Al vertice Apec
Scontro Cina-Usa sulla Via della seta
Trump reagisce al tentativo di Xi di far conquistare alla Cina il ruolo di “leader globale”

 
Il primo ministro della Papua Nuova Guinea, Peter O'Neill, in qualità di ospite ha dato il consueto saluto di benvenuto ai rappresentanti dei 21 paesi alla 26a riunione annuale del forum di Cooperazione economica Asia-Pacifico (Apec nella sigla inglese, ndr) che si è svolto il 18 novembre nella capitale Port Moresby. Non altrettanto consueta è stata la dichiarazione dello stesso premier, in qualità di presidente della riunione, che per la prima volta ha chiuso i lavori del forum in mancanza dell'approvazione di un documento formale come i precedenti. La maggior parte dei paesi partecipanti concordava con il testo completo mentre un piccolo numero aveva opinioni alternative o aggiuntive su un paio di frasi, dichiarava O'Neill. La mancanza di un documento finale in realtà era causato dallo scontro niente affatto dietro le quinte ma esploso in maniera palese negli interventi dei principali protagonisti, dal presidente cinese Xi Jinping al vicepresidente americano Mike Pence sulle questioni del commercio alimentate dalle sanzioni commerciali americane, minacciate e in parte attuate verso i concorrenti Cina e Europa e dalle misure di ritorsione verso gli Usa.
“La maggior parte delle economie ha accettato il testo seguente, mentre un numero limitato aveva opinioni alternative o supplementari sui paragrafi 9, 16 e 17”, dichiarava O'Neill, segnalando alcune divergenze sul ruolo di mediatore dei contrasti commerciali da parte dell'Organizzazione mondiale del commercio (Omc o Wto nella sigla inglese, ndr) e sulla realizzazione degli Obiettivi Bogor, l'ambiziosa intesa raggiunta dai paesi Apec nel vertice del 1994 a Bogor in Indonesia che prevedeva il raggiungimento di un’area di libero scambio entro il 2010 fra le economie più industrializzate ed entro il 2020 per quelle in via di sviluppo. Il traguardo del 2010 non è stato raggiunto e sostituito nel 2015 dagli accordi tra 12 paesi membri per istituire un’area di libero scambio tra loro, la Trans Pacific Partnership (Tpp) seppellita da Trump appena arrivato alla Casa Bianca. Conclusioni che non erano certo una sorpresa per i partecipanti al forum dato che anche i lavori del vertice preparatorio tra i ministri economici dei paesi Apec, tenuto sempre a Port Moresby il 15 novembre, si erano conclusi con una dichiarazione del presidente che segnalava “punti di vista alternativi o aggiuntivi” sui paragrafi che trattavano gli stessi temi.
“Durante la sessione di discussioni, alcuni leader hanno affermato che era meglio non documentare le opinioni divergenti sul commercio, nel rispetto dello spirito del forum”, confessava il 26 novembre il direttore esecutivo della Segreteria dell'Apec, Alan Bollard. Le posizioni divergenti venivano diluite nel linguaggio diplomatico della dichiarazione finale del presidente del forum O'Neill, che si chiudeva con l'invito al prossimo appuntamento del 2019 in Cile, ma quelle tra Cina e Usa erano palesi.
L'inizio delle guerre commerciali volute dal presidente Usa Donald Trump per tentare di riequilibrare i conti negativi della bilancia commerciale americana in particolare verso Cina e paesi europei e i tentativi di demolire gli accordi multilaterali per modificarli o sostituirli con intese bilaterali sono rimbalzati con fragore sui tavoli del forum Apec. Dove l'imperialismo americano sotto la direzione di Trump ha accentuato la reazione al tentativo del concorrente socialimperialista Xi di far conquistare alla Cina il ruolo di “leader globale”. Nella riunione di Port Moresby di questo organismo internazionale di consultazione e di cooperazione fra le due sponde del Pacifico sui temi riguardanti il commercio e gli investimenti, creato su iniziativa dell'imperialismo americano con la dichiarazione di Canberra del novembre 1989 e a cui nel tempo hanno aderito 20 paesi (Australia, Brunei, Canada, Cile, Cina, Repubblica di Corea, Filippine, Giappone, Indonesia, Malaysia, Messico, Nuova Zelanda, Papua Nuova Guinea, Perù, Russia, Singapore, Stati Uniti, Taiwan, Thailandia, Vietnam) e la Regione amministrativa speciale della Cina, Hong Kong, il vicepresidente americano Pence attaccava frontalmente Pechino.
“Abbiamo preso posizione contro paesi che usano pratiche commerciali sleali. Basta vedere la posizione che il presidente Trump ha assunto nei nostri rapporti commerciali con la Cina “ che negli scambi commerciali avrebbe “approfittato degli Stati Uniti per molti anni. E quei giorni sono finiti”, “ora tutto è cambiato”, sosteneva Pence. E assicurava che le guerre commerciali continueranno, “gli Stati Uniti non cambieranno rotta fino a quando la Cina non cambierà i suoi modi”, non ci sono regole del Wto che tengano.
Pence tra l'altro ricordava chi comanda all'Apec (Washington che nella regione garantirebbe la sicurezza e “la libertà di navigazione, nel Mar Cinese Meridionale” minacciate dalle nuove basi e dalle fregate di Pechino), chi mette il maggior numero di dollari nelle iniziative (sempre Washington con investimenti di 1,4 trilioni di dollari, più di Cina, Giappone e Corea del Sud messi insieme) e metteva in guardia gli altri paesi dal farsi “comprare” dal renminbi cinese e finire strozzati dal debito verso Pechino. Li ammoniva a non farsi irretire dagli affari legati alla nuova Via della seta cinese; definita una “cintura costrittiva” e una “strada a senso unico” a vantaggio di Pechino. Certo, così è nelle intenzioni del socialimperialismo cinese che cerca di scalzare dalle sue posizioni di dominio l'imperialismo americano concorrente, che a sua volta non è certo un “partner onesto e amico fedele” come disegnato da Pence.
Il nuovo imperatore della Cina cinese Xi Jinping non rispondeva direttamente alla carica a testa bassa degli Usa, sottolineava che la Belt and Road Initiative (BRI), uno dei modi con i quali è chiamata la Via della Seta, sarebbe “una piattaforma aperta per la cooperazione” e non “è concepita per essere al servizio di un’agenda geopolitica nascosta, non è diretta contro nessuno e non esclude nessuno né è una trappola come qualcuno l’ha etichettata”. Non lo sarebbe tantomeno per gli oltre 140 paesi e organizzazioni internazionali coi quali la Cina ha già firmato documenti di cooperazione relativi alla BRI.
Il rinnegato Xi difendeva “l'Apec, un pioniere nella costruzione di un'economia globale aperta” e rilanciava sugli “Obiettivi Bogor per il 2020” indicando che “dovremmo fissare i nostri punti di vista sulla cooperazione post-2020 e sforzarci di costruire un'area di libero scambio dell'Asia-Pacifico (FTAAP). Dovremmo dire no al protezionismo e all'unilateralismo, sostenere il sistema commerciale multilaterale incentrato sull'OMC”, quel sistema dove il socialimperialismo cinese si è conquistato una posizione di forza. E chiudeva il suo intervento invitando i partner Apec al secondo Belt and Road Forum per la cooperazione internazionale in programma a Pechino nel prossimo aprile.

28 novembre 2018