Lo certificano le motivazioni del processo Stato-mafia
Borsellino assassinato per la trattativa
Berlusconi sapeva e pagò i boss anche da premier
Ma chi diede l'ordine di trattare?

Nei primi anni '90 la Trattativa Stato-mafia avviata dagli ufficiali del Ros Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni con l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino poi gestita dal fondatore di Forza Italia il mafioso Marcello Dell'Utri attraverso lo stalliere di Arcore Vittorio Mangano con il pieno avallo dell'ex premier Silvio Berlusconi: “può certamente avere determinato l’effetto dell’accelerazione dell’omicidio di Borsellino” soprattutto se si pensa che, all'indomani della strage di Capaci, l'allora capo di Cosa nostra Totò Riina volle subito approfittare del “segnale di debolezza proveniente dallo Stato” per impedire a Borsellino, contrario alla Trattativa, di svelare ciò che aveva scoperto sul criminale intreccio Stato-mafia.
Questa è la incontrovertibile verità messa nero su bianco nelle 5.252 pagine delle motivazioni della sentenza del processo Trattativa Stato-mafia pubblicate significativamente il 19 luglio 2018, 26esimo anniversario della strage di via D’Amelio, dalla corte d’assise di Palermo che il 20 aprile scorso ha concluso il processo e, sulla base delle richieste dei pubblici ministeri Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene e Vittorio Teresi, ha inflitto dodici anni di carcere all’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri e agli ex generali Mario Mori e Antonio Subranni; 8 anni per l’ex colonnello Giuseppe De Donno e varie altre condanne ai boss mafiosi coinvolti.

La strage di Via D'Amelio
Nelle motivazioni il presidente Alfredo Montalto e il giudice a latere Stefania Brambille sottolineano fra l'altro che: “Non c'è dubbio che quell'invito al dialogo pervenuto dai carabinieri attraverso don Vito costituisca un sicuro elemento di novità che può certamente avere determinato l'effetto dell'accelerazione dell'omicidio di Borsellino”.
La mafia ha approfittato “dei segnali di disponibilità al dialogo e di debolezza proveniente dalle istituzioni dello Stato e di cedimento alla tracotanza mafiosa culminata nella strage di Capaci – pervenuti al boss Totò Riina, attraverso Vito Ciancimino, proprio nel periodo immediatamente precedente la strage di via D'Amelio”.
Non solo. I giudici hanno anche appurato che “non vi è alcun elemento di prova che possa collegare il rapporto mafia e appalti all'improvvisa accelerazione della strage Borsellino”, come sostenuto dalle difese degli ufficiali del Ros, per cui: “non vi è dubbio” che i contatti fra Mori, De Donno e Ciancimino “ben potevano essere percepiti da Riina come forieri di sviluppi positivi per l'organizzazione mafiosa, nella misura in cui quegli ufficiali lo avevano sollecitato ad avanzare richieste cui condizionare la cessazione della strategia di attacco frontale allo Stato”. Ancor più, concludono i giudici, se si tiene conto del fatto che l’indagine su mafia e appalti “non era certo l'unica, né la principale di cui Borsellino ebbe a interessarsi in quel periodo”.
Dunque Borsellino è stato assassinato proprio perché rappresentava un ostacolo allo sviluppo del criminale sodalizio fra Stato e mafia.
Questa, scrivono ancora i giudici nelle motivazioni, è una conclusione che trova piena “convergenza nel fatto che secondo quanto riferito dalla moglie Agnese, poco prima di morire Borsellino le aveva fatto cenno a contatti tra esponenti infedeli delle istituzioni e mafiosi”.

Il ruolo di Dell’Utri
“Le promesse o quanto meno la disponibilità manifestata da Dell’Utri per soddisfare le esigenze di Cosa nostra” e il ruolo di mediatore che il fondatore di Forza Italia ha svolto nella Trattativa a partire dal 1993 per conto di Berlusconi, come peraltro già scritto nella sentenza che lo ha condannato a sette anni per i suoi rapporti con i boss (dal 1974 al 1992) “hanno contribuito all’entusiastico appoggio dato da Cosa nostra in Sicilia alla nascente nuova forza politica”.
In quel periodo, a cavallo fra il 1993 e il 1994 Dell'Utri “faceva da intermediario di Cosa Nostra per i pagamenti e riferiva a Berlusconi riguardo ai rapporti coi mafiosi ottenendone le necessarie somme di denaro e l'autorizzazione a versarle a Cosa Nostra”. Il canale attraverso cui la mafia recapitava i desiderata al senatore Dell'Utri che a sua volta li girava a Berlusconi era lo stalliere di Arcore Vittorio Mangano soprattutto, sottolineano i giudici, per quanto riguarda “le problematiche relative alle iniziative legislative che i mafiosi si attendevano dal governo”. Ossia l'approvazione lampo del famigerato “decreto Biondi” che avrebbe di fatto spalancato le porte del carcere ai mafiosi e azzerato tutte le indagini sulla mafia.
Tutto era pronto, i boss avevano già ricevuto garanzie precise da Marcello Dell’Utri. Ma, poi, un’intervista dell’allora vicepremier Maroni (messo in guardia dal procuratore Caselli) fece saltare tutto.

Berlusconi sapeva, pagava e legiferava
Del resto, annotano i giudici: “Soltanto Silvio Berlusconi, quale presidente del Consiglio, avrebbe potuto autorizzare un intervento legislativo quale quello che fu tentato con l’approvazione del decreto legge del 14 luglio 1994 numero 440 e quindi riferirne a Dell’Utri, per tranquillizzare i suoi interlocutori”, ovvero i mafiosi.
Su questo i giudici di Palermo non hanno dubbi: “Berlusconi sapeva dei contatti fra Dell’Utri e Cosa nostra”. E il fidato Dell’Utri “riferiva quanto di volta in volta emergeva dai suoi rapporti con l’associazione Cosa nostra mediati da Vittorio Mangano”.
Non a caso Berlusconi cercò in tutti i modi di accontentare i mafiosi varando il “decreto Biondi” che ufficialmente si occupava di corruzione e concussione ma che fra le sue pieghe nascondeva due piccole devastanti modifiche al codice di procedura penale che rendevano l’arresto dei boss non più obbligatorio in assenza di comprovate “esigenze cautelari” e intimavano ai magistrati antimafia di comunicare entro tre mesi agli indagati per mafia l’esistenza di indagini a loro carico.
Evidentemente la revoca dei 300 decreti di 41 bis firmati nel 1993 dall’allora ministro della Giustizia Giovanni Conso all'indomani delle bombe mafiose esplose fra Roma, Milano e Firenze non erano più sufficienti per Cosa nostra. Con l'insediamento di Berlusconi a Palazzo Chigi, 11 maggio 1994, i boss pretendono di più. Non solo perché Berlusconi è l'imprenditore che in virtù del “patto di protezione” stipulato nel 1974 per evitare il sequestro dei propri familiari e poi per proteggere i ripetitori Tv in Sicilia, continua a pagare Cosa nostra; ma soprattutto perché adesso c'è in piedi una vera e propria Trattativa fra lo Stato e la mafia.
I pagamenti di Berlusconi ai boss mafiosi sono proseguiti fino al dicembre 1994, scrive il presidente della corte d’assise Alfredo Montalto, che trovano un “formidabile riscontro” nelle intercettazioni di Totò Riina col compagno di detenzione Alberto Lorusso nel carcere di Opera che confermano in pieno le dichiarazioni dei pentiti del processo Dell’Utri, e in particolare di Giusto Di Natale, che hanno raccontato delle centinaia di milioni versati da Berlusconi a Cosa Nostra come “pizzo” per l’installazione delle ‘antenne tv’ a Palermo. È il 22 agosto 2013 quando Riina sbotta: “A niatri ni rava ducentucinquanta ... mili ... miliuna ogni sei misi ... ducentucinquanta! Soddi chi spittavanu a niatri...”. “Si tratta, dunque – chiosano i giudici – esattamente dello stesso importo che fu fatto annotare a Di Natale nel ‘libro mastro’nel 1994”. E siccome fino a quel momento erano note solo le dichiarazioni di Cancemi, pubblicate su L’Espresso del 25 marzo 1994 col titolo “Duecento milioni di sospetti”, che faceva riferimento, appunto, a 200 milioni, per i giudici “la predetta piena coincidenza della somma di 250 milioni indicata dal collaborante senza adagiarsi sulle pregresse acquisizioni processuali e senza potere ovviamente prevedere che sarebbe stata confermata, molti anni dopo, addirittura direttamente dal Salvatore Riina, costituisce un formidabile riscontro alla sua dichiarazione e comprova, conseguentemente, senza possibilità di dubbio e d'equivoco, che ancora in quell'anno, il 1994, nel quale l'incarico della gestione del ‘libro mastro’ era stato affidato a Di Natale, quella somma indicata da Riina fu effettivamente versata, non essendo minimamente ipotizzabile che potesse essere fatta una tale annotazione prima del relativo versamento”.
Dunque “Senza l’avallo e l’autorizzazione di Berlusconi – si legge ancora nelle motivazioni - Dell’Utri non avrebbe potuto ovviamente disporre di così ingenti somme”, che sono state pagate fino al 1994, quando Berlusconi era già presidente del Consiglio. Così come, scrivono ancora i giudici, Berlusconi sapeva “del pericolo di reazioni stragiste che un’inattività nel senso delle richieste dei mafiosi avrebbe potuto fare insorgere” ossia l'approvazione del decreto che annacquava l’applicazione della custodia cautelare anche per i mafiosi.
Non a caso è proprio Berlusconi a essere citato più volte in carcere dal boss di Brancaccio Giuseppe Graviano durante alcune intercettazioni proprio nei giorni in cui il boss era chiamato a testimoniare al processo Dell’Utri.
Tutti fatti, scrivono i giudici, relativi al “risalente rapporto di Dell'Utri con esponenti dell’associazione mafiosa e nell’intermediazione dallo stesso operata tra l’organizzazione mafiosa nella sua più alta rappresentanza (prima Stefano Bontade e poi Salvatore Riina) da un lato e Berlusconi dall’altro, e ciò per quasi un ventennio durante il quale Cosa Nostra ha potuto così lucrare cospicui vantaggi economici sia per l’effetto di investimenti, sia quali proventi dell’attività di carattere estorsivo posta in essere nei confronti del medesimo Berlusconi”.

Anche la “sinistra sapeva”
I giudici hanno appurato che fu Giovanni Brusca a inviare Mangano da Dell’Utri per chiedere il sostegno legislativo del premier Berlusconi. Brusca ha riferito agli inquirenti fra l'altro che durante la stagione delle bombe “la sinistra sapeva”. Poi istruisce Mangano al quale “gli dico: ‘Guarda, il primo punto è l’urgenza immediata di attenuare il 41-bis. Nel tempo di svuotarlo... purtroppo capendo che non lo potevano, perché era tutta pubblicità che era stata fatta, non poterlo revocare definitivamente, quantomeno svuotarlo nei contenuti, e poi da lì in poi avremmo creato un contatto per cominciare a fare delle leggi o decreti leggi che fossero in funzione sempre dell’interesse di Cosa Nostra. E di dirgli se non si mette a disposizione, noi continueremo con la linea stragista, che già erano successe due, tre, quattro... forse tutte, in quel momento ancora io non sapevo di quella dell'Olimpico, la mancata... Addirittura neanche sapevo che era già stato messo in atto, quindi non... io non sapevo nulla. Vittorio Mangano tutto contento e soddisfatto di questo incarico dice: ‘Parto e glielo vado a dire’”. Dopo qualche giorno Mangano porta la risposta interlocutoria di Dell’Utri e Brusca racconta: “Lui ritorna e dice tutto contento ‘grazie, grazie, vediamo quello che possiamo fare’ e da lì si è instaurato questo rapporto”.

Il coinvolgimento dell'ex ministro Mannino
Secondo i giudici è a dir poco singolare che l’ex ministro DC Calogero Mannino, (assolto in primo grado nel processo col rito abbreviato e ora imputato in appello), nel ’92 bersaglio di minacce da parte di Cosa Nostra, si sia rivolto “non a coloro che avrebbero potuto rafforzare le misure della sua sicurezza, ma a ufficiali dell’Arma ‘amici’ e in particolare a Subranni”. I giudici fanno rilevare che quest’ultimo “non aveva competenza per preservare Mannino da attentati”, e che dunque il politico lo contattò con l’obiettivo esclusivo di “attivare un canale che per via info-investigativa potesse acquisire notizie dettagliate sui movimenti di Cosa Nostra”. Non è dato sapere “come sia stata recepita da Subranni quella sollecitazione”, ma è un dato di fatto che “dopo Capaci, De Donno, sollecitato dai suoi superiori Subranni e Mori, contatta Ciancimino”, lanciando “un oggettivo invito all’apertura di un possibile dialogo con i vertici di Cosa Nostra e all’accantonamento della strategia mafiosa nell’ambito della quale si collocava l’uccisione di Mannino”.

Il falso “papello” di Ciancimino
Il fatto che il documento sia stato consegnato da Massimo Ciancimino e che possa identificarsi con il “papello” solo per le dichiarazioni di quest’ultimo, scrivono i giudici “è un ostacolo insormontabile alla conclusione che possa trattarsi del vero papello”. E, d’altra parte, “anche se fosse il vero papello, ci si troverebbe davanti al frutto avvelenato della scellerata condotta di Massimo Ciancimino che impedisce di utilizzare persino quel nucleo di fatti veri sui quali egli poi ha costruito le sue fantasiose sovrastrutture”. In ogni caso la “probabile falsità del documento”, non significa che Ciancimino padre “non sia stato effettivamente destinatario di richieste, eventualmente anche scritte, da parte dei vertici mafiosi quali, almeno in parte, quelle del papello esibito da Massimo e acquisito agli atti”. La questione cruciale, infatti, “è accertare che Riina, anche solo oralmente, abbia posto condizioni per l’abbandono della strategia mafiosa e che queste condizioni siano giunte al destinatario finale (il governo)”. Queste condizioni sono qualificabili come minacce? Sì. Sul punto, conclude la Corte, “è stata raggiunta la prova sulla formulazione e l’inoltro, da parte di Riina, tramite il canale Ciancimino aperto dai carabinieri, di alcune espresse condizioni cui subordinare la cessazione della contrapposizione totale di Cosa Nostra allo Stato”.

La mancata perquisizione del covo di Riina
La condotta degli ufficiali del Ros desta ancora oggi “profonde perplessità”, osservano i giudici, che ricorda come anche la Corte dell’Appello Mori-Obinu, nel verdetto del maggio 2016, ebbero a definire “davvero singolare” la scelta di non perquisire l’abitazione del boss dopo la sua cattura nel gennaio del ’93. La stessa “strategia attendista” evocata dai carabinieri come giustificazione, “avrebbe senso solo nel contesto di un’effettiva sorveglianza del covo”, che invece non ci fu. La sentenza fa dunque riferimento a “condotte omissive” dirette “a preservare da interferenze la propria interlocuzione con i vertici di Cosa Nostra”.
Motivazioni che dicono tanto ma non tutto sui tanti misteri che ancora avvolgono quelle efferate stragi mafiose a cominciare da chi diede l'ordine di trattare con la mafia.
Su questo punto speriamo che le parole del procuratore aggiunto della Direzione distrettuale antimafia di Palermo, Vittorio Teresi, trovino immediato riscontro giudiziario e “costituiscano la base di partenza per le altre Procure impegnate a chiarire i misteri delle stragi del 1992 e 1993”.

31 luglio 2018