Al primo posto lo sfruttamento commerciale dei parchi, non la conservazione della natura
La Camera approva la controriforma dei parchi
Gli ambientalisti protestano

Poche settimane fa la Camera ha approvato la proposta di riforma della legge quadro del 1991 sulle aree naturali protette. Un patrimonio ecologico ed ambientale che in Italia conta 27 parchi nazionali e 120 regionali che proprio la medesima legge contribuì ad ampliare, portando la superficie protetta del nostro paese dal 2-3 % ad oltre l’11% dell’intero territorio nazionale. Dodici fra le maggiori associazioni ambientaliste, fra le quali Wwf, Lipu e Greenpeace, si sono opposte al disegno legislativo chiedendo da tempo ai parlamentari di non votarlo; appello inutile poichè esso è stato approvato, seppur da una maggioranza relativa di 249 voti a favore contro 115 contrari (M5s, Sinistra Italiana, Mdp) ed i 32 astenuti di Forza Italia. Nel disegno di legge modificato da governo e parlamento, a testimoniare ancora una volta la vicinanza del governo Renzi-Gentiloni alle compagnie petrolifere, sono state servite ai conti pubblici le nuove regole sulle royalties dovute dalle attività economiche impattanti sull’ambiente, siano esse trivellazioni o ricerca di fonti di acqua, che diventano ancora una volta centrali nel nuovo assetto legislativo. Una vera e propria quanto intollerabile introduzione della logica perversa “se paghi puoi impattare sull’ambiente”, anche nei Parchi, da rigettare in pieno. E poi, pagare quanto? La riforma infatti, enfatizza il ruolo delle royalties stesse volendo, a parole, rafforzare l’autonomia gestionale del singolo parco attraverso, ad esempio, la valorizzazione del proprio marchio col relativo “merchandising”, ma nello stesso tempo si prevede che questi diritti pubblici sul fatturato vengano pagati “una tantum”, istituendo di fatto tutt’al più un semplice indennizzo, ben lungi dall’essere una compensazione proporzionale e certa vera e propria. Un altro degli aspetti principali per il quale gli ambientalisti sono sul piede di guerra, è il nuovo modello di gestione generale che vede i parchi esclusivamente come una potenziale risorsa economica, anziché come un bene pubblico da tutelare. Quanto alla dirigenza dei parchi, finora le nomine di presidenti e direttori generali degli enti parco erano compito del ministero dell’Ambiente e gli ambientalisti, nell’intento di rafforzarne le competenze, ed alla luce della messa a terra del testo definitivo, avevano proposto che la figura gestionale fondamentale del direttore generale venisse selezionata attraverso un normale concorso dirigenziale pubblico. Con la nuova legge invece l’albo non c’è più, il singolo presidente viene scelto sempre dal ministero ma d’intesa con la Regione competente, ed il direttore generale viene individuato da una commissione composta da un membro di scelta ministeriale e due nominati dal consiglio direttivo, che a sua volta è composto da 4 rappresentanti nazionali e 4 locali, introducendo all’interno del consiglio direttivo una quota di rappresentanza considerevole per il cosiddetto “mondo agricolo e dei pescatori”. Quindi nessun requisito richiesto ai candidati, e mani del tutto libere alla politica per i soliti giochetti clientelari. Dando per assodato questo aspetto fondamentale, inedito per i Parchi, non troviamo miglior definizione per definire il nuovo impianto che non “Controriforma dei Parchi Corporativi”. L’ultima beffa alla posizioni dell’associazionismo ambientale, è l’introduzione del folle meccanismo di controllo della fauna selvatica, che apre i parchi alla caccia dando agli stessi cacciatori il paradossale compito di far diminuire la cosiddetta fauna “nociva” per le colture. “Tutte le nostre proposte, tutti i tentativi di dialogo delle associazioni con il ministro, il governo, i relatori, la maggioranza parlamentare sono stati respinti” è l’amara denuncia del mondo ambientalista che, anziché essere ascoltato e consultato, viene costantemente ignorato, e con esso i milioni di persone che rappresenta. Stavolta quindi il diavolo non sta nei dettagli poiché siamo evidentemente di fronte ad un quadro generale assolutamente mutato, con l’introduzione di una visione strumentale delle aree protette: la conservazione della natura, perno centrale anche della stessa vita umana, viene considerato un semplice strumento per realizzare “obiettivi economici”, leggasi potere e profitto. Testimonia questa deriva il nuovo Piano di sistema, l’unico ad aver ottenuto un finanziamento di una qualche consistenza (10 milioni di euro annui per tre anni), e che ha come obiettivo l’adattamento ai cambiamenti climatici, per lo sviluppo della cosiddetta impropriamente “green economy”.
Un progetto dunque generico, che come tutti i progetti generici non riesce a cogliere l’essenziale specificità delle aree protette, per le quali rimane basilare la conservazione della biodiversità che però non pare più essere degna di contributi, né del ruolo centrale che rivestiva. Ultima ciliegina sulla torta, oltre al totale disinteresse nei confronti delle aree marine protette che rappresentano una vera ricchezza per il nostro paese e per le quali le associazioni avevano richiesto l’equiparazione ai parchi nazionali, è senz’altro la mancata trasformazione in Parco Nazionale del Delta del Po, una delle aree più importanti d’Europa per la biodiversità e per le migrazioni di volatili.
Riassumendo dunque, dietro alla Riforma dei Parchi vi è un deciso sgretolamento dell’interesse nazionale e dell’ambiente a beneficio dei poteri localistici e delle multinazionali che potranno trivellare praticamente gratis, far gestire i Parchi ai loro uomini di fiducia senza alcun requisito tecnico, compiacendo i loro favoriti. Secondo Lipu e WWF c’è un tema, solo in apparenza secondario, che descrive il senso di questa riforma, ed è il mancato riconoscimento dei siti Natura 2000, i siti europei più importanti per la conservazione della natura, come aree protette ai sensi della legge italiana. Un fatto inspiegabile anche all’interno delle dinamiche borghesi ed europeiste, che dimostra la distanza dei legislatori e di tutti quelli che hanno sostenuto la riforma, dalla “missione naturalistica” della legge 394. Per la Lipu, il risultato emerso dalla controriforma è “la mortificazione di una legge storica, fondamentale per la conservazione della natura in Italia, e una delle pagine più grigie della legislazione ambientale italiana.”. Assente dalle proteste Legambiente, e non è un caso, visto che il suo componente emerito di primo piano, Ermete Realacci, Piddino renziano, è anche presidente della commissione Ambiente e dunque ispiratore primo di questo disegno di legge. Basterà l’opposizione di cartone, del tutto istituzionale e circoscritta nel perimetro della “rappresentanza” dei partiti che si sono “opposti” alla controriforma dei parchi a tutelare l’ambiente togliendolo dalle grinfie dei capitalisti e di un governo a loro asservito? Noi pensiamo che per realizzare le aspettative del mondo ambientalista progressista, per una gestione del territorio che vada nell’interesse dell’ambiente stesso e conseguentemente anche dell’uomo che ne dipende direttamente in maniera imprescindibile facendone parte integrante, sia indispensabile unire tali legittime rivendicazioni alla lotta per il socialismo poiché solo il socialismo potrà dare un netto taglio al clientelismo, alla logica del profitto immediato su tutto e ad ogni costo, e ridare quella prospettiva a lungo termine che su temi ambientali è indispensabile per gestirli nell’interesse collettivo.
 

5 luglio 2017