La risposta al referendum per l'indipendenza del Kurdistan iracheno
Bagdad occupa Kirkuk. Barzani capitola
Il leader curdo si rimangia la vittoria del referendum e riapre ili dialogo con l'Iraq
Il gioco di Iran, Turchia, Usa e Russia

Lo avevano detto a chiare lettere all’indomani del referendum svoltosi il 25 settembre scorso e che aveva visto la schiacciante vittoria popolare per uno Stato indipendente curdo da Baghdad nel Kurdistan iracheno: i governi iracheno, iraniano e turco non potevano tollerare una simile situazione e se il leader curdo Barzani non avesse fatto marcia indietro la parola sarebbe passata alle armi. E così è stato. Nella notte del 16 ottobre le forze armate irachene supportate dalle milizie sciite legate all’Iran hanno lanciato un’offensiva contro i peshmerga curdi per la presa dell’importante centro petrolifero di Kirkuk, città a maggioranza curda e snodo cruciale per le sorti del nord dell’Iraq e per il futuro assetto geopolitico dell’intero paese. A Kirkuk sono presenti enormi riserve di idrocarburi, le stime oscillano tra i 12 e 15 miliardi di barili e ogni hanno si estrae qualcosa come il 30% della produzione totale del greggio iracheno, anche se la guerra ha ridotto il suo potenziale estrattivo e deteriorato la condizione di diversi pozzi.
Le forze irachene con armi e carri armati americani hanno ripreso il controllo della provincia di Kirkuk e di altre aree contese al governo regionale curdo di Erbil. L’Iraq ha annunciato che la prima fase dell’operazione ha permesso all’esercito di prendere il controllo di diversi villaggi intorno a Kirkuk, della base militare K1, dell’aeroporto e di altre aree da dove si sono ritirati i peshmerga curdi. Poi è stata la volta della città e nei giorni seguenti sono cadute nelle mani governative anche le altre aree contese, il Sinjar, la Piana di Ninive, Makhmour. Le forze irachene si sono spinte fino alla cosiddetta “linea verde del 2003”, la situazione sul campo alla fine della seconda guerra imperialista del Golfo.
Intanto la Turchia continua a minacciare di chiudere il posto di frontiera di Khalil Ibrahim, da dove arrivano le merci essenziali per la sopravvivenza del Kurdistan. Per questo Barzani è stato costretto a cedere, per non ritrovarsi sotto un blocco totale. Congelamento del risultato del referendum e del voto politico che si doveva svolgere nel Kurdistan iracheno ai primi di novembre le prime decisioni del governo di Erbil che il 25 ottobre in un comunicato ufficiale annunciava anche “un cessate il fuoco immediato” e l’interruzione di qualsiasi operazione militare nella regione. Una capitolazione su tutta la linea quella di Barzani: “La situazione è pericolosa e le tensioni tra le forze irachene e quelle curde ci mettono di fronte a responsabilità storiche e ci spingono a evitare una guerra e il confronto tra i militari iracheni e i peshmerga”.
Per Iran e Turchia l’interesse verso il Kurdistan iracheno è dettato da ragioni nazionali e internazionali. In questi due paesi infatti i curdi rappresentano una parte significativa della popolazione, rispettivamente oltre il 10% (8,1 milioni) e il 18% (14,7 milioni). La presenza di queste forti enclave etniche può costituire nel futuro una seria minaccia alla sovranità dei due paesi. Teheran vorrebbe poi veder rinascere un Iraq unitario con un governo compiacente per continuare a espandere la propria influenza lungo quel corridoio che, passando dalla Mesopotamia, raggiungerebbe il Mediterraneo. Ankara, che teme non poco l’attivismo iraniano, sinora ha puntato a riappropriarsi di quella regione settentrionale dell’Iraq che fu già sua ai tempi dell’impero ottomano. Parallelamente in Siria la Turchia avanza per occupare la provincia di Idlib evitando che quell’area cada in mano alle forze pro iraniane e che i curdi siriani blindino l’intero confine tra Turchia e Siria.
La Russia per il momento resta a guardare sorniona la situazione visto che da questa guerra ha già conseguito il risultato che desiderava, mantenere al potere il fedele alleato Bashar Al Assad in Siria e disporre di uno sbocco sul Mediterraneo con la base militare nella provincia di Latakia. Mentre gli USA devono ancora decidere per quanto ancora appoggiare ufficialmente i curdi e le altre milizie arabe utilizzate per la sconfitta militare dello Stato islamico nel nord iracheno. Per Trump uno Stato di guerra permanente è certamente più redditizio, perché continuerebbe a rifornire tutto il Medio Oriente di armi. Altresì nella regione gli imperialisti americani sostengono tutte le forze che si oppongono all’Iran, che è tornato ad essere il suo spauracchio in ragione della minaccia nucleare di Teheran.
Infine da rilevare gli attestati di stima arrivati al premier iracheno al Abadi da Federica Mogherini, alto rappresentante degli Affari esteri dell’Unione europea, dal ministro degli Esteri tedesco Sigmar Gabriel e dal re dell’Arabia Saudita Salman, tutti d’accordo nel supportare l’Iraq unito al servizio dell’imperialismo.

31 ottobre 2017