Il parlamento inglese boccia l'accordo con l'Ue sulla Brexit
Respinta la mozione di sfiducia alla May, che apre a Corbyn. La premier ha presentato un “Piano B”, privo di qualunque maggioranza parlamentare

 
La premier britannica Theresa May ha annunciato il 21 gennaio alla Camera dei Comuni il suo piano alternativo sulla Brexit, da preparare nei negoziati con quasi tutti gli altri partiti, dopo la sonora bocciatura del suo accordo con l'Ue che comunque non ha portato alla caduta del suo esecutivo per la successiva risicata fiducia strappata in aula. Un governo, quello della May, che nasce col compito principale di negoziare l'uscita dalla Ue e che vede bocciato il suo progetto costruito in una lunga trattativa con i negoziatori europei avrebbe dovuto fare le valige e passare la mano; non è così, e questo paradosso dà il senso di quanto la borghesia inglese sia divisa nella scelta di quale strada seguire nella Brexit, con ancora forte la fazione guidata dall'ex ministro Boris Johnson che vuole non una ricollocazione della Gran Bretagna negli accordi commerciali e doganali che la Ue ha con diversi paesi europei non membri ma una rottura netta per rinegoziare da zero nuove intese. Trump insegna, e non per nulla l'imperialismo americano ha spinto per la rottura dell'amico imperialista britannico con la Ue e gode delle difficoltà del concorrente imperialismo europeo. Va da sé che i popoli europei non devono tifare per nessuna delle posizioni imperialiste in campo; la Ue è in difficoltà, l'uscita della Gran Bretagna comunque verrà definita la indebolisce ancora di più, e questo è un bene.
La May ha chiesto aiuto persino all'opposizione laburista di Corbyn che al momento ha rifiutato. Intanto ha consegnato il suo nuovo progetto alla discussione dell'aula e programmato un ennesimo viaggio a Bruxelles nel tentativo di uscire dall'angolo in cui si è infilata; non sarà facile dato che il nuovo piano è attualmente privo di qualunque maggioranza parlamentare. Inoltre le linee principali del cosiddetto “Piano B” sono le stesse del progetto bocciato dal parlamento e cioè che questo accordo “è l'unica soluzione contro il No Deal”, ossia a nessun accordo, che comunque resta come opzione; no a un rinvio della scadenza del 29 marzo, la data dell'uscita definita dalle procedure Ue oltre alla quale resta solo l'uscita secca; no a un secondo referendum. L'altro passaggio della May sarà quello con i negoziatori europei per tentare di strappare nuove concessioni sul cosiddetto backstop, ossia la regolamentazione degli scambi attraverso il confine nord-irlandese con un regime speciale provvisorio previsto per l'Irlanda del Nord, una soluzione che lascerebbe le cose come stanno in attesa di un accordo specifico da definire senza scadenze indicate. La mancanza di una data per chiudere la questione del confine irlandese è stata un argomento determinante per motivare gli oppositori al progetto May, anche nella sua maggioranza governativa, e ha portato alla bocciatura del suo piano.
 

La storica vittoria del Sì all'uscita dalla Ue nel referendum del 2016
 
La questione Brexit prendeva il via dopo che i popoli della Gran Bretagna conseguivano una grande vittoria contro l'Ue imperialista votando per l'uscita dall'Unione nel referendum del 23 giugno 2016. Allora sui 46,5 milioni di elettori se ne recarono alle urne oltre 33 milioni, il 72,2% e in 17,4 milioni votarono per il Sì contro i 16,1 milioni di consensi andati al No. La definimmo una vittoria storica, un potente incoraggiamento per tutti i popoli dei paesi membri dell'Ue per richiedere un analogo referendum, un voto contro l'Europa della grande finanza, delle banche e della City, un No all'Europa del grande capitale e non dei popoli. Su il Bolscevico numero 20/16 scrivevamo che si trattava di “un esempio di come la pensano i popoli della Ue quando gli viene data la possibilità di farlo, un segnale chiaro contro l'Unione europea imperialista e la sua politica neoliberista e affamatrice. Questo è il sostanziale significato del referendum nonostante l'affanno dei delusi cantori dell'Unione europea imperialista nell'evidenziare oltremisura il contributo che pure c'è stato da parte dei partiti e delle posizioni ultranazionaliste, razziste e xenofobe per una uscita da destra dalla Ue”.
L'allora premier conservatore britannico David Cameron dopo la sconfitta referendaria si dimetteva e annunciava di voler lasciare al nuovo esecutivo il compito di attivare l'articolo 50 del Trattato di Lisbona per uscire dall'Unione Europa e dare il via formale al negoziato. A seguire la vicenda ci penserà il governo guidato da Theresa May, in carica dal 13 luglio 2016 e rinnovato dopo le elezioni anticipate del 2017 che non davano la sperata maggioranza assoluta ai conservatori e li costringevano a formare un esecutivo col determinante appoggio esterno del Partito Unionista Democratico, quello che rappresenta i protestanti di destra dell'Irlanda del Nord.
 

La richiesta formale di uscita e l'avvio dei negoziati
 
Il Consiglio europeo riceveva la richiesta formale di Londra il 29 marzo 2017, esprimeva “rammarico per l'uscita del Regno Unito dall'Unione europea” e chiariva subito che “l'Unione agirà in modo unitario e salvaguarderà i suoi interessi. La nostra prima priorità sarà ridurre al minimo l'incertezza che la decisione del Regno Unito comporta per i nostri cittadini, imprese e Stati membri. Pertanto, ci concentreremo anzitutto sull'insieme delle modalità essenziali per un recesso ordinato”, per offrire soprattutto le certezze giuridiche negli affari dei capitalisti.
Il Consiglio europeo del 29 aprile 2017 chiariva che “l'Unione si impegnerà a fondo per raggiungere tale obiettivo ma si preparerà per essere in grado di gestire la situazione anche in caso di eventuale fallimento dei negoziati” e definiva i suoi orientamenti per il negoziato a partire dal punto che “la salvaguardia dell'integrità del mercato unico esclude la partecipazione ad esso su base settoriale. Un paese che non è membro dell'Unione e non rispetta i medesimi obblighi di un membro non può avere gli stessi diritti e godere degli stessi vantaggi di un membro”. Se sei fuori dal mercato unico non puoi avere nessuno dei vantaggi dei membri.
Liquidate in due righe le questioni attinenti alla libera circolazione delle persone tra i paesi membri, il Consiglio puntualizzava la necessità di regolare i conti e gli impegni finanziari assunti da Londra verso il bilancio Ue e le banche europee, da rispettare fino alla data di uscita; la Gran Bretagna ha comunque un saldo negativo di circa 4 miliardi di euro. Dedicava un punto alla questione irlandese affermando che “considerate le circostanze specifiche dell'isola d'Irlanda, sarà necessario trovare soluzioni flessibili e creative, anche allo scopo di evitare una frontiera fisica, rispettando al contempo l'integrità dell'ordinamento giuridico dell'Unione”.
Riguardo ai futuri rapporti tra Ue e Gran Bretagna “il Consiglio europeo accoglie con favore e condivide il desiderio del Regno Unito di instaurare uno stretto partenariato tra l'Unione e il Regno Unito dopo la sua uscita. Se è vero che le relazioni tra l'Unione e uno Stato che non ne è membro non possono offrire gli stessi vantaggi dell'appartenenza all'Unione, rimarranno legami forti e costruttivi nell'interesse di entrambe le parti che dovrebbero spingersi oltre i soli scambi commerciali”. Quando è un problema definire i termini di un divorzio figuriamoci se non è altrettanto complicato, se non di più, definire anche i termini del nuovo rapporto e infatti lo sviluppo del negoziato si confermerà faticoso, in grado di definire alcuni aspetti di natura tecnica ma non a sciogliere i principali nodi politici su Irlanda del Nord e legami futuri.
 

Le tappe del negoziato
 
Il negoziato iniziava il 19 giugno 2017 quando Michel Barnier, capo negoziatore dell'Ue, e David Davis, ministro inglese per l'uscita dall'Unione europea, avviavano il primo ciclo di negoziati sulla Brexit a Bruxelles. Fra i temi principali individuano la liquidazione finanziaria, i diritti dei cittadini e il confine dell'Irlanda del Nord.
Solo dopo la quinta sessione del 20 novembre 2017 ci saranno i primi movimenti, lo spostamento delle due agenzie dell'Ue che avevano sede nel Regno Unito: l'Agenzia europea per i medicinali (EMA) finisce a Amsterdam e l'Autorità bancaria europea (ABE) a Parigi. Dal 29 gennaio 2018 il Regno Unito è definito dal Consiglio Ue un “paese terzo” e non parteciperà più alle istituzioni e ai processi decisionali dell'Ue, un compito dei 27 paesi membri restanti.
Il 28 febbraio 2018 la Commissione europea pubblicava il progetto di accordo sui termini giuridici della separazione e dopo il successivo incontro negoziale del 19 marzo veniva dato alle stampe il testo dell'accordo sui paragrafi da discutere che riguardavano i diritti dei cittadini, la liquidazione finanziaria, il periodo di transizione e altre questioni relative alla separazione. Il documento che successivamente sarà validato dal Consiglio europeo del 23 marzo 2018 evidenziava che “riguardo alla questione della frontiera tra l'Irlanda del Nord e l'Irlanda, i negoziatori convengono che una versione giuridicamente operativa della soluzione 'di salvaguardia' (backstop) dovrebbe essere concordata come parte del testo giuridico dell'accordo di recesso. Tale soluzione sarà in linea con quanto convenuto nel dicembre 2017 nella relazione congiunta e si applicherà a meno che e fintantoché non sarà trovata un'altra soluzione”.
Il Consiglio del 23 marzo dichiarava che “l'Ue intende instaurare con il Regno Unito un partenariato più stretto possibile che includa, tra l'altro, la cooperazione commerciale ed economica, la sicurezza e la difesa. Tuttavia, i leader dell'UE a 27 rilevano che le attuali posizioni del Regno Unito 'limitano la portata di tale futuro partenariato'”. Pur in via di separazione, Londra non voleva perdere il treno partito dopo l'annuncio del suo divorzio, su iniziativa della Francia di Macron e della Germania della Merkel, di sviluppare una forza militare dell'imperialismo europeo autonoma dalla Nato con chi ci sta e partecipava all'iniziativa. Sul resto il governo May non riuscirà a trovare una posizione comune e di conseguenza una soluzione negoziata con la Ue. Come evidenziava il comunicato finale del vertice europeo del 29 giugno 2018 dove i 27 paesi si dichiaravano “preoccupati per i mancati progressi sostanziali sull'accordo per una soluzione 'di salvaguardia' (backstop) per l'Irlanda/Irlanda del Nord” e sottolineano la necessità di “accelerare i lavori per preparare una dichiarazione politica sul quadro delle future relazioni”.
Tale situazione resterà nel progetto finale dell'accordo sulla Brexit che il 15 novembre il capo negoziatore dell'Ue Barnier trasmetteva al presidente Donald Tusk per votarlo nel vertice straordinario del 25 novembre 2018. Dopo quasi un anno e mezzo di negoziati i due punti critici non erano affatto sciolti.
 

Restano in sospeso backstop e rapporti futuri
 
Un artifizio diplomatico dava una soluzione sulla spinosa questione di come considerare il confine tra la Repubblica di Irlanda e la colonia inglese nel nord dell'isola, l'Ulster; quel confine oggetto degli accordi di pace del 10 aprile 1998, l’Accordo del Venerdì Santo firmato dal primo ministro irlandese Bertie Ahern e il primo ministro britannico Tony Blair che mise fine alla rivolta trentennale dei cattolici indipendentisti nordirlandesi, rievocata dall'autobomba esplosa il 19 gennaio scorso di fronte al tribunale di Derry, in Irlanda del Nord. Non riuscendo a trovare una soluzione accettabile alle due parti, il protocollo definito tra Londra e Bruxelles congelava la situazione attuale di confine aperto a tempo illimitato, in attesa di un futuro accordo. L’Irlanda del Nord rimarrebbe nel mercato comune europeo e nell’unione doganale senza che vengano ripristinati i controlli alla frontiera con l’Irlanda e di fatto continuerebbe sul piano economico a far parte dell’Unione Europea, seppur a tempo determinato, mentre il resto del Regno Unito si troverebbe fuori. La separazione giuridica, seppur relativa alle sole questioni commerciali, tra Ulster e Gran Bretagna determinava il voto contrario dei parlamentari dell'Ulster e di una parte dei conservatori e la conseguente bocciatura dell'intesa.
Quanto ai futuri rapporti fra le due parti la minoranza dei laburisti di Corbyn vorrebbe mantenere l'unione doganale, la May neanche quella; nessuno vuole una intesa del tipo quella tra Ue e Norvegia con il governo di Oslo che dopo la bocciatura di due referendum di adesione alla Ue ha concordato l'adesione all'Area economica europea, quindi al mercato comune e alla libera circolazione di capitali, merci e persone.
Nonostante le parti importanti non ancora definite nella bozza finale dell'intesa, la Commissione europea avviava il 5 dicembre scorso la procedura per la firma, avallata dal Consiglio europeo dell'11 gennaio. Il testo era inviato al Parlamento europeo per l'approvazione e il presidente Tusk, in uno scambio di lettere con la May, dichiarava che “saremo entrambi pronti a firmare l'accordo di recesso non appena il Parlamento del Regno Unito avrà espresso il 'voto significativo'". Che ci sarà ma contro.
Il 15 gennaio il Parlamento britannico bocciava il piano del governo May sulla Brexit con 432 no e 202 a favore. Quasi 120 deputati tra conservatori e dell'Ulster votavano contro determinando la sconfitta del loro governo. Il leader laburista Jeremy Corbyn sosteneva che il governo nel negoziato non aveva concordato un documento preciso e dettagliato per quanto riguardava tra le altre i rapporti commerciali con l'Unione e avrebbe portato a “uno sconsiderato salto nel buio”, era un accordo “cattivo per l'economia, la democrazia e per il Paese”. Corbyn annunciava una mozione di sfiducia per il giorno successivo, quando i “dissidenti” rientravano tra i ranghi e la respingevano con 325 voti contro 306.
La May invitava al dialogo le opposizioni, compreso i laburisti che rispondevano picche: erano disposti a sedersi al tavolo solo se la May avesse mollato l'ipotesi del no deal, nessun accordo. E puntavano a nuove elezioni politiche. La premier annunciava infine la presentazione alla discussione in parlamento di un testo per una nuova intesa da portare successivamente a Bruxelles per un nuovo accordo da raggiungere prima del 29 marzo. Al momento una via che sembra senza uscita, senza una maggioranza parlamentare che la sostenga e con il capo negoziatore Barnier che ha dichiarato che la Ue è disponibile ad alcune modifiche ma solo nella dichiarazione politica allegata all'accordo di novembre. Che non ha valore giuridico.
L'impasse in cui si trova il negoziato per arrivare a un accordo tra Ue e Gran Bretagna sulla Brexit è l'ennesimo evidente segnale dell'aumento delle contraddizioni interimperialiste nell'attuale situazione internazionale che vede il declino della superpotenza dominante americana, la rapida avanzata del socialimperialismo cinese, che espande il suo ruolo di superpotenza in ascesa grazie a un ramificato sistema di alleanze e all'irresistibile penetrazione economica in tutto il mondo e, infine, le difficoltà economiche, e anche politiche, in cui versa la superpotenza imperialista europea.
 

23 gennaio 2019