, si trovava in Siberia, deportato. Il Comitato Centrale del partito, eletto al Congresso, fu poco dopo arrestato. Il «Manifesto», lanciato a nome del Congresso, su parecchi punti lasciava molto a desiderare: non parlava della conquista del potere politico da parte del proletariato; nulla diceva sull'egemonia del proletariato, e nulla neppure sugli alleati del proletariato, nella sua lotta contro lo zarismo e la borghesia.
Ma, nelle sue risoluzioni e nel «Manifesto», il congresso proclamava costituito il Partito Operaio Socialdemocratico di Russia.
È in questo atto formale, destinato ad avere una grande efficacia per la propaganda rivoluzionaria, che risiede l'importanza del I Congresso del P.O.S.D.R.
Tuttavia, sebbene il I Congresso si fosse riunito, il partito socialdemocratico marxista non si era ancora effettivamente costituito in Russia. Il congresso non era riuscito a raggruppare i circoli e le varie organizzazioni marxiste, né ad unirle con vincoli organizzativi. Non vi era ancora una linea unica nell'azione delle organizzazioni locali; non vi era né un programma, né uno statuto del partito; non esisteva, inoltre, un unico centro direttivo.
Per queste, e numerose altre ragioni ancora, si era accresciuto lo sbandamento ideologico nelle organizzazioni locali, il che creava condizioni propizie al rafforzamento di una corrente opportunistica, la corrente dell'«economismo» nel movimento operaio.
Furono necessari alcuni anni di lavoro intenso, da parte di Lenin e del giornale Iskra («La Scintilla»), da lui fondato, per superare lo sbandamento, vincere le oscillazioni opportunistiche e preparare la formazione del Partito Operaio Socialdemocratico di Russia.
 

5. Lotta di Lenin contro l'«economismo». Lenin fonda il giornale “Iskra”
Al I Congresso del P.O.S.D.R. Lenin non aveva dunque potuto partecipare, trovandosi allora in Siberia deportato nel villaggio di Sciuscienskoie, dove, dopo una lunga detenzione nelle prigioni di Pietroburgo, per la sua attività nell'«Unione di lotta», era stato relegato dal governo.
Ma, anche deportato, Lenin continuava la sua attività rivoluzionaria. E in Siberia terminò il grande lavoro scientifico «Lo sviluppo del capitalismo in Russia», che completò la disfatta ideologica del populismo. Così pure, durante la deportazione, scrisse il celebre opuscolo: «I compiti dei socialdemocratici russi».
Sebbene fosse staccato dall'attività rivoluzionaria pratica e diretta, Lenin era riuscito, dal luogo di deportazione in cui si trovava, a conservare legami con alcuni militanti; era in corrispondenza con loro, domandava informazioni e dava consigli. Egli si preoccupava, in quel tempo, soprattutto della questione degli «economisti». Egli comprendeva meglio di chiunque che l'«economismo» rappresentava il nucleo centrale della politica di conciliazione, dell'opportunismo, che la vittoria dell'«economismo» nel movimento operaio avrebbe significato la rovina del movimento rivoluzionario del proletariato e la sconfitta del marxismo.
E Lenin attaccò gli «economisti», fin dal loro apparire.
Gli «economisti» affermavano che gli operai dovevano lottare solo sul terreno economico, mentre alla lotta politica doveva pensarci la borghesia liberale, che gli operai dovevano appoggiare. Lenin considerava che, con questa propaganda, gli «economisti» rinnegavano il marxismo, negavano la necessità, per la classe operaia, di avere un partito politico autonomo e tentavano di trasformare la classe operaia in un'appendice politica della borghesia.
Nel 1899, un gruppo di «economisti», Prokopovic, Kuskova ed altri, passati più tardi ai cadetti, lanciarono un manifesto, in cui prendevano posizione contro il marxismo rivoluzionario ed esigevano che si rinunciasse alla fondazione di un partito autonomo del proletariato, che si rinunciasse alle rivendicazioni politiche indipendenti formulate dalla classe operaia. Essi sostenevano che la lotta politica era un compito della borghesia liberale, mentre per gli operai era sufficiente la lotta economica contro i padroni.
Dopo aver preso conoscenza di quel documento opportunistico, Lenin convocò un convegno dei deportati marxisti che si trovavano nelle vicinanze, e diciassette compagni, con a capo Lenin, formularono la loro protesta e la loro requisitoria contro le posizioni degli «economisti».
Questa protesta, redatta da Lenin, fu diffusa nelle organizzazioni marxiste in tutta la Russia ed ebbe un'immensa importanza nello sviluppo del pensiero marxista e del partito marxista nel paese.
Gli «economisti» russi sostenevano le stesse idee professate dagli avversari del marxismo nei partiti socialdemocratici all'estero, da coloro che si chiamavano bernsteiniani, ossia dai seguaci dell'opportunista Bernstein.
Perciò la lotta di Lenin contro gli «economisti» era al tempo stesso una lotta contro l'opportunismo internazionale.
Fu principalmente il giornale illegale Iskra , fondato da Lenin, che condusse la lotta contro l'«economismo», per la costituzione di un partito politico autonomo del proletariato.
All'inizio del 1900, Lenin e altri membri dell'«Unione di lotta» tornarono in Russia dalla deportazione siberiana. Lenin aveva concepito il progetto di fondare un grande giornale marxista illegale per tutta la Russia. I numerosi piccoli circoli e organizzazioni marxiste già esistenti in Russia non erano ancora collegati tra di loro. In un momento in cui, secondo le parole del compagno Stalin, «un lavoro alla maniera artigiana, a circoli isolati l'un dall'altro, logorava da cima a fondo il partito, nel momento in cui lo sbandamento ideologico era la caratteristica della vita interna del partito», la fondazione di un giornale illegale per tutta la Russia costituiva il compito fondamentale dei marxisti rivoluzionari russi. Solo questo giornale poteva collegare tra di loro le sparse organizzazioni marxiste e preparare la costituzione di un vero partito.
Ma non era possibile organizzare un giornale simile nella Russia dello zar, date le continue persecuzioni poliziesche. Dopo uno o due mesi, il giornale sarebbe stato scoperto dagli sbirri della polizia segreta zarista e distrutto. Lenin decise perciò di pubblicarlo all'estero. Il giornale venne stampato su carta sottilissima e molto resistente e inviato clandestinamente in Russia. Vari numeri dell'lskra venivano poi ristampati in Russia nelle tipografie clandestine di Bakù, di Kiscinev, della Siberia.
Nell'autunno del 1900, Vladimiro Ilic Lenin si recò all'estero per mettersi d'accordo coi compagni del gruppo dell'«Emancipazione del lavoro» circa la pubblicazione del giornale politico per tutta la Russia. Questa idea Lenin l'aveva maturata in tutti i particolari in esilio. Tornando dalla Siberia, aveva tenuto in proposito molte conferenze a Ufa, Pskov, Mosca, Pietroburgo. Ovunque si era accordato coi compagni circa il cifrario per la corrispondenza segreta, gli indirizzi per l'invio delle pubblicazioni del partito, ecc. e ovunque aveva discusso il piano per le lotte future.
Il governo dello zar si veniva accorgendo che Lenin era un suo nemico estremamente pericoloso. Nella sua corrispondenza segreta, l'agente dell'Okhrana [istituzione della polizia politica segreta nella Russia zarista, creata per lottare contro il movimento rivoluzionario], il gendarme Zubatov, scriveva: «Nel campo rivoluzionario, oggi, nessuno è più forte di Ulianov» (Lenin), e giudicava perciò opportuno che si preparasse l'assassinio di Lenin.
Giunto all'estero, Lenin si accordò con il gruppo dell'«Emancipazione del lavoro», ossia con Plekhanov, Axelrod, Vera Zassulic, per la pubblicazione in comune dell'Iskra . Tutto il piano della pubblicazione fu da Lenin elaborato da cima a fondo.
Nel dicembre del 1900, uscì all'estero il primo numero del giornale Iskra («La Scintilla»). Sotto il titolo, si leggeva il motto: «Dalla scintilla scaturirà la fiamma», motto tolto dalla risposta dei decabristi [rivoluzionari sorti dalla nobiltà che si rivoltarono contro l'autocrazia e il regime della servitù della gleba, nel dicembre 1825] al poeta Pusckin che aveva inviato loro un saluto in Siberia, dove erano stati deportati.
E infatti dall'lskra (dalla «scintilla»), accesa da Lenin scaturì in seguito la fiamma del grande incendio rivoluzionario che ridusse in cenere la monarchia zarista dei nobili e dei grandi proprietari fondiari e il dominio della borghesia.
 

Conclusioni riassuntive
Il Partito Operaio Socialdemocratico marxista di Russia, si è formato dapprima nella lotta contro il populismo, contro le sue concezioni false e nocive alla causa della rivoluzione.
Solo quando i populisti furono battuti sull'arena ideologica, fu possibile aprire la via alla fondazione del partito operaio marxista in Russia. Nel decennio 1880-1890, Plekhanov e il suo gruppo dell'«Emancipazione del lavoro» avevano dato un colpo decisivo al populismo.
Lenin, nel decennio 1890-1900, completò la disfatta ideologica del populismo, gli diede il colpo di grazia.
Il gruppo dell'«Emancipazione del lavoro», fondato nel 1883, svolse un lavoro importante per la diffusione del marxismo in Russia, fornì una base teorica alla socialdemocrazia e fece il primo passo verso il movimento operaio.
Con lo sviluppo del capitalismo in Russia, gli effettivi del proletariato industriale aumentarono rapidamente. Verso il 1885, la classe operaia si pose sulla via di una lotta organizzata, sulla via di un'azione di massa sotto la forma di scioperi organizzati. Ma i circoli e i gruppi marxisti si occupavano solo di propaganda, non comprendevano la necessità di passare all'agitazione di massa fra la classe operaia. Ecco perché, nella pratica, non erano ancora collegati con il movimento operaio, non lo dirigevano.
La fondazione, a Pietroburgo (1895), per opera di Lenin, dell'«Unione di lotta per .l'emancipazione della classe operaia», la quale svolse una vasta agitazione tra gli operai e diresse grandi scioperi, segnò una nuova tappa - il passaggio all'agitazione di massa tra gli operai e la fusione del marxismo con il movimento operaio. L'«Unione i lotta per l'emancipazione della classe operaia», di Pietroburgo, rappresentò il primo embrione del partito proletario rivoluzionario in Russia. Seguendo l'esempio dell'«Unione di lotta» di Pietroburgo, si fondarono organizzazioni marxiste in tutti i principali centri industriali, come pure nelle regioni periferiche del paese.
Nel 1898, si riunì il I Congresso del P.O.S.D.R., primo tentativo, per altro sterile, di unificare le organizzazioni socialdemocratiche marxiste in un partito. Ma quel congresso non fondò ancora il partito; non vi era né un programma, ne uno statuto del partito, né un unico centrò direttivo; non esisteva quasi nessun legame tra i vari circoli e gruppi marxisti.
Per unire e collegare in un solo partito le sparse organizzazioni marxiste, Lenin stabilì e realizzò il piano di fondazione del primo giornale dei marxisti rivoluzionari per tutta la Russia - l'Iskra .
Alla fondazione di un partito operaio politico unico si opponevano in quel periodo soprattutto gli «economisti». Essi ne negavano la necessità. Essi favorivano la dispersione dei vari gruppi e la loro tendenza a lavorare in modo artigiano. Contro gli «economisti» Lenin e l'Iskra da lui fondata diressero i loro colpi.
La pubblicazione dei primi numeri dell'Iskra (1900-1901) segnò il passaggio ad un nuovo periodo, al periodo della formazione effettiva, mediante la fusione dei vari gruppi e circoli isolati, di un unico partito operaio socialdemocratico di Russia.
II.
Fondazione del Partito operaio socialdemocratico di Russia. Formazione del Partito delle frazioni bolscevica e menscevica
(1901-1904)
 

1. L'ascesa del movimento rivoluzionario in Russia nel 1901-1904
Alla fine del secolo XIX, scoppiò in Europa una crisi industriale che coinvolse in breve tempo anche la Russia. Durante la crisi (1900-1901), circa 3 mila stabilimenti grandi e piccoli chiusero i battenti e oltre 100 mila operai furono gettati sul lastrico. I salari degli operai rimasti al lavoro diminuivano fortemente. Le poche concessioni che gli operai avevano strappato nei precedenti tenaci scioperi economici erano loro ritolte dai capitalisti.
La crisi industriale e la disoccupazione non arrestarono, però, né indebolirono il movimento operaio. Al contrario, la lotta degli operai assunse un carattere sempre più rivoluzionario. Dagli scioperi economici, gli operai passano agli scioperi politici, e, infine, scatenano dimostrazioni, presentano rivendicazioni politiche per le libertà democratiche e lanciano la parola d'ordine: «Abbasso l'autocrazia zarista!».
Nel 1901, lo sciopero del 1° Maggio nell'officina di materiale bellico Obukhov di Pietroburgo si trasforma in un conflitto sanguinoso tra gli operai e la truppa. Dalle truppe zariste, armate fino ai denti, gli operai possono difendersi soltanto a colpi di pietra e di pezzi di ferro. E la loro accanita resistenza è spezzata. Segue una repressione feroce: circa 800 operai arrestati, molti gettati in galera e condannati ai lavori forzati. Ma l'eroica «difesa di Obukhov» influì grandemente sugli operai della Russia, suscitando una vasta ondata di simpatia.
Nel marzo del 1902, a Batum, si svolsero grandi scioperi e una dimostrazione operaia organizzata dal Comitato socialdemocratico della città. Questa manifestazione mise in movimento gli operai e le masse contadine della Transcaucasia.
Nello stesso anno 1902, un grande sciopero scoppiò a Rostov sul Don. Scioperarono dapprima i ferrovieri, che furono presto raggiunti dagli operai di molte officine. Lo sciopero metteva in movimento tutti gli operai; alle assemblee che si tennero per alcuni giorni alla periferia della città, partecipavano fino a 30 mila operai. In quelle riunioni, si leggevano ad alta voce i proclami socialdemocratici e gli oratori potevano pronunciare i loro discorsi. La polizia e i cosacchi non erano sufficienti per sciogliere quei comizi di decine di migliaia di lavoratori. Parecchi operai essendo stati uccisi dalla polizia, il giorno seguente si svolse una grandiosa dimostrazione operaia durante i loro funerali. Solo concentrando a Rostov le truppe delle città vicine, il governo dello zar riuscì a soffocare lo sciopero. La lotta degli operai di Rostov era stata diretta dal comitato del P.O.S.D.R. della regione del Don.
Un'ampiezza ancora maggiore presero gli scioperi del 1903. In quell'anno parecchi vasti scioperi politici scoppiano nella Russia meridionale, estendendosi alla Transcaucasia (Bakù, Tiflis, Batum), e alle grandi città ucraine (Odessa, Kiev, Iekaterinoslav). Gli scioperi diventano sempre più tenaci e sempre meglio organizzati. A differenza di ciò che avveniva durante i movimenti precedenti della classe operaia, quasi ovunque la lotta politica degli operai è ora diretta dai comitati socialdemocratici.
La classe operaia della Russia sorgeva così alla lotta rivoluzionaria contro il potere dello zar.
Il movimento operaio influì sulle masse dei contadini. Nella primavera e nell'estate del 1902, in Ucraina (nei governatorati di Poltava e di Kharkov), come pure nel bacino del Volga, scoppiò un vasto movimento contadino; i contadini incendiavano i beni dei proprietari, occupavano i fondi e uccidevano gli odiati zemskie nacialniki [nobili investiti di funzioni giudiziarie e amministrative ed esercitanti diritti di polizia] e signori della terra. Contro i contadini insorti, s'inviò la truppa che sparò sulla massa, si procedette a centinaia di arresti e si gettarono in carcere i dirigenti e gli organizzatori; ma il movimento rivoluzionario dei contadini continuava tuttavia a svilupparsi.
L'azione rivoluzionaria degli operai e dei contadini dimostrava che in Russia stava maturando, era imminente la rivoluzione.
Sotto l'influenza della lotta rivoluzionaria degli operai, anche il movimento studentesco di opposizione si accentuò. Il governo, in risposta alle dimostrazioni e agli scioperi studenteschi, chiuse le università, gettò centinaia di studenti in prigione e, infine, escogitò l'espediente di incorporare nell'esercito gli studenti ribelli. A loro volta gli studenti di tutti gli istituti superiori promossero, nell'inverno del 1901-1902, uno sciopero generale a cui parteciparono quasi 30 mila studenti.
Il movimento rivoluzionario degli operai e dei contadini, e, soprattutto, la repressione contro gli studenti obbligarono persino i borghesi liberali e i proprietari fondiari liberali che facevano parte dei cosiddetti zemstvo a muoversi e ad elevare una loro «protesta» contro le «esagerazioni» del governo dello zar che si accaniva contro i loro rampolli, contro gli studenti.
I liberali degli zemstvo si servivano, come punto di appoggio, degli zemskie upravy , organismi amministrativi cui erano affidate le questioni prettamente locali, riguardanti la popolazione rurale (costruzione di strade, ospedali, scuole). I proprietari fondiari liberali vi avevano un peso assai notevole. Essi erano strettamente legati coi borghesi liberali, con i quali quasi si confondevano, poiché anch'essi cominciavano a passare, nelle loro proprietà, dall'economia semifeudale all'economia capitalistica, che era più redditizia. Questi due gruppi liberali, naturalmente, difendevano il governo dello zar, ma si opponevano alle sue «esagerazioni», temendo che proprio quelle «esagerazioni» rafforzassero il movimento rivoluzionario. Essi temevano le «esagerazioni» dello zarismo, ma temevano ancor più la rivoluzione. Protestando contro le «misure estreme», i liberali si proponevano due scopi: da un lato, di «far capire la ragione» allo zar e, dall'altro, di fingersi in preda a un «grande malcontento» contro lo zarismo, conquistare la fiducia del popolo, distoglierlo, almeno in parte, alla rivoluzione e, in tal modo, indebolire il movimento rivoluzionario.
Il movimento liberale degli zemstvo , certamente, non poneva affatto in pericolo l'esistenza dello zarismo, ma dimostrava tuttavia che, nelle «secolari» basi dello zarismo, le cose non procedevano poi tutte bene.
Dal movimento liberale degli zemstvo , sorse, nel 1902, il gruppo borghese Osvobozdenie [La liberazione], embrione di quello che fu in seguito il principale partito della borghesia russa, il partito cadetto.
Vedendo il movimento rivoluzionario operaio e contadino dilagare nel paese, come un torrente sempre più minaccioso, lo zarismo prende i provvedimenti più feroci per arrestarlo. Sempre più sovente, contro gli scioperi e le dimostrazioni operaie, si lanciano le forze armate; il piombo e lo staffile diventano la risposta consueta del governo dello zar ai movimenti operai e contadini; le prigioni e i luoghi di deportazione rigurgitano di condannati.
Pur intensificando la repressione, il governo dello zar tenta, d'altra parte, di distogliere gli operai dal movimento rivoluzionario con qualche altro provvedimento più «duttile», che non abbia un carattere di repressione. Si tenta di creare alcune pretese organizzazioni operaie, sotto la tutela dei gendarmi e della polizia: le organizzazioni che vennero allora chiamate del «socialismo poliziesco» o organizzazioni zubatoviste (dal nome del colonnello dei gendarmi Zubatov, che le aveva fondate). L'Okhrana zarista, per bocca dei suoi agenti, si sforza di persuadere gli operai che lo stesso governo dello zar sarebbe pronto ad aiutarli perché siano soddisfatte le loro rivendicazioni economiche. «Perché occuparsi di politica, perché organizzare la rivoluzione, se lo stesso zar è dalla parte degli operai?», dicono gli agenti di Zubatov, che hanno costituito in alcune città le loro organizzazioni. Sul modello delle organizzazioni zubatoviste e con gli stessi intenti, è fondata nel 1904, dal pope Gapon, un'organizzazione che prende il nome di «Riunione degli operai russi delle fabbriche e officine di Pietroburgo».
Ma il tentativo dell'Okhrana zarista di prendere in mano le redini del movimento operaio fece fiasco. Il governo dello zar non poteva far fronte al dilagare del movimento operaio con espedienti di questo genere. Il crescente movimento rivoluzionario della classe operaia si sbarazzò di queste organizzazioni poliziesche.
 

2. Piano di Lenin per la creazione del Partito marxista. L'opportunismo degli «economisti». Lotta dell'«Iskra» per il piano di Lenin. Libro di Lenin «Che fare?». Fondamenti ideologici del Partito marxista.
Benché, nel 1898, il I Congresso del Partito socialdemocratico di Russia lo avesse dichiarato costituito, il partito tuttavia non si era ancora formato. Non c'era né programma né statuto. Il Comitato Centrale, eletto al I Congresso, era stato arrestato e non era più stato ricostituito, poiché non c'era più nessuno che si potesse accingere a questo lavoro. Inoltre, dopo il I Congresso, si erano ancora più accentuati sia lo sbandamento ideologico, sia la dispersione organizzativa del partito.
Gli anni dal 1884 al 1894 avevano rappresentato un decennio di vittorie sul populismo e di preparazione ideologica della socialdemocrazia. Il quadriennio 1894-1898 era stato un periodo di tentativi, sia pure infruttuosi, di costituire, con le organizzazioni marxiste isolate, il partito socialdemocratico. Il periodo che seguì il 1898 segnò nel partito un aumento della confusione ideologica e organizzativa. La vittoria del marxismo sul populismo, e i movimenti rivoluzionari della classe operaia, che avevano dimostrato quanto avessero ragione i marxisti, avevano rafforzato le simpatie della gioventù rivoluzionaria per il marxismo. Il marxismo divenne di moda. E il risultato fu che, nelle organizzazioni marxiste, affluirono masse di giovani intellettuali rivoluzionari, teoricamente deboli, inesperti nelle questioni organizzative e politiche, e che sul marxismo avevano solo delle idee confuse, in gran parte false, attinte dagli scritti opportunistici di cui i «marxisti legali» riempivano la stampa. Questo fenomeno aveva abbassato il livello teorico e politico delle organizzazioni marxiste, vi aveva introdotto la mentalità opportunistica dei «marxisti legali», aveva accentuato il disordine ideologico, le oscillazioni politiche e la confusione organizzativa.
L'ascesa sempre più vigorosa del movimento operaio e l'evidente approssimarsi della rivoluzione esigevano la fondazione di un partito unico e centralizzato della classe operaia, capace di dirigere il movimento rivoluzionario. Ma le organizzazioni locali del partito, i comitati, i gruppi, i circoli locali si trovavano in una situazione così deplorevole, la loro dispersione organizzativa e le loro divergenze ideologiche erano così profonde, che la fondazione di un tale partito era immensamente difficile.
Era difficile, non solo perché il partito doveva essere costituito sotto l'imperversare delle feroci persecuzioni dello zarismo che, ad ogni momento, strappava dalle file di molte organizzazioni i militanti migliori per deportarli, cacciarli in prigione o ai lavori forzati; era difficile anche perché molti comitati locali e i loro militanti volevano occuparsi soltanto del loro ristretto lavoro pratico locale, e non comprendevano quale danno recasse la mancanza di unità organizzativa e ideologica nel partito. Essi si erano abituati allo sbriciolamento del partito, alle divergenze ideologiche e ritenevano che si potesse fare a meno di un partito unico centralizzato.
Per creare un partito centralizzato, bisognava, quindi, superare l'arretratezza, l'inerzia e il ristretto praticismo delle organizzazioni locali.
Ma ciò non era tutto. Nel partito si era formato un gruppo abbastanza numeroso che aveva i suoi giornali: la Rabociaia Mysl [«Il Pensiero operaio»], in Russia e il Raboceie Dielo [«La Causa Operaia»], all'estero. Questo gruppo dava allo sbriciolamento organizzativo e allo sbandamento ideologico una giustificazione teorica, non di rado anzi li decantava, considerando inutile e artificiale la costituzione di un partito politico della classe operaia unico, centralizzato.
Erano gli «economisti» e i loro seguaci.
Per creare un partito politico unico del proletariato, bisognava innanzi tutto battere gli «economisti».
Adempiere questi compiti, creare il partito della classe operaia: ecco ciò che intraprese Lenin.
Da che cosa incominciare? Diverse erano le opinioni. Alcuni pensavano che, per creare il partito unico della classe operaia, si doveva innanzi tutto convocare il II Congresso che avrebbe unificato le organizzazioni locali e fondato il partito. Lenin non era di questo avviso. Egli riteneva che, prima di riunire il Congresso, bisognava definire chiaramente gli scopi e i compiti del partito; bisognava sapere quale partito volevamo fondare; bisognava delimitarsi ideologicamente dagli «economisti»; bisognava dire al partito, con onestà e franchezza, che esistevano due diverse concezioni sugli scopi e i compiti del partito, la concezione degli «economisti» e quella dei socialdemocratici rivoluzionari; bisognava sviluppare una vasta propaganda nella stampa in favore delle concezioni della socialdemocrazia rivoluzionaria, come facevano, nella propria stampa, gli «economisti» in favore delle loro; bisognava che le organizzazioni locali potessero scegliere con piena conoscenza di causa tra queste due correnti; e solo dopo tutto questo indispensabile lavoro preliminare, sarebbe stato possibile riunire il congresso del partito.
Lenin diceva apertamente:
 
Prima di unirsi e per unirsi, è necessario innanzi tutto delimitarsi risolutamente e deliberatamente. (Lenin, «Che fare?», pag. 28, Edizioni Italiane di Coltura Sociale, Parigi 1935).
 
Ecco perché Lenin pensava che, per creare il partito politico della classe operaia, era necessario fondare innanzi tutto un giornale politico di lotta per tutta la Russia, il quale svolgesse una propaganda e un'agitazione in favore delle concezioni della socialdemocrazia rivoluzionaria; la pubblicazione di questo giornale doveva essere il primo passo verso la fondazione del partito.
Nel suo notissimo articolo: «Da dove incominciare?», Lenin abbozzò, per la costruzione del partito, un piano preciso, sviluppato in seguito nel suo celebre libro «Che fare?».
 
Noi pensiamo - diceva Lenin in quell'articolo - che il punto di partenza della nostra attività, il primo passo pratico verso la creazione dell'organizzazione che noi desideriamo [si tratta della fondazione del partito], infine, il mezzo essenziale per sviluppare, approfondire e allargare continuamente questa organizzazione, deve essere la fondazione di un giornale politico per tutta la Russia... Senza questo giornale, qualsiasi propaganda, qualsiasi agitazione sistematica, molteplice e fedele ai princìpi, è impossibile. Eppure questo è il compito principale e costante della socialdemocrazia in generale ed è soprattutto un compito attuale, oggi, mentre i più vasti strati della popolazione prestano sempre maggiore attenzione alla politica, alle questioni del socialismo. (Lenin, «Opere», vol. IV, pag. 110 ed. russa).
 
Lenin pensava che un giornale siffatto doveva servire, non soltanto a dare un'unità ideologica al partito, ma anche a riunire in seno al partito le organizzazioni locali. La rete degli agenti e dei corrispondenti del giornale, rappresentanti delle organizzazioni locali, doveva costituire l'ossatura intorno a cui doveva organizzarsi e raggrupparsi il partito. Poiché - diceva Lenin - «il giornale non è solo un propagandista collettivo e un agitatore collettivo, ma è anche un organizzatore collettivo».
 
Questa rete di agenti - scriveva Lenin nello stesso articolo - rappresenterà l'ossatura dell'organizzazione che ci è necessaria: abbastanza estesa per abbracciare il paese intero, abbastanza larga e differenziata per realizzare una severa e particolareggiata divisione del lavoro, abbastanza ferma per saper fare il suo lavoro senza incertezza, in ogni circostanza, qualunque siano le «svolte» e le sorprese; abbastanza flessibile per saper, da un lato, evitare il combattimento in campo aperto contro un nemico numericamente superiore, che ha raccolto tutte le sue forze in un sol punto, e, dall'altro, per saper trarre profitto dalla scarsa agilità del nemico e attaccarlo nel luogo e nel momento in cui meno se lo aspetta. (Ibidem , pag. 112).
 
L'lskra doveva essere un tale giornale.
Ed effettivamente, l'Iskra divenne il giornale politico, destinato a tutta la Russia, che preparò il consolidamento del partito sull'arena ideologica e organizzativa.
Circa la struttura e la composizione del partito, Lenin pensava che due parti dovevano costituirlo: a) un quadro limitato di militanti fissi, composto principalmente di rivoluzionari di professione, cioè di militanti liberi da qualsiasi lavoro estraneo a quello del partito, i quali avessero il minimo indispensabile di cognizioni teoriche, di esperienza politica e di pratica organizzativa e conoscessero l'arte di lottare contro la polizia zarista, di sfuggire alle sue indagini; b) una larga rete di organizzazioni periferiche del partito, comprendenti una grande massa di aderenti e sostenute dalla simpatia e dall'appoggio di centinaia di migliaia di lavoratori.
 
Affermo - scriveva Lenin - 1) che non potrà esservi un movimento rivoluzionario solido senza un'organizzazione stabile di dirigenti che ne assicuri la continuità di lavoro; 2) che quanto più numerosa è la massa entrata spontaneamente nella lotta,... tanto più imperiosa è la necessità di siffatta organizzazione e tanto più questa organizzazione deve essere solida... 3) che tale organizzazione deve essere composta principalmente di uomini, che abbiano come professione l'attività rivoluzionaria; 4) che in un paese autocratico, quanto più noi ridurremo gli effettivi di una tale organizzazione, fino ad accettarvi solamente i rivoluzionari di professione, educati dalla loro attività rivoluzionaria alla lotta contro la polizia politica, tanto più sarà difficile «pescare» siffatta organizzazione, e 5) tanto più numerosi saranno gli operai e gli elementi delle altre classi che potranno partecipare al movimento e militarvi attivamente. (Lenin, «Che fare?» pag. 130, Edizioni Italiane di Coltura Sociale, 1935).
 
Circa il carattere del partito che si stava per costituire e la sua funzione rispetto alla classe operaia e così pure circa i suoi scopi e i suoi compiti, Lenin pensava che il partito doveva essere l'avanguardia della classe operaia, la forza dirigente del movimento operaio, la forza unificatrice ed orientatrice della lotta di classe del proletariato. Scopo finale del partito: rovesciare il capitalismo e costruire il socialismo. Obiettivo immediato: rovesciare lo zarismo ed instaurare l'ordine democratico. E siccome non era possibile rovesciare il capitalismo, senza aver prima rovesciato lo zarismo, il compito essenziale del partito, in quel momento, consisteva nel sollevare la classe operaia, nel sollevare tutto il popolo alla lotta contro lo zarismo, nello scatenare il movimento rivoluzionario del popolo contro lo zarismo, nel rovesciare lo zarismo, in quanto primo e serio ostacolo sulla via verso il socialismo.
 
La storia ci pone oggi un compito immediato, - diceva Lenin - il più rivoluzionario di tutti i compiti immediati del proletariato di qualunque altro paese. L'adempimento di questo compito, la distruzione del baluardo più potente, non solo della reazione europea, ma anche (oggi possiamo dirlo) della reazione asiatica, farebbe del proletariato russo l'avanguardia del proletariato rivoluzionario internazionale. (Ibidem , pag. 34).
 
E ancora:
 
Non dobbiamo dimenticare che la lotta contro il governo per delle rivendicazioni parziali, la lotta per conquistare delle concessioni parziali, non sono che piccoli scontri con il nemico, piccole scaramucce d'avamposti e che la battaglia decisiva non è ancora cominciata. Dinanzi a noi si eleva formidabile la fortezza nemica, dalla quale ci vengono scagliati contro nembi di ferro e fuoco che schiantano i nostri migliori combattenti. Noi dobbiamo conquistare quella fortezza, e noi la conquisteremo, se uniremo tutte le forze del proletariato che si risveglia, con tutte le forze dei rivoluzionari russi, in un solo partito che radunerà tutto quanto di vivo e di onesto c'è in Russia. Soltanto allora si avvererà la grande profezia dell'operaio rivoluzionario russo, Pietro Alexeiev: «Le braccia muscolose di milioni di lavoratori si leveranno e il giogo del dispotismo, difeso dalle baionette dei soldati, sarà ridotto in polvere». (Lenin, «Opere», vol. IV, pag. 59 ed. russa).
 
Tale era il piano di Lenin per la costituzione del partito della classe operaia, nella Russia zarista autocratica.
Gli «economisti» non tardarono ad aprire il fuoco contro il piano di Lenin.
Gli «economisti» pretendevano che la lotta politica generale contro lo zarismo fosse compito di tutte le classi e, innanzi tutto, della borghesia e questa lotta non fosse quindi di serio interesse per la classe operaia, poiché gli operai si dovevano interessare principalmente della lotta economica contro i padroni per l'aumento dei salari, il miglioramento delle condizioni di lavoro, e così via. Sicché, i socialdemocratici avrebbero dovuto porsi come compito immediato e principale, non già la lotta politica contro lo zarismo, né il suo rovesciamento, ma l'organizzazione della «lotta economica degli operai contro i padroni e contro il governo». Per la lotta economica contro il governo, gli «economisti» intendevano la lotta per il miglioramento della legislazione sociale. Essi pretendevano che, per questa via, si poteva «imprimere alla stessa lotta economica un carattere politico».
Gli «economisti» non osavano più schierarsi ufficialmente contro la necessità di un partito politico per la classe operaia. Ma ritenevano che il partito non dovesse costituire la forza dirigente del movimento operaio, né dovesse immischiarsi nel movimento spontaneo della classe operaia né tanto meno dirigerlo, ma dovesse seguirlo, studiarlo e trarne degli insegnamenti.
Gli «economisti» pretendevano anche che la funzione dell'elemento cosciente nel movimento operaio, la funzione organizzatrice e dirigente della coscienza socialista e della teoria socialista fosse insignificante o quasi, che la socialdemocrazia non dovesse elevare gli operai al livello della coscienza socialista, ma, al contrario, adattarsi e scendere al livello degli strati mediocremente sviluppati, ed anche più arretrati, della classe operaia, che, inoltre, la socialdemocrazia non dovesse apportare alla classe operaia la coscienza socialista, ma dovesse attendere che il movimento spontaneo della classe operaia avesse esso stesso formato, con le sue proprie forze, la coscienza socialista.
Infine, il piano organizzativo di Lenin per la costruzione del partito era considerato dagli «economisti» come se si fosse voluto, in certo modo, violentare il movimento spontaneo.
Sulle colonne dell'Iskra , e soprattutto nel suo celebre libro «Che fare?», Lenin sferrò un poderoso attacco contro la filosofia opportunistica degli «economisti», non lasciandone pietra su pietra.
1. Lenin dimostrò che distogliere la classe operaia dalla lotta politica generale contro lo zarismo, limitarne i compiti alla lotta economica contro i padroni e il governo, senza toccare né gli uni, né l'altro, significava condannare gli operai a un'eterna schiavitù. La lotta economica degli operai contro i padroni e il governo era una lotta trade-unionista per migliorare le condizioni di vendita della forza-lavoro ai capitalisti. Gli operai, però, volevano lottare, non soltanto per migliorare le condizioni di vendita della propria forza-lavoro, ma anche per distruggere lo stesso sistema capitalistico che li obbligava a vendere la propria forza-lavoro ed a sottomettersi allo sfruttamento dei capitalisti. Ma gli operai non potevano sviluppare la lotta contro il capitalismo, non potevano lottare per il socialismo, finché la via del movimento operaio era sbarrata dallo zarismo, cane da guardia del capitale. Il compito immediato del partito e della classe operaia era, quindi, di sbarazzare la strada dallo zarismo e di aprirsi il cammino verso il socialismo.
2. Lenin dimostrò che esaltare il processo spontaneo del movimento operaio e negare la funzione dirigente del partito, riducendo il suo compito a registrare gli avvenimenti, significava predicare il «codismo», porre cioè il partito alla coda del processo spontaneo, farne una forza passiva del movimento, capace soltanto di starsene a contemplare il processo spontaneo, e, infine, significava affidarsi solo alla spontaneità. Fare una simile propaganda equivaleva ad orientarsi verso la distruzione del partito, ossia a lasciare la classe operaia senza il partito, cioè disarmata. Ma lasciare la classe operaia disarmata, mentre le stavano di fronte nemici come lo zarismo, armato di tutto punto, e la borghesia, organizzata modernamente e con un proprio partito, un partito che dirigeva la sua lotta contro la classe operaia, - voleva dire tradire la classe operaia.
3. Lenin dimostrò che inchinarsi al movimento operaio spontaneo e ridurre la funzione dell'elemento cosciente, la funzione della coscienza socialista, della teoria socialista, significava, in primo luogo, beffarsi degli operai che aspiravano ad acquistare la coscienza come si aspira alla luce; in secondo luogo, svalutare di fronte al partito la teoria, ossia l'arma che gli permetteva di conoscere il presente e prevedere il futuro e, in terzo luogo, rotolare completamente e definitivamente nel pantano dell'opportunismo.
 
Senza teoria rivoluzionaria - diceva Lenin - non vi può nemmeno essere movimento rivoluzionario... Solo un partito guidato da una teoria d'avanguardia, può adempiere la funzione di combattente d'avanguardia. (Lenin, «Che fare?», pagg. 30-31, Edizioni Italiane di Coltura Sociale, Parigi 1935).
 
4. Lenin dimostrò che gli «economisti» ingannavano la classe operaia, pretendendo che l'ideologia socialista potesse sorgere dal movimento spontaneo della classe operaia, poiché, in realtà, l'ideologia socialista non sorge dal movimento spontaneo, ma dalla scienza. Gli «economisti», negando la necessità di apportare nella classe operaia la coscienza socialista, sgombravano in questo modo il cammino all'ideologia borghese, ne agevolavano l'entrata, la penetrazione nella classe operaia, e, quindi, seppellivano l'idea della fusione del movimento operaio e del socialismo, e facevano il giuoco della borghesia.
 
Ogni sottomissione alla spontaneità del movimento operaio - diceva Lenin - ogni restrizione della funzione dell'“elemento cosciente'', della funzione della socialdemocrazia, significa di per sé - non importa lo si voglia o no - un rafforzamento dell'influenza dell'ideologia borghese sugli operai. (Ibidem, pagg. 44-45).
 
E più avanti:
 
Il problema si pone solamente così: o ideologia borghese o ideologia socialista. Non c'è via di mezzo... Ecco perché ogni menomazione dell'ideologia socialista, ogni allontanamento da essa implica di necessità un rafforzamento dell'ideologia borghese. (Ibidem, pagg. 48-47).
 
5. Passando in rassegna tutti questi errori, Lenin giunse alla conclusione che gli «economisti» volevano, non già un partito di rivoluzione sociale, per liberare la classe operaia dal capitalismo, bensì un partito di «riforme sociali», con implicita la conservazione del dominio capitalistico, e, quindi, che gli «economisti» erano dei riformisti i quali tradivano gli interessi vitali del proletariato.
6. Lenin dimostrò, infine, che l'«economismo» non era un fenomeno causale in Russia; che gli «economisti» servivano da veicolo all'influenza borghese sulla classe operaia; che essi avevano degli alleati nei partiti socialdemocratici dell'Europa occidentale, cioè avevano per alleati i revisionisti, i fautori dell'opportunista Bernstein. Nella socialdemocrazia dell'Occidente, si veniva sempre più affermando una corrente opportunistica che, sotto le insegne della «libertà di critica» nei riguardi di Marx, esigeva la «revisione» della dottrina marxista (da cui la parola «revisionismo») e pretendeva che la socialdemocrazia rinunciasse alla rivoluzione, al socialismo, alla dittatura del proletariato. Lenin dimostrò che gli «economisti» russi seguivano questa stessa linea, la linea della rinuncia alla lotta rivoluzionaria, al socialismo, alla dittatura del proletariato.
Questi sono i fondamenti teorici essenziali sviluppati nel libro di Lenin «Che fare?».
La diffusione del «Che fare?» fece sì che, un anno dopo la sua pubblicazione (avvenuta nel marzo 1902), e cioè poco prima del II Congresso del partito socialdemocratico di Russia, rimanesse soltanto più uno spiacevole ricordo delle posizioni ideologiche dell'economismo, e l'epiteto di «economista» fosse ritenuto ingiurioso dalla maggioranza dei militanti.
Così l'«economismo» fu battuto in pieno sull'arena ideologica, così fu demolita l'ideologia dell'opportunismo, del «codismo», della spontaneità.
Ma l'importanza del «Che fare?» di Lenin non si limita a questo.
L'importanza storica del «Che fare?» sta nel fatto che, con questo celebre libro:
1) Lenin, nella storia del pensiero marxista, fu il primo a scoprire, fino alle radici, le origini ideologiche dell'opportunismo, dimostrando che esse si riducevano, innanzi tutto, al culto della spontaneità del movimento operaio e alla riduzione della funzione della coscienza socialista nel movimento operaio;
2) Elevò fortemente l'importanza della teoria, dell'elemento cosciente, del partito in quanto forza che dirige il movimento operaio spontaneo e lo impregna di spirito rivoluzionario;
3) Dimostrò mirabilmente il principio fondamentale marxista, secondo il quale il partito marxista è la fusione del movimento operaio e del socialismo;
4) Elaborò genialmente i fondamenti ideologici del partito marxista.
I princìpi teorici sviluppati nel «Che fare?» costituirono poi le basi dell'ideologia del partito bolscevico.
Forte di questa ricchezza teorica, l'lskra poté sviluppare e sviluppò veramente una grande campagna per il piano leninista di costruzione del partito, per raggruppare le sue forze, per il Il Congresso del partito, per una socialdemocrazia rivoluzionaria, contro gli «economisti», contro gli opportunisti di ogni specie e di ogni grado, contro i revisionisti.
Un compito essenziale dell'Iskra era quello di elaborare un progetto di programma del partito. Il programma del partito operaio espone brevemente, com'è noto, e in modo scientifico, gli scopi e i compiti di lotta che si propone la classe operaia. Il programma definisce lo scopo finale del movimento rivoluzionario del proletariato, come pure le rivendicazioni per le quali combatte il partito marciando verso lo scopo finale. Perciò, l'elaborazione del progetto di programma non poteva non avere un'importanza di prim'ordine.
Durante l'elaborazione del progetto sorsero gravi divergenze nella redazione dell'Iskra fra Lenin e Plekhanov e gli altri redattori. Le divergenze e le discussioni per poco non provocarono una rottura completa fra Lenin e Plekhanov. Ma la rottura non avvenne in quei momento: Lenin ottenne che nel progetto di programma fosse incluso un articolo essenziale sulla dittatura del proletariato e che fosse esattamente specificata la funzione dirigente della classe operaia nella rivoluzione.
Anche tutta la parte agraria del programma del partito ora dovuta a Lenin. Egli già allora era per la nazionalizzazione della terra, ma, in quella prima tappa della lotta, considerava necessario formulare la rivendicazione che fossero restituiti ai contadini gli «otrezki », cioè gli appezzamenti che i proprietari fondiari avevano, al tempo dell'«emancipazione», stralciati dalle terre dei contadini. Plekhanov era contro la nazionalizzazione della terra.
Le discussioni tra Lenin e Plekhanov sul programma del partito determinarono, in parte, le divergenze ulteriori tra bolscevichi e menscevichi.
 

3. Il II Congresso del Partito operaio socialdemocratico di Russia. Adozione del Programma e dello Statuto. Costituzione di un partito unico. Le divergenze al Congresso e la formazione di due correnti – bolscevica e menscevica – nel partito.
La vittoria dei princìpi leninisti e la lotta vittoriosa dell'Iskra per il piano organizzativo di Lenin avevano, dunque, preparato tutte le principali condizioni necessarie per creare un partito o, come si diceva allora, per costituire un vero partito. La linea dell'Iskra aveva vinto tra le organizzazioni socialdemocratiche in Russia. Si poteva, quindi, convocare il II Congresso del partito.
Il 17 luglio [30, secondo il nuovo stile] 1903, il II Congresso del P.O.S.D.R. si aprì all'estero, clandestinamente. All'inizio, si tenne a Bruxelles, ma, avendo la polizia invitato i delegati a lasciare il Belgio, si trasferì a Londra.
Complessivamente, si erano presentati al congresso 43 delegati di 26 organizzazioni. Ogni comitato aveva il diritto di inviare al congresso due delegati, ma certi comitati ne avevano mandato uno solo. Così 43 delegati disponevano di 51 voti deliberativi.
Il compito principale del congresso consisteva nel «creare un vero partito sui fondamenti di dottrina e d'organizzazione che erano stati formulati ed elaborati dall'Iskra» (Lenin, «Opere», voI. VI, pag. 164 ed. russa).
La composizione del congresso non era omogenea. In conseguenza della disfatta subìta, non si vedevano rappresentati al congresso gli «economisti» dichiarati. Durante quel tempo, si erano però camuffati così abilmente che erano riusciti a introdurvi alcuni dei loro delegati. Inoltre, i delegati del Bund si differenziavano solo a parole dagli «economisti»; di fatto sostenevano I'«economismo».
AI congresso partecipavano quindi non solo i partigiani dell'Iskra, ma anche i suoi avversari. I partigiani dell'Iskra erano 33, ossia in maggioranza. Però non tutti coloro che si dichiaravano iskristi erano dei veri iskristi-leninisti. I delegati si divisero in vari gruppi. I partigiani di Lenin, gli iskristi fermi, disponevano di 24 voti; 9 iskristi seguivano Martov, ed erano gli iskristi instabili. Una parte dei delegati oscillava fra l'Iskra e i suoi avversari: essi disponevano di 10 voti, formando il centro. Gli avversari dichiarati dell'Iskra disponevano di 8 voti (3 «economisti» e 5 bundisti). Se gli iskristi si fossero divisi, i nemici dell'Iskra avrebbero potuto prendere il. sopravvento.
Ecco, dunque, quanto era complicata la situazione al congresso. Lenin dovette svolgere uno estremo lavoro per assicurarvi la vittoria dell'Iskra .
Il problema più importante che il congresso dovette affrontare fu quello del programma del partito. E, durante la discussione del programma, la questione centrale che suscitò le obiezioni dell'ala opportunista del congresso fu quella della dittatura del proletariato. Gli opportunisti non erano d'accordo con l'ala rivoluzionaria del congresso neanche su parecchie altre questioni programmatiche. Ma avevano deciso di dare battaglia principalmente sulla questione della dittatura del proletariato, partendo dalla premessa che parecchi partiti socialdemocratici dell'estero non avevano inserito nel loro programma un articolo sulla dittatura del proletariato e affermando che lo si poteva, di conseguenza, omettere anche nel programma della socialdemocrazia russa.
Gli opportunisti si opponevano pure all'inclusione nel programma delle rivendicazioni riguardanti la questione contadina. Non volendo la rivoluzione, costoro respingevano gli alleati della classe operaia, i contadini, verso i quali dimostravano soltanto ostilità.
I bundisti e i socialdemocratici polacchi si pronunziavano, d'altra parte, contro il diritto delle nazioni all'autodecisione. Lenin aveva sempre insegnato che la classe operaia aveva il dovere di lottare contro l'oppressione nazionale. Opporsi all'inclusione nel programma di tale rivendicazione, voleva dire rinnegare l'internazionalismo proletario e rendersi complice dell'oppressione nazionale.
Lenin demolì tutte queste obiezioni.
E il congresso adottò il programma proposto dall'Iskra.
Il programma si componeva di due parti: programma massimo e programma minimo. Il programma massimo proclamava compito essenziale del partito della classe operaia: la rivoluzione socialista, il rovesciamento del regime capitalistico, l'instaurazione della dittatura del proletariato. Il programma minimo stabiliva i compiti immediati del partito, che si dovevano tradurre in atto prima ancora che fosse abbattuto il regime capitalistico e fosse instaurata la dittatura del proletariato: rovesciare, cioè, l'autocrazia zarista, instaurare la repubblica democratica, applicare la giornata lavorativa di otto ore per gli operai, sopprimere nelle campagne tutte le sopravvivenze della servitù della gleba, restituire ai contadini gli appezzamenti («otrezki » ) onde erano stati spogliati dai proprietari fondiari.
In seguito, i bolscevichi sostituirono la rivendicazione della riconsegna degli «otrezki » con la rivendicazione della confisca di tutte le terre dei grandi proprietari.
Il programma approvato al II Congresso era veramente il programma rivoluzionario del partito della classe operaia.
E rimase in vigore fino all'VIlI Congresso, quando il nostro partito, conseguita la vittoria della rivoluzione proletaria ne approvò uno nuovo.
Approvato il programma, il II Congresso passò a discutere il progetto dello statuto del partito. Dal momento che aveva adottato il programma e gettato i fondamenti dell'unificazione ideologica del partito, il congresso doveva approvare anche lo statuto per mettere risolutamente da parte il modo artigiano di lavoro, lo spirito di gruppo, lo sbriciolamento organizzativo e per introdurre una disciplina ferrea nel partito.
Ma, se il programma era stato approvato senza soverchie difficoltà, lo statuto del partito suscitò nel congresso una lotta accanita. Le divergenze più aspre scoppiarono a proposito della redazione dell'articolo primo dello statuto che stabiliva le condizioni per l'appartenenza al partito. Chi poteva essere membro del partito? Quale doveva essere la composizione del partito? Come doveva essere organizzativamente il partito? Un tutto organizzato o qualcosa di amorfo? Ecco quali questioni erano sorte sull'articolo primo dello statuto. Due formule si trovavano di fronte: quella di Lenin, sostenuta da Plekhanov e dagli iskristi fermi, e quella di Martov, sostenuta da Axelrod, dalla Zassulic, dagli iskristi instabili, da Trotzki e da tutta l'ala apertamente opportunista del congresso.
La formula di Lenin diceva: può essere membro del partito chiunque accetta il programma del partito, sostiene materialmente il partito ed è membro di una delle sue organizzazioni. La formula di Martov, pur ritenendo l'accettazione del programma e il sostegno materiale al partito, come condizioni indispensabili per l'iscrizione al partito, non riteneva però che l'appartenenza ad una delle sue organizzazioni fosse condizione necessaria per l'adesione e riteneva che un membro del partito potesse anche non essere membro di una delle sue organizzazioni.
Lenin considerava il partito come un reparto organizzato , i cui membri non si attribuiscono da soli la qualità dei membri di partito, ma devono essere accettati nel partito da una delle sue organizzazioni e sottomettersi dunque alla disciplina di partito. Martov, invece, considerava il partito come qualche cosa di amorfo sotto l'aspetto organizzativo, i cui membri si qualificano tali da se stessi e non sono obbligati quindi a sottomettersi alla disciplina di partito, poiché non fanno parte di una delle sue organizzazioni.
Cosicché, la formula proposta da Martov, a differenza di quella di Lenin, spalancava le porte del partito agli elementi oscillanti, non proletari. Alla vigilia della rivoluzione democratico-borghese, tra gli intellettuali borghesi vi era chi simpatizzava momentaneamente con la rivoluzione. Costoro potevano anche, di quando in quando, rendere qualche servizio al partito. Ma però non avrebbero mai aderito ad un'organizzazione del partito, obbedito alla disciplina del partito, adempiuto i compiti assegnati dal partito e affrontato i pericoli derivanti dai compiti stessi. È questa gente che Martov e gli altri menscevichi proponevano di considerare come membri del partito. Ed è a questa gente che essi intendevano dare il diritto e la possibilità di influire sulla vita del partito. Martov e gli altri menscevichi proponevano persino di dare ad ogni scioperante il diritto di «attribuirsi» la qualità di membri del partito, sebbene agli scioperi partecipassero anche non socialisti, anarchici, socialisti-rivoluzionari.
Invece del Partito monolitico, combattivo, ben organizzato, per il quale lottavano Lenin e i leninisti, i seguaci di Martov volevano quindi un partito non omogeneo, mal definito, amorfo, che non poteva essere un partito combattivo, non fosse che per la sua eterogeneità e per l'assenza di una ferrea disciplina nel suo seno.
L'abbandono degli iskristi fermi da parte degli iskristi instabili, il blocco dei secondi col centro e l'adesione a questa alleanza degli opportunisti dichiarati, diedero su questo punto la prevalenza a Martov. Il congresso con 28 voti contro 22 e con un astenuto, approvò, per l'articolo primo dello statuto, la formula proposta da Martov.
Dopo la divisione degli iskristi sull'articolo primo dello statuto, la lotta s'inasprì ancor di più. Giunto quasi alla fine dei lavori, il congresso stava per procedere all'elezione degli organismi dirigenti del partito - la redazione dell'organo centrale del partito ( l'Iskra) e il Comitato Centrale - quando, prima che si precedesse alle elezioni, dei nuovi avvenimenti modificarono il rapporto delle forze in lotta.
In relazione allo statuto del partito, il congresso dovette occuparsi del Bund , che pretendeva una situazione particolare nel partito, esigendo di essere riconosciuto come l'unico rappresentante degli operai ebrei in Russia. Accettare una simile richiesta, voleva dire dividere gli operai, nelle organizzazioni del partito secondo il principio della nazionalità, e rinunciare quindi alle organizzazioni di classe uniche, della classe operaia, su di una base territoriale. Il congresso respinse il nazionalismo del Bund nel campo organizzativo. Allora, i bundisti abbandonarono il congresso. Anche due «economisti» - il congresso essendosi rifiutato di riconoscere la loro Unione nell'emigrazione come una rappresentanza del partito all'estero - abbandonarono i lavori.
L'uscita dal congresso di 7 opportunisti modificò il rapporto delle forze in favore dei leninisti.
Fin dall'inizio, l'attenzione di Lenin si era concentrata sul problema della composizione degli organismi centrali del partito. Lenin riteneva indispensabile eleggere al Comitato Centrale dei rivoluzionari fermi e conseguenti. I seguaci di Martov si sforzavano invece di far prevalere nel Comitato Centrale gli elementi instabili e opportunisti. La maggioranza del congresso, su questo punto, fu d'accordo con Lenin e al Comitato Centrale furono eletti dei partigiani di Lenin.
Su proposta di Lenin, furono eletti alla redazione dell'lskra Lenin, Plekhanov e Martov. Martov aveva insistito al congresso perché i sei ex-redattori dell'Iskra , la maggioranza dei quali erano suoi seguaci, fossero rieletti nella redazione. Ma il congresso, a maggioranza, aveva respinto la proposta ed eletto i tre candidati proposti da Lenin. Allora, Martov dichiarò che egli pure non avrebbe partecipato alla redazione dell'organo centrale.
Così, con l'elezione degli organismi centrali del partito, il congresso consacrò la sconfitta dei seguaci di Martov e la vittoria dei partigiani di Lenin.
Da quel momento, i partigiani di Lenin, che avevano ottenuto la maggioranza nelle elezioni congressuali, furono chiamati «bolscevichi» (dalla parola bolscinstvò , maggioranza); e gli avversari di Lenin, rimasti in minoranza, furono chiamati «menscevichi» (dalla parola menscinstvò , minoranza).
Tirando le somme, si possono ricavare le seguenti conclusioni sul II Congresso:
1) Il congresso consacrò la vittoria del marxismo sull'«economismo», sull'opportunismo dichiarato;
2) Il congresso adottò il programma e lo statuto; fondò un partito socialdemocratico e costituì, in tal modo, il quadro d'un partito unico;
3) Il congresso rivelò le gravi divergenze sulle questioni organizzative che divisero il partito in bolscevichi e menscevichi; i primi difendevano i princìpi organizzativi della socialdemocrazia rivoluzionaria, mentre i secondi scivolavano verso uno stato di delinquenza organizzativa, rotolavano nel pantano dell'opportunismo;
4) Il congresso mostrò che i vecchi opportunisti già battuti dal partito, gli «economisti», erano, a poco a poco, sostituiti nel partito da nuovi opportunisti: i menscevichi;
5) Il congresso non si mostrò all'altezza della situazione nei problemi organizzativi, esitò, dando talvolta la prevalenza ai menscevichi, e, quantunque rimessosi in carreggiata, alla fine, non soltanto non seppe smascherare l'opportunismo dei menscevichi nei problemi organizzativi, e isolarli nel partito, ma non seppe neppure porre di fronte al partito questo compito.
Il che costituì una delle principali ragioni del fatto che la lotta tra bolscevichi e menscevichi, non solo, dopo il congresso, non si attenuò, ma, al contrario, si inasprì ancor di più.
 

4. Gli atti scissionisti dei capi menscevichi. «L'inasprirsi della lotta in seno al partito dopo il II Congresso. L'opportunismo dei menscevichi. Il libro di Lenin «Un passo avanti e due indietro». I princìpi organizzativi del partito marxista.
Dopo il Il Congresso, la lotta in seno al partito diventò ancora più acuta. I menscevichi cercavano con tutti i mezzi di mandare a monte le decisioni del Il Congresso e di impadronirsi dei centri dirigenti del partito. Essi pretendevano che i loro rappresentanti fossero inclusi nella redazione dell'Iskra e nel Comitato Centrale, in una proporzione che assicurasse loro la maggioranza nella redazione e la parità con i bolscevichi nel Comitato Centrale. Siccome ciò era contrario alle precise deliberazioni del II Congresso, i bolscevichi respinsero queste pretese. I menscevichi costituirono allora, all'insaputa del partito, un'organizzazione frazionistica, ostile al partito, alla cui testa si trovavano Martov, Trotzki e Axelrod, e «scatenarono - come scriveva Martov - una sollevazione contro il leninismo». Il metodo di lotta contro il partito che essi prescelsero era quello di «disorganizzare tutto il lavoro del partito, di danneggiarlo, di frenarlo in tutto e per tutto» (espressione di Lenin). Trinceratisi nella «Lega all'estero» dei socialdemocratici russi, per nove decimi intellettuali emigrati, staccati dall'azione in Russia, aprirono, da quelle posizioni, il fuoco contro il partito, contro Lenin, contro i leninisti.
Plekhanov prestava manforte ai menscevichi. Al II Congresso, egli era stato a fianco di Lenin. Ma, in seguito, si era lasciato intimidire dai menscevichi, che minacciavano la scissione. Egli aveva quindi deciso di «riconciliarsi» ad ogni costo coi menscevichi. Il peso dei suoi vecchi errori opportunistici lo faceva gravitare verso i menscevichi. Dapprima conciliatore verso i menscevichi opportunisti, ben presto Plekhanov divenne egli stesso un menscevico. Egli insistette perché tutti gli ex redattori menscevichi dell'Iskra , non rieletti dal congresso, fossero ammessi nella redazione. Lenin non poteva, certo, accettare questa condizione e uscì dalla redazione dell'lskra , per rafforzare le sue posizioni in seno al Comitato Centrale e di là battere gli opportunisti. Plekhanov, calpestando la volontà del congresso, cooptò, di sua testa, nella redazione deIl'Iskra gli ex redattori menscevichi. Da allora, a cominciare dal N. 52 dell'Iskra , i menscevichi fecero di questo giornale il loro organo e se ne servirono per diffondere le loro concezioni opportunistiche.
Ormai, si parlò nel partito della vecchia Iskra , l'lskra leninista, bolscevica, e della nuova Iskra , l'Iskra menscevica, opportunista.
Il giornale, caduto nelle mani dei menscevichi, divenne un organo di lotta contro Lenin, contro i bolscevichi, un organo di propaganda dell'opportunismo menscevico, soprattutto sull'arena organizzativa. I menscevichi, alleatisi con gli «economisti» e i bundisti, mossero guerra, sulle pagine dell'Iskra , contro il leninismo, come essi dicevano. Plekhanov non poté mantenersi su posizioni conciliatrici e dopo qualche tempo si unì egli pure a quella campagna. E così doveva infatti accadere per la logica delle cose: chi insiste per la conciliazione con gli opportunisti finisce per scivolare nell'opportunismo. Dalla nuova Iskra piovevano, come dal corno dell'abbondanza, dichiarazioni e articoli affermanti che il partito non doveva essere un tutto organizzato; che bisognava ammettere in seno al partito l'esistenza di gruppi e di individui liberi, non obbligati a sottomettersi alle decisioni degli organismi del partito: che bisognava lasciare ad ogni intellettuale simpatizzante col partito, come ad «ogni scioperante» e ad «ogni manifestante», tutte le possibilità di autoproclamarsi membro del partito; che esigere la sottomissione a tutte le decisioni del partito era dar prova di «formalismo burocratico»; che esigere la sottomissione della minoranza alla maggioranza equivaleva a «soffocare meccanicamente» la volontà dei membri del partito; che esigere da tutti i membri, capi e semplici iscritti, un'eguale sottomissione alla disciplina del partito, voleva dire instaurare il «servaggio» nel partito; che, infine, ciò ch'era necessario, «a noi», nel partito, non era il centralismo, ma l'«autonomismo» anarchico; il quale dà il diritto agli aderenti e alle organizzazioni del partito di non applicare le decisioni del partito stesso.
Era una propaganda sfrenata di rilassatezza in materia d'organizzazione, era rovinare lo spirito di partito e la disciplina di partito, esaltare l'individualismo intellettualistico, giustificare lo spirito anarchico di indisciplina.
Rispetto al II Congresso, i menscevichi, evidentemente, volevano far retrocedere il partito verso lo sbriciolamento organizzativo, verso lo spirito di gruppo e verso i metodi artigiani di lavoro.
Bisognava, dunque, battere in breccia i menscevichi in modo decisivo.
Ed è ciò che fece Lenin nel suo celebre libro «Un passo avanti e due indietro», uscito nel maggio del 1904.
Ecco i princìpi organizzativi essenziali che furono sviluppati da Lenin in quel libro e che dovevano diventare i princìpi organizzativi del partito bolscevico:
1) Il partito marxista è parte integrante della classe operaia, un suo reparto. Ma la classe operaia ha numerosi reparti; ne deriva che non tutti i reparti della classe operaia possono essere chiamati partito della classe operaia. Il partito si distingue dagli altri reparti della classe operaia, prima di tutto, perché non è un semplice reparto ma il reparto d'avanguardia , il reparto cosciente , il reparto marxista, della classe operaia, armato della conoscenza della vita sociale, armato della conoscenza delle leggi dello sviluppo della vita sociale, armato della conoscenza delle leggi della lotta di classe e capace, perciò, di guidare la classe operaia, di dirigerne la lotta. Non si devono quindi confondere il partito e la classe operaia, come non si deve confondere la parte con il tutto; non si deve pretendere che ogni scioperante possa autoproclamarsi membro del partito, poiché chi confonde il partito con la classe abbassa il livello della coscienza del partito al livello di «ogni scioperante», distrugge il partito come avanguardia cosciente della classe operaia. Il compito del partito consiste non nell'abbassare il suo livello fino al livello di «ogni scioperante», ma nell'elevare le masse operaie, nell'elevare «ogni scioperante» al livello del partito.
 
Noi siamo - scriveva Lenin - il partito della classe e, perciò, quasi tutta la classe (e in tempo di guerra, nell'epoca della guerra civile, la classe tutt'intera) deve agire sotto la direzione del nostro partito, deve stringersi il più solidamente che è possibile attorno al nostro partito. Ma sarebbe del «manilovismo» [indifferenza, inerzia, vuoto fantasticare. Manilov è uno dei personaggi delle «anime morte», di Gogol] e del «codismo» pensare che, in regime capitalistico, quasi tutta o tutta la classe possa mai elevarsi alla coscienza e all'attività della propria avanguardia, del proprio partito socialdemocratico. Nessun socialdemocratico ragionevole ha mai posto in dubbio che, in regime capitalistico, neanche l'organizzazione sindacale (più primitiva, più accessibile alla coscienza degli strati arretrati) non è in grado di abbracciare quasi tutta o tutta la classe operaia. Dimenticare la differenza che passa tra l'avanguardia e le masse che gravitano verso di essa, dimenticare il costante dovere dell'avanguardia di elevare degli strati sempre più larghi fino a questo livello dell'avanguardia, vorrebbe dire ingannar se stessi, chiudere gli occhi di fronte alla grandiosità dei nostri compiti, restringere questi compiti. (Lenin, «Opere», vol. VI, pagg. 205-206 ed. russa).
 
2) Il partito non è soltanto il reparto cosciente, di avanguardia, della classe operaia, ma è in pari tempo il reparto organizzato della classe operaia, con una propria disciplina obbligatoria per i suoi membri. Perciò, i membri del partito devono obbligatoriamente essere membri di una delle sue organizzazioni. Se il partito non fosse un reparto organizzato della classe, né un sistema d'organizzazione , ma una semplice somma di individui che si dichiarano essi stessi membri del partito, senza aderire a nessuna delle sue organizzazioni, e che, perciò, non sono organizzati , e non sono quindi tenuti a sottomettersi alle decisioni del partito, il partito non avrebbe mai un'unica volontà, non potrebbe mai realizzare l'unità d'azione dei suoi aderenti; di conseguenza, gli sarebbe impossibile dirigere la lotta della classe operaia. Il partito può dirigere praticamente la lotta della classe operaia e rivolgerla verso un unico scopo, solo se tutti i suoi membri sono organizzati in un solo reparto comune, saldato dall'unità di volontà, dall'unità d'azione, dall'unità di disciplina.
Quando i menscevichi obiettano che, in questo caso, molti intellettuali, come, ad esempio, professori, studenti, universitari o liceali, ecc. rimarrebbero fuori del partito, non volendo aderire a questa o quella organizzazione locale, sia che la disciplina del partito sia loro di peso, sia che, come diceva Plekhanov al II Congresso, «l'aderire a questa o a quella organizzazione locale lo considerino come un'umiliazione», questa obiezione dei menscevichi si ritorce contro di loro, poiché il partito non sa che farsene di membri cui pesi la sua disciplina e che temano di aderire a una delle sue organizzazioni. Gli operai non temono né la disciplina né l'organizzazione; e non appena hanno deciso di diventare membri del partito, aderiscono volentieri alle sue organizzazioni. Temono la disciplina e l'organizzazione solo gli intellettuali di spirito individualistico, i quali effettivamente rimarranno fuori del partito. E sarà tanto di guadagnato: il partito si libererà infatti dall'afflusso di elementi instabili, accentuatosi soprattutto oggi, mentre comincia l'ascesa della rivoluzione democratico-borghese.
 
Se io dico - scriveva Lenin - che il partito deve essere una somma (e non una semplice somma aritmetica, ma un complesso) d'organizzazioni... affermo con ciò, in modo del tutto chiaro e preciso, che desidero, esigo che il partito, come avanguardia della classe, sia una cosa il più possibile organizzata , che il partito ammetta nel suo seno solo quegli elementi che accettino anche sia pure un minimo d'organizzazione... (Lenin, «Opere», vol. VI, pag. 203 ed. russa).
 
E più avanti:
 
A parole , la formula di Martov corrisponde agli interessi dei larghi strati del proletariato; di fatto , questa formula servirà gli interessi degli intellettuali borghes i che temono la disciplina proletaria e l'organizzazione. Nessuno oserà negare che gli intellettuali, come strato particolare nelle società capitalistiche contemporanee, sono contraddistinti, in generale, proprio dall'individualismo e dall'inadattabilità alla disciplina e alla organizzazione. (Ibidem , pag. 212).
 
E ancora:
 
Il proletariato non teme né l'organizzazione né la disciplina... Al proletariato non importa che i signori professori e studenti, i quali non desiderano aderire ad un'organizzazione, siano riconosciuti membri del partito, solo perché lavorano sotto il controllo di un'organizzazione... Non è il proletariato, ma sono certi intellettuali del nostro partito che mancano di autoeducazione , sotto l'aspetto dell'organizzazione e della disciplina. (Ibidem , pag. 307).
 
3) Tra tutte le altre organizzazioni della classe operaia, il partito non è semplicemente un reparto organizzato, ma è «la forma suprema d'organizzazione », destinata a dirigere tutte le altre organizzazioni della classe operaia. Il partito, come forma suprema d'organizzazione, composta dai migliori elementi della classe, armata d'una teoria d'avanguardia, della conoscenza delle leggi della lotta di classe e dell'esperienza del movimento rivoluzionario, ha tutte le possibilità di dirigere - e ha il dovere di dirigere - tutte le altre organizzazioni della classe operaia. La tendenza dei menscevichi a sminuire, ad abbassare la funzione dirigente del partito, porta a indebolire tutte le altre organizzazioni proletarie dirette dal partito e di conseguenza, indebolisce e disarma il proletariato poiché «il proletariato, nella sua lotta per il potere non ha altra arma che l'organizzazione». (Ibidem , pag. 328)
4) Il partito incarna il legame dell'avanguardia della classe operaia con le masse innumerevoli della classe operaia . Anche essendo il miglior reparto d'avanguardia e quello più perfettamente organizzato, il partito non potrebbe tuttavia né vivere né svilupparsi, senza essere legato alle masse dei senza partito, senza moltiplicare questi legami, senza consolidarli. Un partito, rinchiuso in se stesso, isolato dalle masse, e che perdesse o semplicemente indebolisse i legami con la classe, perderebbe la fiducia e l'appoggio delle masse e dovrebbe, quindi, inevitabilmente perire. Per vivere una vita piena e svilupparsi, il partito deve moltiplicare i suoi legami con le masse, conquistarsi la fiducia delle innumerevoli masse della propria classe.
 
Per essere un partito socialdemocratico - diceva Lenin - bisogna ottenere il sostegno della classe . (Ibidem , pag. 208).
 
5) Il partito, per poter funzionare bene e dirigere le masse secondo un piano, deve essere organizzato conformemente ai princìpi del centralismo , avere uno statuto unico, un'unica disciplina, un unico organismo dirigente, rappresentato dal suo congresso, e, negli intervalli tra i congressi, dal Comitato Centrale; occorre che la minoranza si sottometta alla maggioranza, le varie organizzazioni al centro, le organizzazioni inferiori a quelle superiori. Senza queste condizioni, il partito della classe operaia non può essere un vero partito, non può adempiere il suo compito di dirigere la classe.
Siccome il partito, sotto l'autocrazia zarista, era illegale, le organizzazioni del partito non potevano certo in quell'epoca formarsi mediante l'elezione dal basso, dovendo il partito essere rigorosamente clandestino. Ma Lenin pensava che quelle condizioni momentanee nella vita del nostro partito sarebbero sparite, non appena lo zarismo fosse stato abbattuto, quando il partito fosse divenuto legale e le sue organizzazioni avessero applicato il principio delle elezioni democratiche, il principio del centralismo democratico .
 
Prima - scriveva Lenin - il nostro partito non era un tutto formalmente organizzato, ma soltanto una somma di gruppi particolari, e perciò tra questi gruppi non potevano esservi altri rapporti che di influenza ideologica. Oggi siamo diventati un partito organizzato, e questo significa creazione dell'autorità, trasformazione del prestigio delle idee in prestigio dell'autorità, sottomissione delle istanze inferiori del partito a quelle superiori. (Ibidem , pag. 291).
 
Attaccando i menscevichi per il loro nichilismo nelle questioni organizzative e per il loro anarchismo da gran signore, che non ammette l'idea della sottomissione alla autorità del partito e alla sua disciplina, Lenin scriveva:
 
Quest'anarchismo da gran signore è caratteristico del nichilista russo. L'organizzazione del partito gli sembra una «fabbrica» mostruosa; la sottomissione della parte al tutto e della minoranza alla maggioranza gli appare come una «servitù».... la divisione del lavoro, sotto la direzione di un centro, provoca da parte sua degli strilli tragicomici contro la trasformazione degli uomini in «viti e rotelline» (e ne vede una forma assolutamente intollerabile nella trasformazione dei redattori in collaboratori); la sola menzione dello statuto di organizzazione del partito, suscita in lui una smorfia sdegnosa e la sprezzante osservazione (rivolta ai «formalisti») che si potrebbe benissimo anche fare a meno dello statuto. (Ibidem . pag. 310).
 
6) Il partito, nella sua attività pratica, se vuole conservare l'unità delle sue file, deve applicare una disciplina proletaria unica , egualmente obbligatoria per tutti i membri del partito, tanto per i capi, quanto per i semplici membri. Perciò, nel partito non deve esservi alcuna divisione in «membri dell'élite », per i quali la disciplina non sia obbligatoria, e in non «membri dell'élite », che debbano sottomettersi alla disciplina. Senza questa condizione non è possibile salvaguardare l'integrità del partito e l'unità delle sue file.
 
L'assenza totale, in Martov e consorti, di argomenti ragionevoli , contro la redazione nominata dal congresso - scriveva Lenin - è resa evidente meglio di tutto dal loro stesso motto: "Noi non siamo dei servi! "... La psicologia dell'intellettuale borghese, che si ritiene un'"anima eletta" posta al disopra dell'organizzazione di massa e dalla disciplina di massa, appare qui chiarissima... Per l'individualismo intellettualistico... ogni organizzazione e ogni disciplina proletaria s'identificano con la servitù . (Ibidem , pag. 282).
 
E più avanti:
 
Via via che si forma nel nostro paese un vero partito, l'operaio cosciente deve imparare a distinguere tra la psicologia del combattente dell'esercito proletario e la psicologia dell'intellettuale borghese che fa pompa di frasi anarchiche; egli deve imparare a esigere che gli obblighi i quali incombono ai membri di partito siano adempiuti, non solo dai semplici aderenti, ma anche da “coloro che stanno in alto”. (Ibidem , pag. 312).
 
Riassumendo l'analisi delle divergenze e definendo le posizioni dei menscevichi come dell'«opportunismo nelle questioni organizzative», Lenin considerava che uno dei peccati essenziali del menscevismo era quello di sottovalutare l'importanza dell'organizzazione di partito, in quanto arma del proletariato nella lotta per la propria emancipazione. I menscevichi erano del parere che l'organizzazione di partito del proletariato non era di grande importanza per la vittoria della rivoluzione. Contrariamente ai menscevichi, Lenin pensava: l'unità ideologica del proletariato, di per se stessa, non basta per assicurare la vittoria; per vincere, è indispensabile «cementare» l'unità ideologica mediante l'«unità materiale dell'organizzazione » del proletariato. Soltanto a questa condizione - Lenin pensava - il proletariato può diventare una forza invincibile.
 
Il proletariato, nella sua lotta per il potere, - scriveva Lenin, - ha soltanto un'arma: l'organizzazione. Il proletariato, diviso dalla concorrenza anarchica che regna nel mondo borghese, schiacciato sotto il peso di un lavoro forzato a favore del capitale, sospinto continuamente «nei bassifondi» d'una miseria nera, dell'abbruttimento e della degenerazione, può diventare e diventerà inevitabilmente una forza invincibile soltanto perché la sua unione ideologica, fondata sui princìpi del marxismo, è cementata dall'unità materiale dell'organizzazione che raggruppa i milioni di lavoratori in un esercito della classe operaia. A questo esercito non potranno resistere né il potere già decrepito dell'autocrazia russa, né il potere del capitale internazionale che sta per diventarlo. (Ibidem, pag. 328).
 
È con queste parole profetiche che Lenin chiude il suo libro.
Questi sono i princìpi organizzativi essenziali sviluppati da Lenin nel suo celebre libro «Un passo avanti e due indietro».
L'importanza di questo libro sta innanzitutto nel fatto che esso ha salvaguardato lo spirito di partito da quello ristretto di gruppo e il partito dai disorganizzatori, ha battuto in pieno l'opportunismo menscevico sulle questioni organizzative e ha gettato le basi organizzative del partito bolscevico.
Ma non è importante solo per questo. Il suo significato storico è dato dal fatto che Lenin vi ha, per primo nella storia del marxismo, elaborato la dottrina del partito , in quanto organizzazione dirigente del proletariato, in quanto arma essenziale nelle mani del proletariato, senza la quale è impossibile vincere nella lotta per la dittatura proletaria.
La diffusione tra i militanti dell'opera di Lenin «Un passo avanti e due indietro», fece sì che la maggior parte delle organizzazioni locali si raggruppò attorno a Lenin.
Ma più le organizzazioni si raggruppavano strettamente attorno ai bolscevichi, più rabbioso si faceva l'atteggiamento dei capi menscevichi.
Nell'estate del 1904, i menscevichi, con l'aiuto di Plekhanov e in seguito al tradimento di due bolscevichi degeneri, Krassin e Noskov, si impadronirono della maggioranza del Comitato Centrale. Era evidente che i menscevichi si orientavano verso la scissione. La perdita dell'Iskra e del Comitato Centrale mise i bolscevichi in una situazione difficile. Era evidentemente indispensabile fondare un proprio giornale bolscevico. Era indispensabile organizzare un nuovo congresso, il III Congresso del partito, per formare un nuovo Comitato Centrale del partito e regolare i conti coi menscevichi.
È ciò che intraprese Lenin, è ciò che intrapresero i bolscevichi.
I bolscevichi impegnarono la lotta per la convocazione del III Congresso del partito. Nell'agosto del 1904, si tenne in Svizzera, diretta da Lenin, una conferenza di 22 bolscevichi; la conferenza approvò un messaggio «Al partito» che divenne per i bolscevichi un programma di lotta per la convocazione del III Congresso.
In tre conferenze regionali dei comitati bolscevichi (le conferenze del Sud, del Caucaso e del Nord) fu eletto un «Ufficio dei comitati della maggioranza», che procedette alla preparazione pratica del III Congresso del partito.
Il 4 gennaio 1905 uscì il primo numero del giornale bolscevico Vperiod («Avanti»).
In questo modo si formarono in seno al partito due frazioni distinte - bolscevichi e menscevichi - con i loro centri dirigenti e i loro giornali rispettivi.
 

Conclusioni riassuntive
Nel periodo che corre dal 1901 al 1904, favorite dalla ascesa del movimento operaio rivoluzionario, le organizzazioni socialdemocratiche marxiste in Russia crescono e si rafforzano. In una lotta tenace di principio contro gli «economisti», la linea rivoluzionaria dell'Iskra di Lenin trionfa; la confusione ideologica e i metodi di lavoro primitivi, da artigiani, sono eliminati.
L'lskra collega tra di loro i circoli e i gruppi socialdemocratici dispersi e prepara il II Congresso del partito. In questo congresso nel 1903, si forma il Partito Operaio Socialdemocratico di Russia, si adottano il programma e lo statuto del partito, si formano gli organismi dirigenti centrali del partito.
Nella lotta che si svolge al Il Congresso per la vittoria definitiva della linea iskrista, in seno al P.O.S.D.R. due gruppi si presentano: quello dei bolscevichi e quello dei menscevichi.
Le divergenze essenziali tra bolscevichi e menscevichi, dopo il Il Congresso, si riferiscono alle questioni organizzative.
I menscevichi si ravvicinano agli «economisti» e ne prendono il posto nel partito. L'opportunismo dei menscevichi si manifesta, per il momento, sulle questioni organizzative. I menscevichi sono contro il partito rivoluzionario di lotta di tipo leninista. Essi sono per un partito dai contorni vaghi, per un partito non organizzato, per un partito «codista». Essi applicano una linea scissionistica. Con l'aiuto di Plekhanov, s'impadroniscono dell'Iskra e del Comitato Centrale e utilizzano questi centri per iscopi scissionistici.
Di fronte alla minaccia della scissione da parte dei menscevichi, i bolscevichi prendono provvedimenti per disarmare gli scissionisti: mobilitano le organizzazioni locali per la convocazione del III Congresso e pubblicano il loro giornale Vperiod .
Così, alla vigilia della prima rivoluzione russa, mentre era già cominciata la guerra russo-giapponese, i bolscevichi e i menscevichi si presentavano come gruppi politici distinti l'uno dall'altro.
III.
Menscevichi e bolscevichi durante la guerra russo-giapponese e la prima rivoluzione russa
(1904-1907)

1. La guerra russo-giapponese. Continua l'ascesa del movimento rivoluzionario. Gli scioperi di Pietroburgo. Dimostrazione degli operai dinanzi al Palazzo d'Inverno il 9 gennaio 1905. Massacro dei manifestanti. Inizio della rivoluzione.
Verso la fine del XIX secolo, gli Stati imperialisti impegnarono una lotta accanita per il dominio dell'Oceano Pacifico e la spartizione della Cina. Anche la Russia dello zar partecipò alla lotta. Nel 1900, le truppe zariste, insieme a quelle giapponesi, tedesche, inglesi e francesi, soffocarono, con ferocia inaudita, l'insurrezione popolare in Cina, rivolta soprattutto contro gli imperialisti stranieri. Già in precedenza, il governo dello zar aveva costretto la Cina a cedergli la penisola del Liao - Tung e la fortezza di Port - Arthur, e si era riservato il diritto di costruire delle strade ferrate sul territorio cinese. Nella Manciuria settentrionale fu quindi costruita la linea ferroviaria Orientale - Cinese e vi furono mandate delle truppe russe per difenderla. La Manciuria settentrionale fu, così, occupata militarmente dalla Russia zarista, che tendeva gli artigli sulla Corea. La borghesia russa progettava la fondazione di una «Russia gialla» in Manciuria.
Ma, nel corso delle sue conquiste in Estremo Oriente, lo zarismo cozzò contro un altro predone, il Giappone, che si era rapidamente trasformato in un paese imperialistico e voleva esso pure espandersi nel territorio asiatico, soprattutto a spese della Cina. Il Giappone, del pari che la Russia dello zar, voleva impadronirsi della Corea e della Manciuria; e già sognava la conquista dell'isola Sakhalin e dell'Estremo Oriente. L'Inghilterra, nel timore che la Russia dello zar si rafforzasse in Estremo Oriente, appoggiava in segreto il Giappone. La guerra russo-giapponese era imminente. Il governo zarista vi era spinto dalla grande borghesia avida di nuovi sbocchi, quanto dagli strati più reazionari dei proprietari fondiari.
Il Giappone, senza attendere che il governo dello zar dichiarasse la guerra, aprì le ostilità. Esso disponeva di una larga rete di spionaggio in Russia, e aveva calcolato che in questa lotta si sarebbe trovato di fronte ad un avversario impreparato. E, senza dichiarare la guerra, nel gennaio del 1904, attaccò all'improvviso la fortezza russa di Port Arthur, infliggendo gravi perdite alla flotta russa che vi si trovava.
Così incominciò la guerra russo- giapponese.
Il governo dello zar calcolava che la guerra l'avrebbe aiutato a consolidare la sua situazione politica e ad arrestare la rivoluzione. Ma aveva fatto i conti senza l'oste. La guerra scosse ancor più lo zarismo.
Male armato e male istruito, guidato da generali venduti e incapaci, l'esercito russo subì una sconfitta dopo l'altra.
La guerra arricchì i capitalisti, gli alti funzionari, i generali: dappertutto si rubava a man bassa. Le truppe erano male equipaggiate e, mentre mancava di munizioni, l'esercito, come per beffa, riceveva vagoni di icone. I soldati dicevano con amarezza: «I giapponesi ci tirano del piombo e noi rispondiamo con delle icone». E anzi che evacuare i feriti, treni speciali trasportavano il bottino rubato dai generali dello zar.
I giapponesi investirono, e in seguito occuparono, la fortezza di Port Athur. Sconfitto più volte l'esercito dello zar, lo misero in rotta presso Mukden. L'esercito dello zar, composto di 300 mila uomini, ne perdette in quella battaglia circa 120 mila fra morti, feriti e prigionieri. Seguì, nello stretto di Zusima, la completa disfatta, lo sfacelo della flotta russa, fatta salpare dal Baltico in aiuto all'assediata Port Arthur. La sconfitta di Zusima fu una vera catastrofe: di 20 navi da guerra inviate dallo zar, 13 furono affondate e distrutte, 4 catturate. Ormai, la guerra era definitivamente perduta per la Russia dello zar.
Il governo zarista fu costretto a concludere una pace vergognosa e il Giappone occupò la Corea e si fece cedere Port Arthur e metà dell'isola di Sakhalin.
Le masse popolari non avevano voluto quella guerra e sapevano quale danno recava alla Russia: il popolo pagava a caro prezzo l'arretratezza della Russia zarista!
Di fronte alla guerra russo-giapponese, l'atteggiamento dei bolscevichi e dei menscevichi non fu Io stesso.
I menscevichi compreso Trotzki, scivolarono su posizioni guerrafondaie, cioè erano disposti a difendere la «patria» dello zar, dei proprietari fondiari e dei capitalisti.
Lenin e i bolscevichi, al contrario, ritenevano utile la sconfitta del governo zarista, in quella guerra brigantesca, perché avrebbe indebolito lo zarismo e rafforzato la rivoluzione.
Le sconfitte delle truppe zariste svelarono alle grandi masse popolari tutta la putredine dello zarismo. L'odio delle grandi masse del popolo verso lo zarismo cresceva di giorno in giorno. La caduta di Port Arthur, scriveva Lenin, rappresenta l'inizio della caduta dell'autocrazia.
Lo zar, volendo, con la guerra, soffocare la rivoluzione raggiunse il risultato opposto. La guerra russo-giapponese affrettò la rivoluzione.
Nella Russia d'allora, l'oppressione capitalistica era resa ancor più dura dai ceppi zaristi. Gli operai languivano non solo sotto il peso dello sfruttamento capitalistico e del lavoro da forzati a cui erano sottoposti, ma anche sotto il peso del regime autocratico che gravava su tutto il popolo. Ecco perché gli operai coscienti cercavano di porsi alla testa del movimento rivoluzionario contro lo zarismo di tutti gli elementi democratici, nelle città e nelle campagne. La fame di terra, i numerosi residui della servitù della gleba attanagliavano i contadini, in balìa dei proprietari fondiari e dei kulak. I popoli non russi, imprigionati nell'impero dello zar, erano curvi sotto il duplice giogo dei proprietari e dei capitalisti russi e non russi. La crisi economica del 1900-1903 aveva acuito le sofferenze delle masse lavoratrici; la guerra le aveva aggravate ancora. Le sconfitte militari esasperavano nelle masse l'odio contro lo zarismo. Il popolo non ne poteva più.
Vi erano dunque cause più che sufficienti per lo scoppio della rivoluzione.
Nel dicembre del 1904, diretto dal Comitato bolscevico della città, scoppiò uno sciopero grandioso e ben preparato degli operai di Bakù. Il movimento si chiuse con la vittoria degli scioperanti, che, per i primi nella storia del movimento operaio della Russia, stipularono un contratto collettivo di lavoro con gli industriali del petrolio.
Lo sciopero di Bakù segnò l'inizio dell'ascesa rivoluzionaria nella Transcaucasia e in parecchie regioni della Russia.
 
Lo sciopero di Bakù fu il segnale per i movimenti gloriosi di gennaio-febbraio che si svolsero in tutta la Russia. (Stalin ).
 
Quello sciopero fu come il lampo preannunciatore della burrasca alla vigilia della grande tempesta.
Il 3 (16) gennaio 1905, gli operai della grande officina Putilov (ora officina Kirov), di Pietroburgo, si posero in isciopero, in seguito al licenziamento di quattro loro compagni di lavoro, e furono sostenuti da altre fabbriche e officine di Pietroburgo. Lo sciopero divenne generale. Il governo dello zar decise di soffocare fin dall'inizio il movimento fattosi minaccioso.
Già nel 1904, cioè prima dello sciopero alla Putilov, la polizia aveva creato, con la complicità di un provocatore, il pope Gapon, una propria organizzazione tra gli operai, la «Riunione degli operai russi d'officina». Questa organizzazione aveva costituito le sue sezioni in tutti i rioni di Pietroburgo. Scoppiato lo sciopero, il pope Gapon, nelle assemblee della sua associazione, propose un piano provocatorio: il 9 gennaio, tutti gli operai si sarebbero dovuti recare in processione pacifica al Palazzo d'Inverno, portando stendardi religiosi e ritratti dello zar, per consegnargli una petizione che esponesse i loro bisogni. Lo zar - diceva Gapon - si sarebbe mostrato al popolo, avrebbe ascoltato le sue rivendicazioni e le avrebbe soddisfatte. Gapon si proponeva di aiutare l'Okhrana zarista: provocare un eccidio e soffocare nel sangue il movimento. Ma il piano poliziesco si ritorse contro il governo dello zar.
La petizione venne discussa nelle riunioni operaie, che vi apportarono emendamenti e modificazioni. E in quelle riunioni i bolscevichi presero anch'essi la parola, senza dichiararsi apertamente tali. Essi fecero sì che dalla petizione fossero rivendicate anche la libertà di parola e di stampa, la libertà sindacale, la convocazione di un'Assemblea costituente destinata a modificare il regime politico della Russia, l'eguaglianza di tutti di fronte alle leggi, la separazione della Chiesa dallo Stato; la cessazione della guerra, le 8 ore di lavoro, la terra ai contadini.
In quelle riunioni, i bolscevichi dimostravano agli operai che la libertà non si ottiene con qualche petizione allo zar, ma si conquista con le armi alla mano. I bolscevichi mettevano in guardia gli operai, li avvertivano che si stava preparando il loro eccidio. Ma non riuscirono ad impedire la processione al Palazzo d'Inverno. Moltissimi operai credevano ancora che lo zar li avrebbe aiutati. Il movimento trascinava irresistibilmente le masse.
La petizione diceva:
 
Noi, operai di Pietroburgo, le nostre donne, i nostri bambini e i nostri vecchi genitori privi di qualsiasi aiuto, siamo venuti a chiederti, Sovrano, giustizia e protezione. Noi siamo ridotti all'estrema miseria, siamo oppressi, siamo sottoposti ad un lavoro superiore alle nostre forze, siamo maltrattati, non siamo considerati come uomini... Noi abbiamo sofferto in silenzio, ma ci spingono sempre più in basso, nel baratro della miseria, della servitù, dell'ignoranza; il dispotismo e l'arbitrio ci soffocano... La nostra pazienza è esaurita. Per noi è giunto quel terribile momento, in cui è meglio morire che soffrire ancora questi insopportabili tormenti....
 
Il 9 (22) gennaio 1905, all'alba, gli operai si avviarono al Palazzo d'Inverno, dove si trovava allora lo zar. Gli operai si recavano dallo zar con le loro famiglie: donne, bimbi e vecchi; portavano ritratti dello zar e stendardi religiosi, cantavano preghiere ed erano inermi. Più di 140 mila persone erano discese nelle strade.
Ma Nicola II fece loro ostile accoglienza. Ordinò di sparare sugli operai inermi. Più di mille operai caddero quel giorno uccisi dalle truppe dello zar, più di duemila furono i feriti. Le strade di Pietroburgo erano un mare di sangue operaio.
I bolscevichi avevano marciato con gli operai e molti furono uccisi o arrestati. Nelle stesse strade, inondate dal sangue operaio, essi spiegavano agli operai chi era il responsabile di quella spaventosa strage e come si doveva lottare contro di lui.
Da allora, il 9 gennaio venne chiamato «la domenica sanguinosa». Gli operai avevano ricevuto una lezione tremenda. Ciò che si era spento a fucilate in quel giorno era la fiducia degli operai nello zar. Da quel giorno essi compresero che solo con la lotta potevano conquistare i loro diritti. Nella sera stessa del 9 gennaio, delle barricate si innalzarono nei quartieri operai. Gli operai dicevano: «Lo zar ce le ha date, ma noi gliele renderemo!».
La notizia tremenda della strage sanguinosa perpetrata dallo zar si diffuse fulminea ovunque. La classe operaia, tutto il paese fremettero di indignazione e di orrore. Non vi fu città ove gli operai non scioperassero in segno di protesta contro il delitto dello zar e non formulassero delle rivendicazioni politiche. Gli operai scendevano in piazza al grido di «Abbasso l'autocrazia». Nel gennaio fu raggiunto il numero altissimo di 440 mila scioperanti. In un mese scioperarono più operai che nei dieci anni precedenti. La marea operaia ingrossava e saliva.
In Russia era incominciata la rivoluzione.
 

2. Scioperi politici e dimostrazioni operaie. L'ondata del movimento rivoluzionario contadino. Rivolta sulla corazzata «Potiomkin».
Dopo il 9 gennaio, la lotta rivoluzionaria degli operai si inasprì, assumendo un carattere politico. Dagli scioperi economici e dagli scioperi di solidarietà, gli operai passavano agli scioperi politici, alle dimostrazioni e, in alcune località, alla resistenza armata contro le truppe dello zar. Particolarmente ben organizzati e accaniti furono gli scioperi nelle grandi città, dove si addensavano masse considerevoli di operai: a Pietroburgo, Mosca, Varsavia, Riga e Bakù. I metallurgici erano nelle prime file del proletariato in lotta. Gli operai d'avanguardia incitavano con i loro scioperi gli strati operai meno avanzati, spingevano alla lotta tutta la classe operaia. L'influenza della socialdemocrazia andò rapidamente crescendo.
Le dimostrazioni del 1° Maggio furono seguite, in parecchie località, da conflitti con la polizia e con la truppa. A Varsavia, una dimostrazione venne repressa nel sangue: vi furono alcune centinaia di morti e feriti. Al massacro di Varsavia, gli operai, accogliendo l'appello della socialdemocrazia polacca, risposero con uno sciopero generale di protesta. Durante tutto il mese di maggio, gli scioperi e le dimostrazioni si susseguirono ininterrotte. Vi parteciparono più di 200 mila operai. Scioperi generali di operai avvennero a Bakù, Lodz, Ivanovo-Voznessensk. Sempre più sovente, gli scioperanti e i dimostranti si scontravano con le truppe dello zar. I conflitti scoppiavano in molte città: a Odessa, Varsavia, Riga, Lodz, ecc.
Asprissima fu la lotta a Lodz, grande centro industriale polacco. Gli abitanti della città innalzarono decine di barricate nelle strade e combatterono per tre giorni (22-24 giugno 1905) contro le truppe dello zar. La lotta armata si unì allo sciopero generale, Lenin giudicò quelle lotte come la prima azione armata degli operai in Russia.
Tra gli scioperi di quell'estate, particolare importanza ebbe lo sciopero di Ivanovo-Voznessensk che durò dalla fine di maggio al principio di agosto del 1905, ossia quasi due mesi e mezzo. Vi parteciparono circa 70 mila operai tra cui molte donne. Era diretto dal Comitato bolscevico del Nord. Quasi giornalmente, alla periferia, sulla riva del fiume Talka, migliaia di operai si radunavano per discutere sulle loro esigenze, e in quelle riunioni i bolscevichi prendevano la parola. Per soffocare lo sciopero, le autorità zariste ordinarono di disperdere gli operai, facendo uso delle armi. Vi furono diverse decine di morti e alcune centinaia di feriti. Nella città si proclamò lo stato d'assedio, ma gli operai resistettero coraggiosamente e non ripresero il lavoro. Soffrirono la fame con le loro famiglie, ma non si arresero. E ripresero il lavoro solo quando furono ridotti all'estremo. Lo sciopero li aveva temprati, ne aveva dimostrato il coraggio, la fermezza, la compattezza, la solidarietà ed era stato per questi operai una vera scuola di educazione politica.
Durante lo sciopero, gli operai di Ivanovo-Voznessensk avevano costituito un Soviet di delegati, che fu di fatto uno dei primi Soviet dei deputati operai in Russia.
Gli scioperi politici operai misero in moto tutto il paese.
Dopo le città, anche le campagne si sollevarono. In primavera cominciarono i movimenti contadini. Raccoltisi in masse enormi, i contadini marciavano contro i proprietari fondiari, saccheggiandone i poderi, le raffinerie di zucchero e di alcool, incendiandone le ville e le proprietà. In molte località, occupavano le terre dei proprietari fondiari, abbattevano i boschi, esigevano che le terre dei grandi proprietari fondiari fossero date al popolo, si impadronivano del grano e di altre derrate e le spartivano tra gli affamati. In preda allo spavento, i proprietari fondiari si rifugiavano nelle città. Il governo zarista inviava soldati e cosacchi a soffocare le rivolte contadine. Avvenivano molti eccidi; gli «istigatori» erano arrestati, staffilati e torturati, ma i contadini continuavano la lotta.
Il movimento contadino si estendeva sempre più nel centro della Russia, nel bacino del Volga, nella Transcaucasia, soprattutto in Georgia.
I socialdemocratici penetravano sempre più nelle più sperdute campagne. Il Comitato Centrale del partito aveva lanciato un proclama ai contadini: «Contadini! È a voi che rivolgiamo la nostra parola!». I comitati socialdemocratici di Tver, Saratov, Poltava, Cernigov, Iekaterinoslaw, Tiflis e di molti altri governatorati lanciarono degli appelli ai contadini. Nelle campagne i socialdemocratici organizzavano riunioni, circoli e comitati di contadini. Nell'estate del 1905, scoppiarono, in diverse località, parecchi scioperi di operai agricoli, organizzati dai socialdemocratici.
Ma la lotta dei contadini era soltanto all'inizio. Il movimento contadino non s'era esteso che a 85 distretti, ossia pressappoco ad un settimo dei distretti della Russia europea.
Il movimento operaio e contadino e le numerose sconfitte subìte nella guerra russo-giapponese, ebbero la loro influenza anche sull'esercito. Questo baluardo dello zarismo cominciò a vacillare.
Nel giugno del 1905, scoppiò una rivolta nella flotta del Mar Nero, sulla corazzata «Potiomkin». La corazzata era ancorata non lungi da Odessa, dove era scoppiato lo sciopero generale. I marinai in rivolta aggiustarono i conti con gli ufficiali più odiati e diressero la corazzata nel porto di Odessa, passando dalla parte della rivoluzione.
Lenin dava a quella rivolta un'immensa importanza. Egli considerava indispensabile che i bolscevichi ne assumessero la direzione e la collegassero con il movimento degli operai, dei contadini e delle guarnigioni locali.
Lo zar inviò contro il «Potiomkin» diverse navi da guerra, ma i marinai si rifiutarono di sparare sui loro compagni insorti. Per alcuni giorni sulla corazzata «Potiomkin» sventolò la rossa bandiera della rivoluzione. Ma allora, nel 1905, il partito bolscevico non era il solo partito che dirigesse il movimento, come avvenne più tardi, nel 1917. Sul «Potiomkin» si trovavano molti menscevichi, socialisti-rivoluzionari e anarchici. Perciò questa rivolta, sebbene alcuni socialdemocratici vi partecipassero, mancava di una buona direzione, sufficientemente capace. Una parte dei marinai, al momento decisivo, esitò e le altre navi della flotta del Mar Nero non si unirono alla corazzata in rivolta. Mancando di carbone e di viveri, la corazzata rivoluzionaria fu costretta ad approdare in Romania, consegnandosi alle autorità del luogo.
La rivolta dei marinai sulla corazzata «Potiomkin» si concluse con la sconfitta. I marinai che caddero, in seguito, nelle mani del governo zarista, furono processati; alcuni furono condannati a morte, altri ai lavori forzati. Ma il fatto stesso della rivolta ebbe un'importanza immensa. Era il primo movimento rivoluzionario di massa nell'esercito e nella flotta. Era la prima volta che un'unità importante delle truppe zariste passava dalla parte della rivoluzione. Agli operai, ai contadini e soprattutto alle masse dei soldati e dei marinai la rivolta rese più comprensibile e più familiare l'idea che l'esercito e la flotta dovevano unirsi alla classe operaia, al popolo.
Il passaggio degli operai agli scioperi e alle dimostrazioni politiche di massa, il dilagare del movimento contadino, i conflitti armati del popolo con la polizia e le truppe e, infine, la rivolta nella flotta del Mar Nero, - tutto ciò costituiva la prova che le condizioni per l'insurrezione armata del popolo stavano maturando. La borghesia liberale fu quindi costretta a muoversi seriamente. Spaventata dalla rivoluzione, ma volendo contemporaneamente intimidire lo zar con la minaccia della rivoluzione, cercava con lui un accordo contro la rivoluzione e reclamava alcune piccole riforme «per il popolo», per «calmare» il popolo, per scindere le forze della rivoluzione e prevenire così gli «orrori della rivoluzione». «Bisogna spezzettare della terra per i contadini, sennò saremo noi ad essere fatti a pezzi», dicevano i proprietari fondiari liberali. La borghesia liberale si preparava a dividere il potere con lo zar. Il proletariato lotta, la borghesia si insinua verso il potere», scriveva Lenin in quei giorni, a proposito della tattica della classe operaia e della tattica della borghesia liberale.
Il governo dello zar continuava le repressioni contro gli operai e i contadini con selvaggia crudeltà. Ma non poteva non vedere che le sole repressioni non avrebbero domato la rivoluzione. Perciò, oltre che alle repressioni, ricorse a una politica di manovre. Da un lato, con l'aiuto dei provocatori, aizzava gli uni contro gli altri i popoli della Russia e organizzava i pogrom contro gli ebrei e i massacri armeno-tartari; dall'altro, prometteva di convocare un «organo rappresentativo», come uno Zemski Sobor [Assemblea dei rappresentanti delle caste che veniva convocata nei secoli XVI e XVII per essere consultata dal governo] o una Duma di Stato. Il ministro Bulyghin fu infatti incaricato di elaborare il progetto per questa Duma, la quale, però, non avrebbe dovuto avere poteri legislativi. Tutti questi provvedimenti miravano solo a dividere le forze della rivoluzione e a distaccarne gli strati moderati del popolo.
I bolscevichi chiamarono al boicottaggio della Duma di Bulyghin, ponendosi lo scopo di far abortire quella caricatura di rappresentanza popolare.
I menscevichi invece avevano deciso di non sabotare la Duma, e avevano considerato necessario parteciparvi.
 

3. Le divergenze tattiche tra bolscevichi e menscevichi. Il III Congresso del partito. Il libro di Lenin «Le due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica». I princìpi tattici del partito marxista.
La rivoluzione aveva messo in moto tutte le classi sociali. La svolta provocata dalla rivoluzione nella vita politica del paese le aveva smosse dalle loro vecchie posizioni tradizionali e le aveva spinte a raggrupparsi secondo la nuova situazione. Ogni classe, ogni partito si sforzava di stabilire la propria tattica, la linea di condotta, i rapporti con le altre classi, col governo. Perfino il governo dello zar fu costretto ad adottare una tattica nuova ben lontana dalle sue abitudini, promettendo di convocare un «organo rappresentativo», la Duma di Bulyghin.
Anche il partito socialdemocratico doveva elaborare la propria tattica. Lo imponeva l'ascesa sempre più vigorosa della rivoluzione. Lo imponevano le questioni pratiche che si ponevano con urgenza di fronte al proletariato: organizzazione dell'insurrezione armata, rovesciamento del governo zarista, formazione di un governo rivoluzionario provvisorio, partecipazione della socialdemocrazia a questo governo, atteggiamento da assumere verso i contadini, verso la borghesia liberale, ecc. Era indispensabile elaborare una tattica socialdemocratica marxista, unica, frutto di mature riflessioni.
Ma l'opportunismo e l'azione scissionistica dei menscevichi fecero sì che la socialdemocrazia della Russia si trovasse, in quel periodo, divisa in due frazioni. Senza dubbio, la scissione non si poteva ancora considerare come completa; le due frazioni infatti non erano ancora ufficialmente due partiti distinti, ma in realtà ne avevano quasi tutte le caratteristiche, possedendo ognuna il proprio centro direttivo e i propri giornali.
Il fatto che alle vecchie divergenze con la maggioranza del partito sui problemi d'organizzazione , i menscevichi avevano aggiunto nuove divergenze sulle questioni tattiche , approfondiva la scissione.
Dalla mancanza di un partito unico derivava la mancanza di una tattica unica.
Per trovare una soluzione a questo stato di cose, era necessario convocare d'urgenza il III Congresso ordinario del partito, stabilire al congresso una tattica unica e costringere la minoranza ad applicare onestamente le decisioni del congresso e a sottomettersi alle decisioni della maggioranza. I bolscevichi ne fecero la proposta ai menscevichi. Ma costoro non volevano sentir parlare di III Congresso. Cosicché, ritenendo che sarebbe stato delittuoso lasciare più a lungo il partito senza una tattica approvata e obbligatoria per tutti i suoi iscritti, i bolscevichi decisero di prendere l'iniziativa della convocazione del III Congresso.
Al III Congresso vennero convocate tutte le organizzazioni del partito, bolsceviche e mensceviche. Ma i menscevichi si rifiutarono di parteciparvi e decisero di convocare un congresso proprio, al quale, dato il piccolo numero dei delegati, dettero il nome di conferenza, mentre di fatto era un congresso, il congresso del partito menscevico, le cui decisioni erano considerate obbligatorie per tutti i menscevichi.
Nell'aprile del 1905, si riunì a Londra il III Congresso del Partito socialdemocratico di Russia, a cui parteciparono 24 delegati di 20 comitati bolscevichi. Tutte le organizzazioni importanti del partito vi erano rappresentate.
Il congresso, dopo aver condannato i menscevichi come «una parte dissidente del partito», passò all'esame dei problemi posti all'ordine del giorno allo scopo di stabilire la tattica del partito.
Contemporaneamente al Congresso di Londra, si svolgeva a Ginevra la conferenza dei menscevichi.
«Due congressi - due partiti», così Lenin aveva definito la situazione.
Tanto il congresso che la conferenza, discussero, in sostanza, le stesse questioni tattiche, ma le decisioni prese furono assolutamente opposte. Le due serie di risoluzioni, approvate dal congresso e dalla conferenza, rivelarono quanto profonde fossero le divergenze tattiche tra il III Congresso del partito e la conferenza dei menscevichi, tra bolscevichi e menscevichi.
Ecco i punti essenziali di queste divergenze.
Linea tattica del III Congresso del partito. - Il congresso diceva: nonostante il carattere democratico-borghese della rivoluzione in corso, e sebbene essa non possa, in questo momento, uscire dal quadro di ciò che è possibile sotto il capitalismo, alla sua vittoria totale è interessato innanzi tutto il proletariato, poiché la vittoria di questa rivoluzione deve dare al proletariato la possibilità di organizzarsi, di elevarsi politicamente, di acquistare l'esperienza e la pratica della direzione politica delle masse lavoratrici e di passare dalla rivoluzione borghese alla rivoluzione socialista.
La tattica del proletariato, che mira alla piena vittoria della rivoluzione democratica-borghese può essere appoggiata solo dai contadini, giacché questi non possono né vincere i proprietari fondiari né impadronirsi dei loro fondi, senza la vittoria completa della rivoluzione. I contadini sono, quindi, gli alleati naturali del proletariato.
La borghesia liberale non è interessata alla vittoria completa di questa rivoluzione, dato che essa ha bisogno del potere zarista per servirsene come di uno staffile contro gli operai e i contadini che essa teme più di ogni altra cosa. La borghesia liberale si sforzerà quindi di conservare il potere dello zar, limitandone un po' le prerogative. La borghesia liberale si sforzerà di risolvere il problema mediante un'intesa con lo zar, sulla base di una monarchia costituzionale.
La rivoluzione vincerà solo se il proletariato si metterà alla sua testa; se il proletariato, come capo della rivoluzione, saprà assicurarsi l'alleanza con i contadini; se la borghesia liberale sarà isolata; se la socialdemocrazia parteciperà attivamente all'organizzazione dell'insurrezione popolare contro lo zarismo; se sarà creato, in seguito alla vittoria dell'insurrezione, un governo rivoluzionario provvisorio, capace di sradicare la controrivoluzione e di riunire l'Assemblea costituente di tutto il popolo; se la socialdemocrazia non si rifiuterà, le condizioni permettendolo, di partecipare al governo rivoluzionario provvisorio, per condurre fino in fondo la rivoluzione.
Linea tattica della conferenza menscevica. - Siccome si tratta di una rivoluzione borghese, solo la borghesia liberale può esserne il capo. Il proletariato non deve avvicinarsi ai contadini, ma alla borghesia liberale. Ciò che importa soprattutto è che non spaventi la borghesia liberale col suo spirito rivoluzionario e che non le dia un pretesto per distaccarsi dalla rivoluzione, perché in tal caso, la rivoluzione s'indebolirà.
È possibile che l'insurrezione sia vittoriosa, ma la socialdemocrazia, dopo la vittoria dell'insurrezione, deve mettersi in disparte, per non spaventare la borghesia liberale. È possibile che, in seguito all'insurrezione, sia creato un governo rivoluzionario provvisorio, ma la socialdemocrazia non potrà parteciparvi in nessun caso, dato che tale governo non avrà un carattere socialista e che, soprattutto, con la partecipazione e con il suo spirito rivoluzionario, la socialdemocrazia potrebbe spaventare la borghesia liberale e compromettere in tal modo la rivoluzione.
Dal punto di vista delle prospettive della rivoluzione, sarebbe preferibile che fosse convocato qualche organo rappresentativo come uno Zemski sobor o una Duma di Stato, sul quale la classe operaia potrebbe premere dal di fuori, per trasformarlo in un'Assemblea costituente o per spingerlo a convocare questa Assemblea.
Il proletariato ha i suoi interessi particolari, prettamente operai; e dovrebbe occuparsi precisamente di questi interessi e non aspirare a divenire il capo della rivoluzione borghese, che è una rivoluzione politica generale e riguarda, quindi, tutte le classi e non il solo proletariato.
Queste, in breve, le due tattiche delle due frazioni del Partito Operaio Socialdemocratico di Russia.
La critica classica della tattica dei menscevichi e la dimostrazione geniale della giustezza della tattica bolscevica sono esposte da Lenin nel suo storico libro: «Due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica».
Questo libro fu pubblicato nel luglio del 1905, ossia due mesi dopo il III Congresso del partito. Dal titolo del libro, si potrebbe pensare che Lenin vi esamini solo le questioni tattiche che si riferiscono al periodo della rivoluzione democratico-borghese, ed ai menscevichi russi. Ma, in realtà, criticando la tattica dei menscevichi, egli denuncia, al tempo stesso, la tattica dell'opportunismo internazionale. Inoltre, gettando le basi della tattica dei marxisti nel periodo della rivoluzione borghese e distinguendo la rivoluzione borghese dalla rivoluzione socialista, egli formula, in pari tempo, i princìpi della tattica marxista nel periodo di transizione della rivoluzione borghese alla rivoluzione socialista.
Ecco i princìpi tattici fondamentali sviluppati da Lenin nella sua opera: «Due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica».
1. - Il principio tattico essenziale che ispira tutto il libro di Lenin risiede nell'idea che il proletariato può e deve essere il capo della rivoluzione democratico-borghese, il dirigente della rivoluzione democratico-borghese in Russia.
Lenin riconosceva il carattere borghese di quella rivoluzione, dato che essa, come egli scriveva, «non era capace di uscire direttamente dal quadro di una rivoluzione semplicemente democratica». Egli considerava però che non si trattava di una rivoluzione degli strati superiori ma di una rivoluzione popolare, che metteva in moto tutto il popolo, tutta la classe operaia, tutti i contadini. Perciò, i tentativi dei menscevichi di diminuire l'importanza per il proletariato della rivoluzione borghese, di abbassare le funzioni del proletariato nella rivoluzione stessa e di tenerlo in disparte, erano considerati da Lenin come un tradimento degli interessi del proletariato.
 
Il marxismo - scriveva Lenin - insegna al proletario non ad appartarsi dalla rivoluzione borghese, a rimanere indifferente nei suoi riguardi, a lasciarne la direzione alla borghesia, ma, al contrario, a parteciparvi nel modo più energico, a lottare nel modo più deciso per il democratismo proletario conseguente, per condurre fino in fondo la rivoluzione. (Lenin - «Opere», vol. VIII, pag. 58 ed. russa).
Noi non dobbiamo dimenticare - scriveva più avanti Lenin - che oggi il solo mezzo per affrettare il socialismo è, e non può che essere, la completa libertà politica, una repubblica democratica. (Ibidem , pag. 104).
 
Lenin prevedeva due possibili soluzioni della rivoluzione:
1) o la vittoria decisiva sullo zarismo, l'abbattimento dello zarismo e l'instaurazione della repubblica democratica;
2) o, se le forze non bastassero, una conciliazione dello zar colla borghesia a spese del popolo, a mezzo di una costituzione mutilata o, piuttosto, di una caricatura di costituzione.
Il proletariato era interessato alla soluzione migliore, ossia alla vittoria definitiva sullo zarismo. Ma essa era possibile solo se il proletariato sapeva diventare il capo, il dirigente della rivoluzione.
 
L'esito della rivoluzione - scriveva Lenin - dipende da ciò: rivestirà la classe operaia la funzione di un ausiliario della borghesia, di un ausiliario potente nell'assalto all'autocrazia, ma politicamente impotente; oppure quella di dirigente della rivoluzione popolare? (Ibidem , pag. 32).
 
Lenin considerava che il proletariato aveva tutte le possibilità di sfuggire alla sorte di ausiliario della borghesia e di diventare il dirigente della rivoluzione democratico-borghese. Queste possibilità, secondo Lenin, erano le seguenti:
In primo luogo, «il proletariato, essendo, per la sua situazione, la classe rivoluzionaria più avanzata e la sola conseguente, è destinato, per questo fatto stesso, a svolgere una funzione dirigente nel movimento rivoluzionario democratico generale della Russia». (Ibidem , pag. 75).
In secondo luogo, il proletariato ha il suo partito politico, indipendente dalla borghesia, partito che gli dà la possibilità di raggrupparsi «in una forza politica unita e indipendente». (Ibidem , pag. 75).
In terzo luogo, il proletariato è più interessato della borghesia alla vittoria decisiva della rivoluzione; perciò «la rivoluzione borghese è, in un certo senso, più vantaggiosa , al proletariato che alla borghesia» (Ibidem , pag. 57).
 
È utile per la borghesia - scriveva Lenin - di appoggiarsi su alcuni residui del passato contro il proletariato, ad esempio sulla monarchia, sull'esercito permanente, ecc. Alla borghesia è utile che la rivoluzione borghese non spazzi via troppo risolutamente tutti i residui del passato, ma ne lasci sussistere qualcuno, ossia che la rivoluzione non sia del tutto conseguente e completa, non sia risoluta ed implacabile... Per la borghesia, è più utile che le trasformazioni necessarie, nel senso della democrazia borghese, avvengano più lentamente, più gradualmente, più prudentemente, meno risolutamente, per mezzo di riforme, e non con una rivoluzione... che queste trasformazioni contribuiscano il meno possibile a sviluppare l'azione rivoluzionaria, l'iniziativa e l'energia della plebe, ossia dei contadini e soprattutto degli operai. Perché, altrimenti, sarebbe tanto più facile agli operai «passare il fucile da una spalla all'altra», come dicono i francesi, ossia rivolgere contro la stessa borghesia le armi che la rivoluzione borghese fornirebbe loro, le libertà che essa darebbe, le istituzioni democratiche sorte sul terreno sbarazzato dal servaggio. Per la classe operaia, al contrario, è più utile che le trasformazioni necessarie nel senso della democrazia borghese si realizzino, non per mezzo delle riforme, ma con la rivoluzione, perché la via delle riforme è la via degli indugi, delle tergiversazioni e della morte lenta e dolorosa delle parti incancrenite dell'organismo nazionale. Il proletariato e i contadini soffrono della cancrena per i primi e più di tutti. La via della rivoluzione è la via dell'operazione chirurgica più rapida, meno dolorosa per il proletariato, quella che consiste nell'amputare risolutamente la parte cancrenosa, la via del minimo di concessioni e di riguardi verso la monarchia e le sue istituzioni infami, abbiette e cancrenose, il cui fetore appesta l'atmosfera. (Ibidem , pagg. 57-58).
Ecco perché - continuava Lenin - il proletariato lotta nelle prime file per la repubblica, respingendo con disprezzo il consiglio sciocco e indegno di temere una possibile defezione della borghesia. (Ibidem , pag. 94).
 
Perché le possibilità di una direzione proletaria si trasformino in realtà , perché il proletariato diventi realmente il capo, il dirigente della rivoluzione borghese, sono necessarie, secondo Lenin, almeno due condizioni.
È necessario, in primo luogo, che il proletariato abbia un alleato interessato alla vittoria decisiva sullo zarismo e propenso ad accettare la direzione proletaria. Ciò era richiesto dal concetto stesso di direzione, perché il dirigente cessa di essere un dirigente se non ha nessuno da dirigere, il capo cessa di essere un capo se non ha nessuno da guidare. I contadini erano, secondo Lenin, questo alleato.
È necessario, in secondo luogo, che la classe che contende al proletariato la direzione della rivoluzione e vuol esserne l'unico dirigente, sia scartata dalla direzione e isolata. Ciò era richiesto anche dal concetto stesso di direzione, che esclude la possibilità di due dirigenti nella rivoluzione. Questa classe era, secondo Lenin, la borghesia liberale.
 
Solo il proletariato - scriveva Lenin - può combattere in modo conseguente per la democrazia. Ma potrà vincere in questo combattimento solo se le masse contadine si uniranno alla sua lotta rivoluzionaria. (Ibidem , pag. 65).
 
E più avanti:
 
Tra i contadini vi è una massa di elementi semiproletari accanto a elementi piccolo-borghesi. Ciò li rende pure essi instabili, obbligando il proletariato a raggrupparsi in un partito di classe rigorosamente definito. Ma l'instabilità dei contadini differisce in modo radicale dell'instabilità della borghesia, perché essi, nel momento attuale, sono interessati non tanto alla conservazione assoluta della proprietà privata, quanto alla confisca delle terre dei proprietari fondiari, una delle forme principali di questa proprietà. Senza diventare con ciò socialisti, senza cessare di essere piccolo-borghesi, i contadini possono diventare dei seguaci decisi e tra i più radicali della rivoluzione democratica. Essi lo diventeranno inevitabilmente, purché la marcia degli avvenimenti rivoluzionari che li stanno educando non sia interrotta troppo presto dal tradimento della borghesia e dalla disfatta del proletariato. A questa condizione, i contadini diventeranno certamente il baluardo della rivoluzione e della repubblica, perché solo una rivoluzione completamente vittoriosa potrà dar loro tutto nel dominio delle riforme agrarie, tutto ciò che essi desiderano, che sognano, che è loro veramente indispensabile. (Ibidem , pagg. 94-95).
 
Analizzando le obiezioni dei menscevichi i quali pretendevano che questa tattica dei bolscevichi «avrebbe obbligato le classi borghesi ad allontanarsi dalla rivoluzione e ne avrebbe quindi ristretto l'ampiezza», e definendole come «una tattica di tradimento della rivoluzione», come una «tattica trasformante il proletariato in una miserevole appendice delle classi borghesi», Lenin scriveva:
 
Chi comprende veramente la funzione dei contadini nella rivoluzione russa vittoriosa, non dirà mai che l'ampiezza della rivoluzione si restringerà quando la borghesia se ne sarà allontanata. Perché la rivoluzione russa si svilupperà veramente nel modo più ampio e raggiungerà veramente la massima ampiezza possibile nell'epoca della rivoluzione democratico borghese, solo quando la borghesia se ne sarà allontanata e quando i contadini, a fianco del proletariato, vi assumeranno una funzione rivoluzionaria attiva. Affinché la nostra rivoluzione democratica sia condotta sino in fondo e in modo conseguente, deve basarsi su forze capaci di paralizzare l'inevitabile inconseguenza della borghesia, ossia capaci precisamente di «obbligarla ad allontanarsene». (Ibidem , pagg. 95-96).
 
Questo è il principio tattico fondamentale riguardante il proletariato come capo della rivoluzione borghese, il principio tattico essenziale sull'egemonia (funzione dirigente) del proletariato nella rivoluzione borghese, principio sviluppato da Lenin nel suo libro «Due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica».
Questa era la nuova posizione del partito marxista sui problemi della tattica durante la rivoluzione democratico-borghese, posizione fondamentalmente distinta dalle concezioni tattiche preesistenti nell'arsenale marxista. Fino a quel tempo le cose si erano presentate così: nelle rivoluzioni borghesi, per esempio in Occidente, la direzione era esercitata dalla borghesia, mentre il proletariato, volente o nolente, era l'ausiliario e i contadini la riserva della borghesia. I marxisti consideravano più o meno inevitabile una tale situazione, con la riserva, però, che il proletariato doveva difendere il più possibile le proprie rivendicazioni immediate di classe e possedere un proprio partito politico. Ma ora, nella nuova situazione storica, le cose, secondo la concezione di Lenin, si presentavano così: il proletariato diveniva la forza dirigente della rivoluzione borghese; la borghesia era sempre più scartata dalla direzione della rivoluzione, mentre i contadini si trasformavano in una riserva del proletariato.
L'affermazione che Plekhanov «era anche lui» per l'egemonia del proletariato è basata su di un malinteso. Plekhanov civettava con l'idea dell'egemonia del proletariato e non mancava di riconoscerla a parole: ciò è vero; ma, in realtà, era contro la sostanza di questa idea. L'egemonia del proletariato è la funzione dirigente del proletariato nella rivoluzione borghese, quando il proletariato conduce una politica di alleanza con i contadini, e una politica di isolamento della borghesia liberale. Invece Plekhanov era, com'è noto, contro la politica di isolamento della borghesia liberale per la politica di intesa con essa, contro la politica di alleanza del proletariato con i contadini. In realtà, la posizione tattica di Plekhanov era una posizione menscevica di negazione dell'egemonia del proletariato.
2. - Il mezzo essenziale per rovesciare lo zarismo e per arrivare alla repubblica democratica, Lenin lo scorgeva nella vittoria dell'insurrezione armata del popolo. All'opposto dei menscevichi, Lenin considera che «il movimento rivoluzionario democratico generale ha già portato alla necessità di una insurrezione armata», che «l'organizzazione del proletariato per l'insurrezione» è già «posta all'ordine del giorno come uno dei compiti principali, essenziali e necessari del partito», che è necessario «prendere i provvedimenti più energici per armare il proletariato e per assicurare la direzione immediata dell'insurrezione». (Ibidem , pag. 75).
Per condurre le masse all'insurrezione e fare in modo che l'insurrezione fosse opera di tutto il popolo, Lenin riteneva necessario lanciare delle parole d'ordine, degli appelli capaci di sprigionare l'iniziativa rivoluzionaria delle masse, di organizzarle per l'insurrezione e di disorganizzare l'apparato del potere zarista. Tali parole d'ordine dovevano riassumere, secondo Lenin, le risoluzioni tattiche del III Congresso del partito, alla cui difesa era consacrato il suo libro «Due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica».
Secondo Lenin, quelle parole d'ordine erano:
a) attuare degli «scioperi politici di massa che possono avere una grande importanza all'inizio e nel corso stesso dell'insurrezione». (Ibidem , pag. 75);
b) procedere all'«applicazione immediata, con metodi rivoluzionari, della giornata lavorativa di 8 ore e delle altre rivendicazioni urgenti della classe operaia». (Ibidem , pag.47);
c) «procedere all'organizzazione immediata dei comitati contadini rivoluzionari per compiere», con metodi rivoluzionari, «tutte le trasformazioni democratiche», fino e compresa la confisca delle terre dei grandi proprietari fondiari. (Ibidem , pag. 88);
d) armare gli operai.
E qui sono soprattutto importanti due elementi.
In primo luogo: la tattica dell'applicazione rivoluzionaria della giornata lavorativa di 8 ore nelle città e delle trasformazioni democratiche nelle campagne, ossia di una applicazione che non tenga conto delle autorità, non tenga conto della legge, ignori e i poteri costituiti e la legalità, spezzi le leggi esistenti e stabilisca un nuovo ordine di cose, secondo la volontà e l'autorità delle masse. Nuovo sistema tattico, la cui applicazione paralizzò l'apparato del potere zarista e diede libero corso all'attività e all'iniziativa creatrice delle masse. È sulla base di questa tattica che sorsero i comitati rivoluzionari di sciopero nelle città e i comitati rivoluzionari contadini nelle campagne, di cui i primi divennero in seguito i Soviet dei deputati operai e i secondi i Soviet dei deputati contadini.
In secondo luogo: l'applicazione degli scioperi politici di massa, degli scioperi politici generali che ebbero poi, nel corso della rivoluzione, una funzione di prim'ordine per la mobilitazione rivoluzionaria delle masse. Arma nuova, molto importante nelle mani del proletariato, sconosciuta sino ad allora nella pratica dei partiti marxisti e che acquistò in seguito diritto di cittadinanza.
Lenin riteneva che, dopo la vittoria delI'insurrezione popolare, il governo dello zar doveva essere sostituito da un governo rivoluzionario provvisorio, che avrebbe dovuto consolidare le conquiste della rivoluzione, schiacciare la resistenza della controrivoluzione e applicare il programma minimo del Partito Operaio Socialdemocratico in Russia. Lenin riteneva che senza adempiere a questi compiti non era possibile la vittoria decisiva sullo zarismo. E, per adempiere a questi compiti e riportare una vittoria decisiva sullo zarismo, il governo rivoluzionario provvisorio non doveva essere un governo ordinario, ma un governo della dittatura delle classi vittoriose, degli operai e dei contadini; doveva essere la dittatura rivoluzionaria del proletariato e dei contadini. Richiamandosi alla notissima tesi di Marx, che «ogni organizzazione provvisoria dello Stato, dopo la rivoluzione, esige la dittatura, e una dittatura energica», Lenin concludeva che il governo rivoluzionario provvisorio, se voleva assicurare la vittoria definitiva sullo zarismo, non poteva essere che la dittatura del proletariato e dei contadini.
 
La vittoria definitiva della rivoluzione sullo zarismo - scriveva Lenin, - è la dittatura democratico-rivoluzionaria del proletariato e dei contadini ... E questa vittoria sarà precisamente una dittatura, ossia dovrà di necessità appoggiarsi sulla forza armata, sull'armamento delle masse, sull'insurrezione, e non su queste o quelle istituzioni, costituite per «vie legali» o «pacifiche». Non può essere che una dittatura, perché alle trasformazioni immediatamente e assolutamente necessarie per il proletariato e i contadini, i proprietari fondiari, la grande borghesia e lo zarismo opporranno una resistenza disperata. Senza la dittatura, sarebbe impossibile spezzare questa resistenza e respingere gli attacchi della controrivoluzione. Non sarà, però, evidentemente, una dittatura socialista, ma una dittatura democratica. Essa non potrà intaccare (prima che la rivoluzione non abbia percorso diverse tappe intermedie) le basi del capitalismo. Essa potrà, nel migliore dei casi: procedere a una ridistribuzione radicale della proprietà fondiaria a vantaggio dei contadini; applicare a fondo un democratismo conseguente, fino (e compresa) la proclamazione della repubblica; sradicare le sopravvivenze del dispotismo asiatico, non solo dalla vita delle campagne, ma anche da quella delle fabbriche: cominciare a migliorare seriamente le condizioni degli operai, ed elevare il loro livello di vita; e, infine - ultimo ma non meno importante - estendere l'incendio rivoluzionario all'Europa. Questa vittoria non farà ancora affatto della nostra rivoluzione borghese una rivoluzione socialista; la rivoluzione democratica non uscirà direttamente dal quadro dei rapporti sociali ed economici borghesi, e tuttavia questa vittoria avrà un'importanza immensa per lo sviluppo futuro della Russia e di tutto il mondo. Nulla rafforzerà maggiormente l'energia rivoluzionaria del proletariato mondiale, nulla ne accorcerà tanto il cammino verso la vittoria completa, quanto questa vittoria decisiva della rivoluzione cominciata in Russia. (Ibidem , pagg. 62-63).
 
Circa l'atteggiamento della socialdemocrazia verso il governo rivoluzionario provvisorio e la possibilità per essa di parteciparvi, Lenin difendeva in pieno la risoluzione del III Congresso del partito su questa questione dove è detto:
 
Secondo il rapporto di forza e altri fattori che non si possono stabilire con precisione in anticipo si potrebbe ammettere la partecipazione a un governo rivoluzionario provvisorio di delegati del nostro partito allo scopo di lottare a fondo contro tutti i tentativi controrivoluzionari e di difendere gli interessi autonomi della classe operaia. Le condizioni indispensabili per una tale partecipazione sono il controllo severo del partito sui propri delegati e la salvaguardia costante dell'indipendenza della socialdemocrazia che, tendendo a una rivoluzione socialista completa, è, per questo fatto stesso, irriducibilmente ostile a tutti i partiti borghesi. Indipendentemente dalla possibilità di una partecipazione della socialdemocrazia al governo rivoluzionario provvisorio, occorre diffondere fra i più larghi strati del proletariato l'idea della necessità di una continua pressione sul governo provvisorio da parte del proletariato armato e diretto dalla socialdemocrazia, per proteggere, consolidare e allargare le conquiste della rivoluzione. (Ibidem, pag. 37).
 
I menscevichi obiettavano che il governo provvisorio sarebbe stato, ad ogni modo, un governo borghese, che non si sarebbe potuto ammettervi la partecipazione dei socialdemocratici, per non ricadere nell'errore del socialista francese Millerand, che aveva partecipato al governo borghese in Francia. Ma Lenin replicava, dimostrando che i menscevichi confondevano due cose diverse , e rivelavano in pieno la loro incapacità ad affrontare marxisticamente la questione: in Francia, si trattava della partecipazione dei socialisti a un governo borghese reazionario in un periodo in cui, nel paese, la situazione non era rivoluzionaria, il che imponeva ai socialisti di non parteciparvi: in Russia si tratta, invece, della partecipazione dei socialisti a un governo borghese rivoluzionario , lottante per la vittoria della rivoluzione ; nella fase culminante della rivoluzione - circostanza che rende ammissibile e, in condizioni favorevoli, obbligatoria la partecipazione dei socialdemocratici a tale governo, per battere la controrivoluzione non solo «dal basso» dal di fuori, ma anche «dall'alto», dal seno del governo.
3. - Sebbene lottasse per la vittoria della rivoluzione borghese e l'avvento della repubblica democratica, Lenin non pensava affatto di fermarsi alla tappa democratica e di limitare lo slancio del movimento rivoluzionario al raggiungimento degli obiettivi democratici borghesi. Anzi, Lenin pensava che, una volta raggiunti gli obiettivi democratici, doveva incominciare la lotta del proletariato e delle altre masse sfruttate per la rivoluzione socialista . Di ciò Lenin aveva chiara consapevolezza e riteneva necessario che la socialdemocrazia prendesse tutti i provvedimenti utili perché la rivoluzione democratico-borghese cominciasse a trasformarsi in rivoluzione socialista. La dittatura del proletariato e dei contadini era necessaria, secondo Lenin, non per terminare la rivoluzione con la vittoria sullo zarismo, ma per prolungare il più possibile lo stato di rivoluzione, per ridurre in polvere i rottami della controrivoluzione, per estendere all'Europa la fiamma della rivoluzione e - dopo aver dato nel frattempo, al proletariato la possibilità di istruirsi politicamente e di organizzarsi in un grande esercito - per passare direttamente alla rivoluzione socialista.
A proposito dell'ampiezza della rivoluzione borghese e del carattere che il partito marxista doveva dare a questa ampiezza, Lenin scriveva:
 
Il proletariato deve condurre in fondo la rivoluzione democratica, unendo a sé le masse dei contadini, per schiacciare con la forza la resistenza dell'autocrazia e paralizzare l'instabilità della borghesia. Il proletariato deve compiere la rivoluzione socialista, unendo a sé tutte le masse semiproletarie della popolazione, per spezzare con la forza la resistenza della borghesia e paralizzare l'instabilità, dei contadini e della piccola borghesia. Sono questi i compiti del proletariato, compiti che la gente della nuova Iskra [cioè i menscevichi] presenta in modo così ristretto in tutti i suoi ragionamenti e risoluzioni sull'ampiezza della rivoluzione. (Ibidem , pag. 96).
 
E ancora:
 
Alla testa di tutto il popolo e, soprattutto, dei contadini, per la libertà completa, per una rivoluzione democratica conseguente, per la repubblica! Alla testa di tutti i lavoratori e di tutti gli sfruttati, per il socialismo! Questa deve essere praticamente la politica del proletariato rivoluzionario, questa la parola d'ordine di classe che deve dominare e determinare la soluzione di tutti i problemi tattici, tutta l'attività pratica del partito operaio durante la rivoluzione. (Ibidem , pag. 105).
 
Per dissipare qualsiasi dubbio, Lenin, due mesi dopo la pubblicazione del suo libro «Due tattiche», nel suo articolo «L'atteggiamento della socialdemocrazia verso il movimento contadino» diede ancora le spiegazioni seguenti:
 
Compiuta la rivoluzione democratica, noi passeremo subito - nella misura precisa delle nostre forze, cioè nella misura delle forze del proletariato cosciente e organizzato - sulla via della rivoluzione socialista. Noi siamo per la rivoluzione ininterrotta. Noi non ci arresteremo a mezza strada. (Ibidem , pag. 186).
 
Era una nuova concezione dei rapporti tra la rivoluzione borghese e quella socialista, una nuova teoria del raggruppamento delle forze intorno al proletariato, verso la fine della rivoluzione borghese, per passare direttamente alla rivoluzione socialista - la teoria della trasformazione della rivoluzione democratico-borghese in rivoluzione socialista.
Stabilendo questa nuova concezione, Lenin si basava, in primo luogo, sulla celebre tesi a proposito della rivoluzione ininterrotta, formulata da Marx verso il 1850 nell'«Indirizzo alla Lega dei comunisti» e, in secondo luogo, sull'altra idea nota di Marx, circa la necessità di combinare il movimento rivoluzionario contadino con la rivoluzione proletaria, idea che egli espresse in una lettera ad Engels del 1856, nella quale diceva: «Tutto in Germania dipenderà dalla possibilità di appoggiare la rivoluzione proletaria con una specie di seconda edizione della guerra dei contadini». Ma questi geniali pensieri di Marx non furono ulteriormente sviluppati nelle opere di Marx e di Engels e i teorici della Il Internazionale fecero di tutto per seppellirli e farli dimenticare. Fu a Lenin che spettò il compito di riportare alla luce quelle tesi dimenticate di Marx e di ristabilirle integralmente. Però, ristabilendole, Lenin non si limitò - né poteva del resto limitarsi - a ripeterle semplicemente, ma le sviluppò ulteriormente e le trasformò in una teoria armonica della rivoluzione socialista, introducendo un nuovo fattore obbligatorio per la rivoluzione socialista - l'alleanza del proletariato con gli elementi semiproletari delle città e delle campagne come una condizione per la vittoria della rivoluzione proletaria.
Questa concezione frantumava le posizioni tattiche della socialdemocrazia dell'Europa occidentale, la quale sosteneva che, dopo la rivoluzione borghese, le masse contadine, comprese quelle dei contadini poveri, dovevano di necessità allontanarsi dalla rivoluzione, e alla rivoluzione borghese doveva perciò subentrare un lungo periodo di tregua , un lungo periodo di «calma» di 50-100 anni se non più, durante il quale il proletariato sarebbe stato «pacificamente» sfruttato mentre la borghesia si sarebbe arricchita «legittimamente» fino a che non fosse scoccata l'ora di una nuova rivoluzione, la rivoluzione socialista.
Questa concezione di Lenin era la nuova teoria della rivoluzione socialista , realizzata non dal proletariato isolato contro tutta la borghesia, ma dal proletariato egemone che ha per alleati gli elementi semiproletari della popolazione, ossia innumerevoli «masse di lavoratori e di sfruttati».
Secondo questa teoria, l'egemonia del proletariato nella rivoluzione borghese, - il proletariato avendo i contadini come alleati , - doveva trasformarsi in egemonia del proletariato nella rivoluzione socialista, il proletariato avendo le altre masse di lavoratori e di sfruttati come alleate , e la dittatura democratica del proletariato e dei contadini doveva preparare il terreno per la dittatura socialista del proletariato.
Questa teoria demoliva quella in auge tra i socialdemocratici dell'Europa occidentale, i quali negavano le possibilità rivoluzionarie delle masse semiproletarie urbane e rurali e muovevano dall'idea che segue: «Oltre la borghesia e il proletariato, noi non vediamo altre forze sociali sulle quali possano appoggiarsi, nel nostro paese, le combinazioni d'opposizione o rivoluzionarie» (dichiarazione di Plekhanov, tipica per i socialdemocratici dell'Europa occidentale).
I socialdemocratici dell'Europa occidentale ritenevano che, nella rivoluzione socialista, il proletariato sarebbe stato solo contro tutta la borghesia, senza alleati, contro tutte le classi e gli strati non proletari. Essi non volevano tener conto del fatto che il capitale sfrutta non soltanto i proletari, ma anche le masse innumerevoli degli strati semiproletari urbani e rurali, oppressi dal capitalismo e che possono essere gli alleati del proletariato nella lotta che sostiene per la liberazione della società dal giogo capitalistico. I socialdemocratici dell'Europa occidentale ritenevano perciò che le condizioni per la rivoluzione socialista in Europa non fossero ancora mature, e lo sarebbero divenute solo allorché il proletariato fosse divenuto la maggioranza della nazione, la maggioranza della società conseguentemente al futuro sviluppo economico della società.
Questa concezione putrida e antiproletaria dei socialdemocratici dell'Europa occidentale era decisamente demolita dalla teoria della rivoluzione socialista formulata da Lenin.
La teoria di Lenin non portava alla diretta conclusione che la vittoria del socialismo in un solo paese preso separatamente era possibile. Ma conteneva già tutti, o quasi, gli elementi essenziali, necessari per giungere, presto o tardi, a questa conclusione.
Com'è noto, a tale conclusione Lenin giunse nel 1915, ossia dieci anni dopo.
Sono questi i princìpi tattici essenziali sviluppati da Lenin, nel suo libro magistrale «Due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica».
L'importanza storica di quest'opera di Lenin consiste, innanzi tutto, nel fatto che demolì ideologicamente la concezione tattica piccolo-borghese dei menscevichi; che armò la classe operaia di Russia per lo sviluppo ulteriore della rivoluzione democratico-borghese, per un nuovo assalto allo zarismo; e che prospettò chiaramente ai socialdemocratici russi la necessità di trasformare la rivoluzione borghese in rivoluzione socialista.
Ma l'importanza del libro di Lenin non si limita solo a ciò. Il suo valore è inapprezzabile per aver arricchito il marxismo di una nuova teoria della rivoluzione, per aver gettato le fondamenta della tattica rivoluzionaria del partito bolscevico, di quella tattica che ha portato il proletariato del nostro paese alla vittoria, nel 1917, sul capitalismo.

21 giugno 2017