Blindata con la fiducia al Senato la legge di Bilancio da 20 miliardi
Ricchi regali di Natale a padroni ed evasori fiscali con i tagli ai contributi e i condoni mascherati. Finanziamenti a pioggia ai collegi elettorali. Briciole per la spesa sociale. Tagli alla sanità e alle Regioni. Beffati i lavoratori, le donne e i giovani sulle pensioni
A primavera nuova stangata da 7 miliardi chiesta dalla Ue
Con 149 sì e 93 no il Senato ha approvato il 30 novembre la legge di Bilancio 2018 da 20 miliardi, che ora va in discussione alla Camera per un'approvazione definitiva prevista entro Natale. Per non correre rischi, dati i numeri risicati in questo ramo parlamentare, l'approvazione è avvenuta con il voto di fiducia posto dalla maggioranza di governo, su cui sono confluiti anche i voti del gruppo ALA di Verdini, dei due senatori di Campo progressista di Pisapia, della SVP altoatesina e di altre forze minori, mentre il gruppo di Articolo1-MDP ha votato contro.
È passata così un'altra manovra come sempre tutta sbilanciata a favore degli industriali e che concede nulla o solo briciole ai lavoratori, ai disoccupati, ai giovani, ai poveri e al Sud. Una manovra tutt'altro che “espansiva”, come l'ha spacciata il governo, dato che sui 20,4 miliardi stanziati quasi 16 sono destinati alla sterilizzazione dell'aumento dell'Iva e delle accise, un fardello in gran parte creato da Renzi con la finanziaria 2015 e rimpallato di anno in anno e di governo in governo, e a maggior ragione alla vigilia di elezioni politiche come quest'anno.
E quello che resta va quasi tutto a beneficio delle imprese, per finanziare il taglio dell'Ires alle grandi aziende e il taglio del 50% (100% al Sud) dei contributi per altri 6 miliardi in tre anni, dopo averne già intascati 60 con le ultime quattro manovre, agli industriali che assumono giovani con contratti a tempo indeterminato. Senza contare il rifinanziamento per il terzo anno consecutivo del superammortamento del 130% e dell'iperammortamento del 250%.
Per la spesa sociale e la lotta alla povertà ci sono invece solo 2,6 miliardi in tre anni, ma nel 2018 solo 300 milioni per il Reddito di inclusione, un'elemosina di cui godranno solo circa 1,8 milioni di persone a fronte di 4,75 milioni di italiani ufficialmente classificati come indigenti. Il resto sono solo mance elettorali, come il bonus di 500 euro per i diciottenni inventato da Renzi, il bonus bebè fortemente reclamato da Alfano, i 40 milioni per lo Sport voluti dal ministro Lotti e ottenuti grazie ai voti decisivi di Verdini, e così via. A questi si sono aggiunti poi, in fase di discussione in aula attraverso una caterva di emendamenti, altri bonus, mance e mancette varie che i partiti e i senatori si sono spartiti per gratificare le rispettive lobby di riferimento e i propri collegi elettorali.
 

L'“assalto alla diligenza” delle mance elettorali
Solo per fare qualche esempio, è passato un emendamento dell'ex tesoriere DS, Ugo Sposetti, che consentirà alle Coop di continuare ad usare i soldi dei soci per scopi finanziari come fossero delle banche. Il ministro dell'Agricoltura, il renziano Martina, ha avuto 40 milioni in un triennio per stabilizzare i dipendenti del Crea (Consiglio per la ricerca in agricoltura); e questo a fronte di un totale di 110 milioni in tre anni stanziati dalla legge di Bilancio per l'intero comparto della ricerca.
Un altro renziano, Andrea Marcucci, si è visto approvare un emendamento che stanzia 3 milioni per i principali carnevali in Italia: sarà una semplice coincidenza che a presiedere il più importante, quello di Viareggio, sia sua sorella Mariolina?
AP di Alfano porta a casa il rinnovo per altri tre anni del bonus bebè, sul quale aveva minacciato di non votare la fiducia. E una sua senatrice, Vicari, ha strappato 25 milioni per un concorso di collaboratori scolastici in provincia di Palermo, manco a dirlo il suo collegio elettorale.
Notevole anche il carniere della SVP: per mantenere l'alleanza con il partito di maggioranza in Alto Adige, il PD gli ha concesso di tutto, dai fondi per l'apicoltura montana alle convenzioni per le grandi derivazioni idriche, dalle indennità dei consiglieri di Stato residenti a Bolzano ad altre norme fiscali agevolate per l'Alto Adige. Anche i due pisapiani, gli ex vendoliani Stefàno e Uras, hanno portato qualcosa ai rispettivi collegi elettorali in Puglia e Sardegna.
E si potrebbe continuare parecchio con l'elenco delle mance elettorali, come i finanziamenti ai Comitati di italiani all'estero, alle Camere di commercio, ad enti vari, per il cimitero del Vajont, per un'accademia a Frascati, per la Fondazione Gran Sasso, per l'Istituto Don Sturzo e per l'Istituto Gramsci (tanto per non fare parzialità), per gli alluvionati piemontesi del 1994, per il teatro Donizetti di Bergamo, per i rimborsi spese del presidente e consiglieri del Cnel, e così via.
 

Respinti l'abolizione del superticket e altri emendamenti elementari
Anche l'elenco degli emendamenti respinti la dice lunga sul marchio di classe filopadronale e antipopolare di questa manovra e sulla natura di destra del governo Gentiloni. Sono stati respinti infatti emendamenti elementari - ha accusato la capogruppo di MDP Cecilia Guerra – come l'abolizione del superticket da 10 euro sulle visite specialistiche e la diagnostica anche per i medio-abbienti. Questo vale circa 600 milioni, MDP chiedeva di ridurlo a 300 milioni (i poveri e i redditi più bassi sono già esentati), ma alla fine la riduzione concessa è solo di 60 milioni.
Altrettanto sordo, ha denunciato la Guerra, il governo è stato su altri emendamenti come la restituzione delle agevolazioni godute dalle imprese nel caso queste dopo alcuni anni trasferiscano la sede all'estero; come la richiesta di reintrodurre le causali per i contratti a termine; come il divieto di licenziare il dipendente appena scaduti i tre anni di godimento della decontribuzione; e come l'approvazione di una nona salvaguardia per gli esodati. Senza contare che mentre si sono trovati i soldi per tante mance elettorali, la Ragioneria generale ha cassato, per “difetto di copertura”, gli emendamenti per le vittime dell'amianto.
 

L'ennesimo condono mascherato nel decreto fiscale
Con il decreto fiscale poi, approvato separatamente dal Senato ed inviato anch'esso alla Camera con un iter blindatissimo, il governo fa cospicui regali di Natale anche agli evasori e agli elusori fiscali, con la riproposizione della rottamazione delle cartelle anche per chi non aveva aderito a quella di un anno fa, la possibilità per chi non aveva pagato le ultime due rate di farlo entro maggio senza alcuna penale (in barba a chi aveva pagato regolarmente), con una nuova edizione della rottamazione dei contenziosi in corso con l'Agenzia delle Entrate, la riproposizione della voluntary disclosure bis per i capitali esportati illegalmente: insomma, un bel condono fiscale mascherato. Tant'è che i verdiniani, annusata l'aria, hanno pensato bene di proporre un emendamento (bocciato ma solo per decenza) per riaprire il condono edilizio di Berlusconi del 1994.
Nonostante i soldi attesi da questo nuovo condono, e i circa 11 miliardi finanziati in deficit con uno “sconto” unilaterale sulla riduzione strutturale del rapporto deficit/Pil chiesto dalla UE, per coprire i 20,4 miliardi della manovra mancano ancora almeno 3,5 miliardi che andranno reperiti con tagli alla spesa e con una sforbiciata ai bilanci di tutti i ministeri e degli enti locali. Tra cui 300 milioni dalla sanità e 2,2 miliardi dalle Regioni, per arrivare a quella “correzione strutturale” chiesta dalla UE che tuttavia non è ancora soddisfatta.
Secondo Bruxelles, infatti, mancherebbero almeno altri 3,4 miliardi, ma la cifra potrebbe salire a 7, e richiederebbe una manovra aggiuntiva in primavera, dopo le elezioni politiche. Da qui una lettera inviata al governo in cui si chiede perentoriamente di non fare “retromarce sulle riforme già attuate, come quella delle pensioni”.
 

La sordità del governo sulle pensioni
In realtà questo avvertimento è anche una copertura politica per Gentiloni e Padoan, in particolare per legittimare l'accordo separato con CISL e UIL che ha svenduto la vertenza sul rinvio dell'aumento automatico dell'età pensionabile a 67 anni, la più alta d'Europa, che per la legge Fornero scatterà dal 2019. Il costo del mancato adeguamento costerebbe 3 miliardi per un anno e 6 miliardi per due anni. Il governo ha presentato e fatto approvare invece un emendamento alla manovra che recepisce l'intesa con i crumiri Furlan e Barbagallo, stanziando solo 122 milioni per il 2019 e poco più negli anni successivi, fino a 300 milioni nel 2027. Già dalla sproporzione delle cifre si capisce quanto sia ridicolo l'accordo che la CGIL ha giustamente rifiutato.
L'emendamento del governo copre solo 14.600 lavoratori e 15 mestieri gravosi, a patto di averli svolti per 7 anni negli ultimi 10 e con almeno 30 anni di contributi. Ma per la CGIL si tratterebbe invece solo di 8 mila lavoratori su un totale di 200 mila che ogni anno vanno in pensione, e le 15 categorie sono state individuate in maniera frettolosa e senza uno studio approfondito, per chiudere in qualche modo la vertenza. Inoltre il governo ha del tutto ignorato gli altri 10 punti del verbale di sintesi firmato con le tre direzioni sindacali nel settembre 2016, che oltre al rinvio dell'aumento a 67 anni chiedeva in particolare garanzie per le pensioni dei giovani e per il riconoscimento del lavoro di cura delle donne, che dal 1° gennaio 2019 dovranno andare in pensione a 67 anni come gli uomini, senza nessun riconoscimento del superlavoro sopportato.
Dal palco di Piazza del Popolo, il 2 dicembre, Susanna Camusso ha detto che “non ci fermiamo oggi, non è questa la risposta unica che daremo. Continueremo nei prossimi giorni in Parlamento, presidieremo la discussione sulla legge di bilancio. E continuiamo a lavorare per preparare le prossima mobilitazione generale che, ve lo posso garantire, non è lontana nel tempo”. Non vorremmo che poi tutto si limitasse a cercare di strappare timidamente qualche ritocco in extremis alla Camera, mentre la mobilitazione, ammesso che la segretaria della CGIL sia di parola, arrivasse fuori tempo massimo. La mobilitazione va fatta invece subito, e deve essere uno sciopero generale nazionale di 8 ore, con manifestazione a Roma sotto Palazzo Chigi, per respingere e affossare in blocco questa manovra gradita solo al governo, ai padroni e alla UE imperialista.
 

6 dicembre 2017