Al 19° Congresso del PCC revisionista
Il “socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era” escogitato dal neo-imperatore Xi non è altro che capitalismo sotto mentite spoglie
L'iscrizione del pensiero di Xi nello statuto del PCC conferma che quel partito non ha più nulla a che fare con il marxismo-leninismo-pensiero di Mao
I falsi comunisti cinesi si propongono di far diventare la Cina entro il 2035 “una potenza globale” con un “esercito di livello mondiale”

Con il suo 19° Congresso nazionale, svoltosi dal 18 al 24 ottobre, il partito revisionista cinese ha segnato una nuova tappa nell’espansione del capitalismo in Cina e nella distorsione del socialismo ad opera della cricca di Pechino con alla testa il neo imperatore Xi Jinping.
Sia nel rapporto politico del Comitato centrale presentato dallo stesso Xi, sia nelle sue varie risoluzioni e nel nuovo statuto approvato, il congresso ha dato ampio risalto alla teoria per cui lo pseudo “socialismo con caratteristiche cinesi” è entrato in una “nuova era”, caratterizzata dall’imminente completamento dell’obiettivo di costruire una “società di media prosperità”, fissato già da Deng Xiaoping quando cominciò a smantellare il sistema socialista in Cina, e dalle nuove sfide per completare la “modernizzazione socialista” del Paese entro la metà del secolo.
A questa teoria, ulteriore sviluppo e virata a destra del revisionismo cinese, è stato dato il nome di “pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era”, inserito nello statuto come “continuazione e sviluppo” del marxismo-leninismo-pensiero di Mao, della teoria di Deng e dei successivi contributi revisionisti degli ex leader Jiang Zemin (le “tre rappresentanze”, che permette ai capitalisti di entrare nel partito in quanto “forze avanzate” della società) e Hu Jintao, “più recente frutto della cinizzazione del marxismo” e “bussola” per il “grande rinnovamento della nazione cinese”.
Una nuova teoria antimarxista-leninista e antisocialista
Secondo il “pensiero di Xi” la contraddizione principale in Cina non sarebbe più fra forze produttive avanzate e relazioni di produzione arretrate, come aveva teorizzato Deng per promuovere la produzione su basi capitaliste e cancellare la lotta di classe, bensì fra i bisogni del popolo per una vita agiata e lo sviluppo ineguale del Paese. Si tratta cioè per i revisionisti cinesi di reagire alle pesanti battute d’arresto subite negli anni scorsi dalla crescita economica accelerata, tamponando le enormi disparità di classe, territoriali e di genere create dalla restaurazione del capitalismo.
Quanto questo sia possibile perdurando l’attuale sistema economico è tutto da vedere, infatti il “pensiero di Xi” pur parlando di “nuova era” continua a collocare la Cina nello “stadio primario del socialismo”. Che altro non è che l’assurdità teorica partorita dai revisionisti cinesi per giustificare l’adozione di metodi, pratiche e rapporti di produzione capitalistici per sviluppare l’economia e sconfiggere la povertà, mentre il passaggio al socialismo vero e proprio è convenientemente rimandato a data da destinarsi.
Infatti uno dei tratti costitutivi del “pensiero di Xi” è proprio la linea dell’“approfondimento complessivo delle riforme”, ossia la politica economica adottata già nel 2013 che affida al mercato il ruolo di traino dell’economia. E che finora ha prodotto fra i suoi frutti più velenosi l’apertura di zone a libero scambio in varie città fra cui Shanghai, dove ai capitalisti è data carta bianca sul piano della concorrenza, addirittura sui tassi d’interesse, e un’impennata alle privatizzazioni e dismissioni delle aziende statali, con il taglio di oltre 6 milioni di operai.
Un altro pilastro del “pensiero di Xi”, contenuto nella sua sistematizzazione dei “quattro complessivi”, è la posizione predominante del PCC, che però ha perso ogni connotato proletario e marxista-leninista, trasformandosi in un partito revisionista e di fatto fascista, che ha lo scopo di garantire la dittatura della borghesia burocratica e monopolistica cinese, favorire il capitalismo e soffocare sul nascere i tumulti sociali illudendo il proletariato di essere ancora al potere e di potersi affidare al partito per difendere i propri interessi.
È quindi chiaro che il “pensiero di Xi”, così come la teorizzazione sulla “nuova era”, non hanno assolutamente niente a che spartire con il marxismo-leninismo-pensiero di Mao e con il socialismo, ma rappresentano la risposta della Cina capitalista ai cambiamenti avvenuti all’interno e all’esterno del Paese e costituiscono la linea revisionista di destra del PCC nel momento in cui c’è bisogno di una leadership forte e stabile per guidare la Cina nelle acque torbide della competizione inter-imperialista mondiale e della completa apertura neoliberista dell’economia cinese al mercato, propinando alle masse l’illusione secondo cui la cooperazione “armoniosa” fra lavoratori e capitale porterà al diffuso benessere. Anche a questo è servita la potente campagna anticorruzione lanciata negli scorsi cinque anni, che ha ripulito l’immagine screditata del PCC, dilaniato dagli intrighi di corte, ed ha pure permesso a Xi di sbarazzarsi di fastidiosi rivali. Ideologicamente, il “pensiero di Xi” è ancora più a destra e ancora più lontano dal marxismo di quello di Deng.

Una leadership forte per guidare la Cina capitalista sui mercati e verso l’egemonia
Si spiega così anche il potere senza precedenti accumulato da Xi all’interno del partito e dello Stato, che la grancassa mediatica ha usato per costruire un impossibile paragone con Mao, dal quale invece lo separa un abisso ideologico e politico. Con gli Usa di Trump in declino e sempre più screditati agli occhi degli alleati e concorrenti imperialisti, a partire dall’Ue, la Cina ha lavorato alacremente nei mesi scorsi per presentarsi come garante affidabile della globalizzazione capitalista e così rafforzare la sua posizione e il suo prestigio nei mercati globali. La nota rivista dei monopoli capitalistici “Bloomberg” le ha recentemente conferito il titolo di principale potenza economica mondiale. È perciò naturale che alla cricca di Pechino serva una leadership forte e stabile per affrontare le contraddizioni inter-imperialistiche all’estero e le contraddizioni e i conflitti sociali all’interno.
In questo quadro si inserisce anche il passaggio del rapporto di Xi Jinping al congresso che fissa al 2030 il raggiungimento dell’obiettivo di fare della Cina una potenza globale “con un esercito di livello mondiale”, moderno, ben armato e pronto al combattimento, in grado di garantire stabilità all’interno e salvaguardare gli interessi del socialimperialismo cinese nello scacchiere internazionale. Soprattutto nell’area del Pacifico, dove sta strappando l’egemonia agli Usa, e sulla “nuova via della seta”, il corridoio economico e commerciale che collega la Cina all’Europa passando per l’Asia centrale sul quale Pechino sta investendo molto. Pure questa strategia è stata iscritta nello statuto. “Entro il 2050,” ha scritto l’agenzia governativa Xinhua con toni trionfalistici e assetati di egemonismo, “due secoli dopo le guerre dell’oppio che fecero sprofondare il ‘Regno di mezzo’ in un periodo di dolore e vergogna, la Cina è pronta a recuperare la sua potenza e tornare sulla vetta del mondo”.
Tra l’altro nel nuovo Comitato permanente, che raccoglie i 7 massimi dirigenti del partito, sono presenti fedeli esecutori delle politiche economiche e organizzative di Xi, distintisi in aree di grande interesse per il mercato come Shanghai e la provincia del Guangdong, e pure l’ideologo che da 15 anni sistematizza le teorie dei revisionisti cinesi. Tutti avranno sui 68 anni entro il 2022, quando si terrà il 20° congresso, e dovranno quindi essere pensionati in base ad una regola non scritta del PCC, ma ciò significa che Xi non ha ancora un successore e potrebbe restare in carica più a lungo, violando la norma che impone un limite di due mandati al segretario generale e presidente della Repubblica
Sempre sul piano prettamente organizzativo, va segnalato che fra i 204 membri del nuovo Comitato centrale del PCC sono presenti appena 10 donne, meno del 5%. Nell’ultimo CC presieduto da Mao prima della sua morte nel 1976 erano il 12%.
È significativo che né Xi Jinping né il congresso abbiano dedicato una sola parola al centenario della Rivoluzione d’Ottobre, benché imminente, se non un accenno di circostanza ma ciò riprova che hanno tagliato definitivamente i ponti con la storia del movimento operaio internazionale. Quantunque i dirigenti di partiti sedicenti comunisti di casa nostra continuino ad accreditare il PCC, probabilmente per elemosinare il suo riconoscimento (e sostegno economico?). A partire dal PCI, che in un messaggio del segretario Alboresi e del responsabile esteri Giannini esalta il pensiero di Xi ed elegge il partito cinese a “punto di riferimento imprescindibile per il movimento comunista internazionale”. Su questa linea è anche il sedicente comunista Domenico Losurdo tanto apprezzato come “storico e filosofo” dai suoi simili dell’America Latina.
In conclusione, niente di nuovo sotto il sole cinese se non un adeguamento del partito revisionista e dello Stato capitalista alle nuove condizioni. Tuttavia è possibile che nel prossimo quinquennio le contraddizioni create dal capitalismo in Cina si acuiranno e aggraveranno, generando nuovi conflitti di classe e rompendo le uova nel paniere alla cricca borghese, revisionista e socialimperialista di Xi.

31 ottobre 2017