Sciopero e cortei da Genova a Taranto
In piazza i lavoratori dell'Ilva contro 4.500 esuberi e il taglio dei salari

Il destino degli stabilimenti Ilva rimane aperto. Troppo presto i nuovi acquirenti e il governo hanno pensato di aver chiuso la questione, voltato pagina e messo nelle mani dei nuovi padroni, gli indiani di Arcelor Mittal e il Gruppo Marcegaglia, un nuovo “giocattolo” pronto a dare profitti, ripulito e depurato dai vecchi debiti e ridimensionato di alcune migliaia di posti di lavoro. Ma avevano fatto i conti senza l'oste, i lavoratori, che si sono subito opposti e mobilitati contro il piano industriale presentato ai primi di ottobre.
Questo è uno schema che abbiamo visto attuare più volte nel nostro Paese quando si tratta di privatizzare una società oppure di rimettere sul mercato una grande azienda con gravi problemi finanziari e/o ambientali, come appunto le acciaierie Ilva. Anche in questo caso costituzione di una bad company su cui far confluire l'attività passiva (pagata dai contribuenti) e una new.co (nuova azienda) per raccogliere i guadagni, dopodiché sarà pronta per essere sfruttata dal privato di turno.
La vicenda dell'Ilva si strascina da molti anni, aggravatasi dopo che le acciaierie nel 1995, grazie al governo Prodi, furono privatizzate e dall'IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) passarono alla famiglia Riva che ne ha tratto immensi profitti, sfruttando i lavoratori e avvelenando il territorio, ha assoggettato tutta la popolazione di Taranto al ricatto occupazionale e con le sue innumerevoli connivenze a tutti i livelli (dal governo comunale a quello centrale passando per la Regione) ha sempre eluso i controlli ed evitato gli interventi ambientali che pure si era impegnata a fare.
La gravità della situazione ha costretto il governo a commissariare l'azienda nel 2013 e all'amministrazione controllata nel 2015 per poi essere rimessa sul mercato ed infine acquisita pochi mesi fa dalla Am Investco Italy, appartenente per l'85% al più grande produttore mondiali di acciaio con a capo il magnate indiano Mittal e per il 15% alla famiglia Marcegaglia. Chiunque avesse messo le mani sull'Ilva doveva comunque rispettare due impegni ben precisi: procedere al risanamento ambientale e mantenere i livelli occupazionali e quelli contrattuali già acquisiti.
Sull'occupazione le garanzie chieste dal governo non erano poi così restrittive poiché i numeri richiesti per il gruppo Ilva nel suo complesso erano di “almeno 10.000 unità per l’intero periodo di riferimento del piano industriale tenendo conto che l’accordo sindacale potrà ulteriormente precisare e incrementare tale obbligo”. Am Investco non ci va tanto lontano riassorbendo 9.407 addetti anche se a fine percorso, nel 2024, anziché aumentare andrebbe a ridurre a 8.480. Visto che l'attuale numero dei lavoratori è di 14.200 unità i licenziamenti ammonterebbero a più di 4.500.
Difatti il governo in un primo momento si era detto favorevole al piano ma dopo le proteste dei lavoratori il ministro Calenda ha dichiarato: “Il governo è sulla sua linea di sempre ma rispetto all’offerta a mancare non sono i numeri degli esuberi su cui si può discutere e che fanno parte della trattativa, ma un pezzo dell’impegno che l’acquirente ha preso nei confronti del governo che riguarda i livelli salariali e gli scatti di anzianità su cui non si prevedeva di ripartire da zero ma anzi di mantenere quelli attuali”
Un'ulteriore conferma che il piano è stato bocciato grazie alla dura e forte risposta dei lavoratori, non certo per l'intransigenza del governo. Immediatamente dopo l'annuncio di Am Investco negli stabilimenti Ilva si sono riuniti i lavoratori per decidere il da farsi: tra le ipotesi ventilate a Genova anche l'occupazione della fabbrica. Oltre al rifiuto dei licenziamenti i lavoratori si battono per il mantenimento del salario e dei diritti. I nuovi padroni vorrebbero licenziare tutti e riassumere ripartendo dal livello contrattuale più basso azzerando premi e scatti di anzianità. Tolto anche il diritto all'articolo 18 perché tutti sarebbero assunti con il “contratto a tutele crescenti” del Jobs Act.
Prima avvelenati dall'Ilva, poi licenziati oppure assunti senza diritti e a condizioni salariali che faranno perdere a ciascun dipendente 6-7 mila euro lorde l'anno, il 20-30% dello stipendio. I lavoratori non ci stanno e lunedì 9 ottobre hanno scioperato per 24 ore. Lo sciopero ha registrato un'adesione pressoché totale e a Taranto e Genova, gli operai sono scesi in piazza. A Taranto, dove si trova lo stabilimento principale (12.000 addetti) i lavoratori hanno picchettato gli ingressi e presidiato la fabbrica. A Genova (secondo stabilimento con 1.600 dipendenti) i lavoratori hanno sfilato per le vie della città assieme ad altri dipendenti di aziende a rischio licenziamenti.
La mobilitazione dei lavoratori si è tirata dietro anche i sindacati e di seguito anche il governo che è stato costretto a dichiarare “irricevibile” la proposta di Am Investco. Cgil, Cisl, Uil, Ugl e Usb hanno affermato che a queste condizioni non si può nemmeno aprire il tavolo della trattativa. Mittal e Marcegaglia hanno in seguito risposto che sono disponibili a trattare nuove condizioni sugli suberi e inquadramento. Sembra che un primo risultato sia stato ottenuto: quello di riportare a più miti consigli i nuovi acquirenti.
Servirà chiarezza anche sugli interventi ambientali. Quella di Taranto è l'acciaieria più grande d'Europa e la fabbrica si estende per 15 milioni di metri quadrati, più del doppio della stessa città. Ha 8 parchi minerali, 2 cave, 10 batterie per produrre il coke che serve ad alimentare 5 altiforni, 5 colate continue, 2 treni di laminazione a caldo per nastri, un treno di laminazione a caldo per lamiere, un laminatoio a freddo, 3 linee di zincatura e 3 tubifici. È un segmento strategico dell'industria italiana e alimenta una serie di numerose altre attività e ha un forte impatto economico sull'economia pugliese e nazionale.
Per ora l'unica misura per ridurre l'inquinamento è un tetto alla produzione stabilito in 6 milioni di tonnellate annue che però non potrà durare per sempre altrimenti si offre un assist a Am Investco per licenziare. Una fabbrica di questo tipo e di queste dimensioni necessita per forza di cose di una politica ambientale rigorosa ed economicamente onerosa, drasticamente diversa da quella tenuta fino ad ora. A partire dalla copertura dei parchi minerari, i depositi di materiale all'aria aperta che con le loro polveri s'infiltrano nei corpi dei lavoratori e dei cittadini dei quartieri limitrofi che hanno già causato decine di vittime.
Difficilmente questo sarà fatto da un gruppo privato. Occorre che l'Ilva sia nazionalizzata per salvaguardare posti di lavoro e salute dei lavoratori e della popolazione. L'Unione Europea ostacola gli interventi statati ma abbiamo visto che quando servono urgentemente, specie Francia e Germania, li utilizzano a piene mani. Perché non può essere possibile in Italia come sostengono ipocritamente governo, Confindustria e alcuni sindacati?
 

18 ottobre 2017