Di Maio, principale burattino di Grillo, a Washington per accreditare il M5S presso l'imperialismo americano

Il curriculum dell'aspirante premier Luigi Di Maio, principale burattino del padre padrone del M5S Beppe Grillo, per cercare di qualificarsi come leader affidabile per la grande borghesia nazionale e internazionale si è riempito nel corso del suo lungo apprendistato di crediti di vario peso, comunque significativi, e tanto per restare ai più recenti, dal pranzo di lavoro all'Ispi con Carlo Secchi, ex rettore della Bocconi e presidente del ramo italiano della Trilateral e il suo intervento ai primi dello scorso settembre al forum della grande finanza massonica a Cernobbio; senza dimenticare la visita a uno dei cuori della finanza imperialista mondiale, la city londinese, e quella dello scorso anno in Israele. Doveva ancora passare l'esame della Casa Bianca, passaggio indispensabile per gli aspiranti inquilini di Palazzo Chigi che non possono arrivare alla carica se non hanno un canale privilegiato, come quello che si era conquistato Renzi con Obama, o perlomeno accettabile con il principale e più potente alleato imperialista dell'Italia. La lacuna è stata colmata da Di Maio il 16 novembre con la visita, al dipartimento di Stato e al Congresso americani.
Il candidato premier e capo pentastellato Di Maio ha chiesto e ottenuto anche un incontro presso la nunziatura di Washington col “ministro degli Esteri” del Vaticano Pietro Parolin che si trovava negli Stati Uniti per le celebrazioni dell centenario dell'Episcopato americano. L'incontro fa curriculum nel rapporto col Vaticano e con l'elettorato cattolico, a cui mira il M5S, anche se allo scopo dovrà probabilmente “aggiustare” alcune posizioni quali quella di una parte degli attivisti che vogliono l'abolizione del Concordato tra Chiesa cattolica e Stato italiano.
Per Di Maio e il vertice del M5S non ci sono problemi, ci hanno oramai abituato a improvvise giravolte, come quella che aveva portato l'idea di uscire dalla Nato a diventare una semplice richiesta di rinegoziare le condizioni di appartenenza; un riposizionamento che li mette più in sintonia con le posizioni del capofila imperialista Donald Trump, che vuole rivedere le regole dell'Alleanza atlantica, e quantomeno centra la loro posizione in politica estera ricacciando la sensazione che potesse sembrare un poco sbilanciata verso la Russia di Putin.
Una volta che il Wall Street Journal aveva salutato l'elezione di Di Maio alla guida del M5S come la scelta di un “candidato moderato” e non anti establishment, la strada per Washington si era quindi spalancata. E al ritorno, in una doppia intervista a Repubblica e La Stampa, Di Maio giurava fedeltà alla Nato e sosteneva che era possibile importare parti del modello economico degli Usa di Trump in Italia.
“Qui con un po' di deficit abbassano le tasse sulle imprese per far correre l'economia. E con quei soldi ripagano il debito creando valore”, affermava sostenendo che una misura simile potrebbe essere applicata in Italia, “penso a una manovra shock per abbassare le imposte sulle imprese attingendo anche a risorse in deficit”. “E vogliamo anche tagliare il costo del lavoro, con misure particolari per chi fa innovazione”, aggiungeva indicando che nel suo pensiero hanno largo spazio gli interessi dei padroni e poco dei lavoratori.
“Voglio essere chiaro: il nostro programma non ha mai messo in discussione la Nato e l'alleanza con gli Stati Uniti. E ripeto: siamo interlocutori storici della Russia, non crediamo che le sanzioni siano uno strumento efficace, ma lo storytelling che ci dipinge come filorussi è falso”, spiegava Di Maio, “il nostro obiettivo è restare nella Nato ma abbiamo perplessità sulla spesa al 2% del Pil in armamenti”. Riguardo alle basi americane in Italia garantiva che “qualsiasi messa in discussione deve essere legata a un dialogo con gli Stati Uniti” e se si doleva del fatto che “spendiamo un sacco di soldi” per le missioni militari non pensava affatto a tagli al bilancio militare, anzi all'opposto a investimenti a favore di “progetti per rafforzare l’intelligence, investimenti in innovazione che possano anche essere partnership esclusive con gli Usa”. Quanto alle missioni militari, calzava l'elmetto dell'imperialismo italiano e sosteneva che “non siamo pregiudizialmente contrari, specialmente per quelle a guida italiana che hanno reso lustro alle nostre truppe”. L'accredito del M5S presso l'imperialismo americano è cosa fatta.
 

22 novembre 2017