Intesa tra governo e Cgil-Cisl-Uil sul rinnovo del contratto del Pubblico Impiego del comparto Funzioni centrali
Un contratto misero che non recupera 10 anni di blocco salariale
Mantenuto l'impianto della legge Brunetta. Ulteriore passo verso la privatizzazione della Pubblica Amministrazione

Poco prima di Natale, esattamente nella notte tra il 22 e il 23 dicembre, è stato firmato un preaccordo tra il governo, i confederali più un'altra organizzazione sindacale. Da una parte l'Agenzia che rappresenta le amministrazioni pubbliche italiane, l'Aran, dall'altra le rispettive categorie di Cgil, Cisl, Uil e gli “autonomi” (di destra) della Confsal. Non hanno firmato i sindacati non confederali USB e CGS.
La notizia nel giro di un giorno è sparita dai radar dei mezzi di comunicazione che l'hanno velocemente archiviata. Quando è stata trattata lo si è fatto comunque in maniera piuttosto superficiale, annunciandola come “la firma del contratto degli statali”. In realtà l'intesa riguarda solo i ministeriali, i dipendenti delle Agenzie fiscali e di altri enti come Inps e Inail. In tutto quasi 250mila lavoratori, tanti ma comunque una minoranza rispetto a quelli della sanità, enti locali e scuola-università-ricerca.
È altrettanto vero che tradizionalmente quello del Pubblico impiego delle Funzioni Centrali preluda tutti gli altri e quasi sicuramente fungerà da modello per i contratti delle altre categorie sopra elencate. I lavoratori di tutti i settori della Pubblica Amministrazione (PA) hanno quindi poco da festeggiare perché questa intesa non colma minimamente la perdita del potere d'acquisto causata da quasi 10 anni di blocco dei contratti della Pubblico Impiego. A sentire i TG filo-governativi sembra quasi che un aumento mensile lordo che va dai 63 ai 117 euro, per una media di 85, previsti dal nuovo accordo, cancelli con un colpo di spugna quanto successo negli anni precedenti e rappresenti chissà quale sforzo da parte dell'esecutivo Gentiloni.
Ricordiamo inoltre che il governo è stato costretto a intervenire da una sentenza della Corte Costituzionale, che risale a un anno e mezzo fa, la quale ha dichiarato illegittimo il blocco dei contratti pubblici. Altrimenti lo avrebbe certamente prorogato. Non dobbiamo nemmeno dimenticare che il 4 marzo si vota per le politiche tanto che il governo si sta dando un gran da fare per far arrivare aumento e arretrati nella busta del 27 febbraio, sperando di usarli come arma elettorale a favore del maggior partito dell'esecutivo, il PD.
Il nuovo contratto andrà a coprire il triennio 2016-2018, quindi i lavoratori a marzo, quando arriveranno gli aumenti, avranno già maturato oltre due anni per cui dovrebbero ricevere gli arretrati. Anche qui l'ennesima beffa perché la cifra una tantum media si aggirerà intorno ai 492 euro. Cifra che divisa per i 26 mesi di competenza, dà un misero aumento di 19 euro lordi. Alcuni sindacati hanno calcolato che le perdite accumulate in questi anni hanno portato a un taglio della busta paga dei lavoratori della PA attorno ai 5mila euro, stiamo quindi parlando di distanze siderali tra perdita di potere d'acquisto e aumenti salariali.
Suonano quasi surreali le dichiarazioni di Maurizio Petriccioli, della Cisl Funzione Pubblica: “la stipula del nuovo contratto supera finalmente il blocco dei rinnovi contrattuali ripristinando, da un lato, la difesa del potere di acquisto delle retribuzioni e, dall’altro, la possibilità per il sindacato di svolgere la sua azione di autorità salariale e di tutela negoziale degli interessi collettivi delle lavoratrici e dei lavoratori”. Evidentemente sta parlando di un altro contratto.
Lo stesso si può dire dei commenti della segretaria generale della Fp Cgil, Serena Sorrentino: “un risultato storico. Un contratto che dà più diritti e archivia la legge Brunetta”. Affermazioni prive di fondamento e bugiarde perché non solo esso non recupera il salario perso, ma anche sul fronte dei diritti non ci sono passi avanti, semmai si torna indietro; mentre la legge Brunetta, pur non venendo nominata, rimane tutt'ora il cardine su cui si basa la “riforma” della PA.
I sindacati parlano dell'introduzione di tutele importanti, ma è avvenuto l'esatto contrario. A fronte di alcune estensioni sui diritti individuali come l'aumento dell'aspettativa per le donne vittime di violenza ci sono restrizioni sui permessi per le visite mediche, minori diritti per i neoassunti e l'introduzione di nuovi strumenti molto discutibili come le “ferie solidali”. Invece di concedere ulteriori giornate ai dipendenti che ne hanno necessità per gravi problemi personali e familiari saranno gli altri lavoratori a dover sopperire a questi bisogni.
Rispetto alla legge Brunetta, non solo si mantiene il sistema di valutazione introdotto dalla controriforma dell'allora ministro del governo Berlusconi, ma vi sono degli inasprimenti delle misure disciplinari e, in nome di un fantomatico “merito” si cerca di dividere i lavoratori, non solo a livello di settori e di reparti, ma con una valutazione personale che classifica i dipendenti in fasce di serie A e di serie B. Infine non poteva mancare l'introduzione del welfare aziendale anche nel settore pubblico.
Complessivamente si tratta di un contratto che non recupera i soldi persi dai lavoratori in questo decennio e mantiene fermo l'impianto ideologico della legge Brunetta basato sull'attacco diretto ai lavoratori pubblici, considerati dei “fannulloni” e “parassiti” della società, da colpire con sanzioni disciplinari e che si meritano le buste paga più basse d'Europa, tanto da giustificare i continui tagli governativi alla spesa pubblica. Un ulteriore passo avanti verso la privatizzazione della PA dove l'obiettivo principale non è rappresentato dall'efficienza dei servizi pubblici ma dalla “produttività” e dal taglio delle spese, ovviamente sulla pelle dei lavoratori pubblici.
 

10 gennaio 2018