I socialimperialisti di Pechino celebrano il 40° anniversario della restaurazione del capitalismo in Cina
Xi esalta il suo maestro Deng che nel 1978 ha aperto la strada al capitalismo
Il nuovo imperatore a vita cinese attacca Mao e la Grande Rivoluzione Culturale Proletaria
Il 18 dicembre 2018, nella grande Sala del popolo a Pechino, il presidente cinese Xi Jinping ha celebrato in forma solenne il quarantennale delle "riforme" promosse da Deng Xiaoping che aprirono la strada alla restaurazione del capitalismo in Cina. Si tratta della politica denominata di "riforme e apertura" che il 18 dicembre 1978, a due anni dalla morte di Mao, il rinnegato Deng lanciò alla terza Sessione plenaria dell'11° CC del Partito comunista cinese, per un "socialismo con caratteristiche cinesi".
Dietro questa ambigua formula coniata da Deng, attuata e sviluppata dal suo successore Jiang Zemin col "socialismo di mercato", si celava semplicemente lo smantellamento progressivo dell'economia collettiva socialista, fondata sulle Comuni popolari nelle campagne e sulla direzione operaia delle fabbriche, la reintroduzione di forme di proprietà privata della terra, nell'industria, nel commercio e nei servizi, lo sfruttamento della mano d'opera in forme brutalmente liberistiche per tenere bassi i prezzi delle merci e l'apertura ai mercati capitalistici.
A questo scopo furono create delle zone "speciali" sperimentali aperte agli investimenti capitalistici occidentali, attirati dalla enorme disponibilità di mano d'opera a basso costo e senza limiti allo sfruttamento. Zone come l'attuale Shenzhen, diventata nel tempo una mega area produttiva e commerciale da 12 milioni di abitanti, grazie ad una posizione strategica vicina alle porte d'ingresso dell'Occidente, Hong Kong, Macao e Taiwan, e alla cui costruzione partecipò come dirigente lo stesso padre di Xi.
Una politica di accumulazione capitalistica fondata su licenziamenti di massa e privatizzazioni nei segmenti produttivi più importanti e specializzati, sul supersfruttamento liberista dei lavoratori rimasti alla produzione e sull'esportazione massiccia di merci a basso costo, che portò ad un aumento vertiginoso del Pil a prezzo del licenziamento di 40 milioni di operai, con un dimezzamento del totale dei lavoratori delle grandi aziende statali.

Il fine è il "benessere delle persone"
Con questa celebrazione della politica di "riforme e apertura", Xi ha voluto esaltare il suo maestro Deng e la restaurazione del capitalismo in Cina, consolidare la sua leadership nel partito borghese, fascista e revisionista e quella del partito nella società, riconfermare la linea del "socialismo con caratteristiche cinesi" e proiettare la Cina verso la sfida per l'egemonia mondiale, con l'obiettivo di diventare la prima superpotenza economica, se non ancora militare, entro la metà del secolo. E tutto questo mascherando però l'ormai compiuta trasformazione capitalista e imperialista della Cina dietro il nome di "socialismo con caratteristiche cinesi", e dietro il fine ultimo del benessere del popolo. O meglio, delle "persone", come si è espresso significativamente e a più riprese il nuovo imperatore cinese: vale a dire dei singoli individui indipendentemente della classe di appartenenza, dato che non solo ha preferito usare più questo termine che quello di popolo, e che in tutti i 90 minuti del suo discorso le parole "lavoratori", "proletariato", "masse" non sono mai state pronunciate neanche una sola volta.
Il suo è stato un discorso zeppo di retorica demagogica, malamente camuffata con una fraseologia socialista, l'occasione per una stucchevole autocelebrazione della sua leadership, dopo aver accentrato tutto il potere, virtualmente a vita, nelle sue mani grazie alla controriforma costituzionale che ha abolito il limite di due mandati, e dopo aver regolato i conti con le reti di potere corrotte costruite negli anni dai suoi predecessori Jiang Zemin e Hu Jintao. Non a caso ha annunciato una "vittoria schiacciante" sulla corruzione e una "nuova era" di “modernizzazione” e di "ringiovanimento" del Paese, un "nuovo miracolo che impressionerà il mondo".

Un velenoso attacco a Mao e alla GRCP
Per quanto nel suo discorso si sia riferito formalmente a Mao come il fondatore della Repubblica popolare cinese e del "sistema di base socialista", quali "prerequisito politico fondamentale e la base istituzionale per lo sviluppo e il progresso della Cina contemporanea", come se cioè ci fosse stata una continuità tra l'opera di Mao e quella del rinnegato Deng e dei suoi eredi, Xi non ha mancato di sferrare in realtà un velenoso attacco al Grande Maestro del proletariato internazionale, marcando di fatto - anche se ovviamente invertendone il significato -
l'abisso che lo separa dalla banda di revisionisti e rinnegati saliti al potere dopo la sua morte.
La Rivoluzione Culturale, ha detto infatti Xi, aveva portato l'economia al collasso e il Paese sull'orlo dell'abisso. A suo dire tutto quello che c'era prima della "riforma" di Deng, dunque quando alla guida del PCC e del Paese c'era Mao, era solo miseria, ignoranza e condizioni sociali da medioevo: prima avevamo "buoni per il cibo, buoni per i vestiti, il gas, il pesce, il tofu, e i beni non di prima necessità e industriali erano inseparabili dai buoni, che ora sono nei musei storici", ha detto, mentre adesso "la fame, le carestie e la mancanza di cibo e di vestiti, questa vita di povertà che per migliaia di anni ha piagato il nostro popolo, è generalmente finita".
Ora invece la Cina conosce "un miracolo senza precedenti", ha proseguito Xi elencando gli sbalorditivi "successi" di questi ultimi 40 anni di "riforme e apertura": crescita media del 9,5% del Pil, a fronte di una crescita mondiale media del 2,9%, con un contributo della Cina a più del 30% della crescita dell'economia mondiale, tanto da essere diventata la seconda potenza economica al mondo. Il Pil cinese è cresciuto da 367,9 miliardi di yuan nel 1980 a 82,7 triliardi nel 2017, ad un ritmo che dall'1,8% all'inizio delle "riforme e apertura" è arrivato fino ad un picco del 15,2%. Il reddito pro capite è salito da 171 yuan a 26 mila yuan, e "abbiamo sollevato dalla povertà 750 milioni di cinesi e altri 40 milioni lo saranno entro il 2020", ha promesso il nuovo imperatore, vantandosi che la Cina garantirebbe oggi pensioni e assistenza sanitaria a tutta la popolazione.

Il prezzo del "miracolo" vantato da Xi
Quello che però non ha spiegato è come sia stato possibile un simile balzo economico in così poco tempo, se 40 anni fa la Cina fosse stata davvero un Paese in condizioni da Medioevo e ridotto alla fame, e non ci fossero già state invece le basi materiali produttive e la forza lavoro competente necessarie, costruite grazie al socialismo guidato da Mao, e prima del quale la Cina era, davvero, ancora un Paese semifeudale e semicoloniale. E soprattutto non ha detto a che prezzo, per il proletariato e le masse popolari cinesi, sia stato ottenuto questo "miracolo" economico: licenziamenti di massa e uno sfruttamento a livelli ottocenteschi dei lavoratori, che non per nulla provocano suicidi, ma anche sempre più frequenti scoppi di ribellione operaia, e uno spopolamento delle campagne e mostruose migrazioni di massa nelle città - ribaltando le indicazioni di Mao e la tendenza a ripopolare la campagna impressa dalla Grande Rivoluzione Culturale Proletaria - con una crescita della popolazione residente nelle città che è balzata dal 40,6% al 58,52% sul totale, e si prevede debba salire ancora.
A ciò si aggiunga la crescita esponenziale delle disuguaglianze, a tutti i livelli: tra ricchi e poveri, tra città e campagna, tra le coste e l'entroterra, con la trasformazione del glorioso PCC in un comitato d'affari di un'oligarchia burocratica e imprenditoriale, dove regnano affarismo, corruzione e nepotismo, e con la nascita di una casta di veri e propri supermiliardari. Come il fondatore di Alibaba, Jack Ma, premiato da Xi tra i "100 pionieri della Grande apertura e delle Riforme", che con 39 miliardi di dollari di patrimonio è tra i primi 26 nababbi al mondo, secondo il recente rapporto Oxfam. Per non parlare dello sfruttamento intensivo e dissennato delle risorse naturali e dell'inquinamento dell'ambiente, che ha ormai raggiunto livelli catastrofici: "Per 40 anni - Xi ha avuto però la faccia tosta di vantarsi - abbiamo sempre insistito nella protezione dell'ambiente e nella conservazione delle risorse naturali e aderito alla promozione della costruzione di una civiltà ecologica".

Avanti sulla linea del "socialismo di mercato"
Ma nonostante i costi disastrosi per il capofila socialimperialista occorre procedere a tutta forza sulla stessa strada, perché a suo dire i "successi" di 40 anni di "riforme e apertura" dimostrano che la linea di Deng era giusta. Dimostrano che "il percorso, la teoria, il sistema e la cultura" scelti da partito "sono stati assolutamente corretti". Bisogna continuare con il "socialismo con caratteristiche cinesi" e con la linea tracciata dal 19° Congresso del PCC che assegna al mercato il ruolo trainante dell'economia: "Nei giorni a venire - ha sottolineato in proposito - dobbiamo consolidare e sviluppare incrollabilmente l'economia pubblica ed incoraggiare, appoggiare e guidare incrollabilmente lo sviluppo dell'economia non-pubblica, dare pieno corso al ruolo decisivo del mercato nell'allocazione delle risorse per coprire al meglio il ruolo del governo nello stimolare la vitalità dei diversi operatori del mercato". E questo in un sistema economico in cui l'imprenditoria privata rappresenta già il 60% del Pil e l'80% dei posti di lavoro.
Ai governi imperialisti e ai circoli economici e finanziari occidentali che si aspettavano l'annuncio di maggiori aperture sul piano delle "riforme" liberali di mercato e delle privatizzazioni, e forse anche in risposta all'offensiva dei dazi di Trump, Xi Jinping ha risposto che "non ci sono libri e regole d'oro. Nessuno può insegnare alla Cina, un Paese con 5000 anni di storia e 1,3 miliardi di persone, come promuovere lo sviluppo e le riforme". E più oltre ha aggiunto: "Riformeremo con determinazione ciò che può essere riformato e non cambieremo quello che non dovrebbe essere riformato". Non a caso le Borse di Hong Kong, Shanghai, Tokyo e Sydney sono scese, in segno di delusione, dopo il suo discorso.

Nessun allentamento del regime fascista
La cricca borghese socialimperialista di Pechino si tiene ancora stretto il modello centralista che utilizza il partito come strumento di potere e di controllo delle masse e dell'economia, che - diversamente dall'ex Unione Sovietica, dove la transizione al capitalismo è avvenuta al di fuori e contro il partito revisionista - le ha consentito di restaurare il capitalismo senza rischiare la disgregazione del Paese e un pesante arretramento economico. Anche perché, al di là della retorica, essa è ben consapevole che l'economia cinese è in rallentamento e che l'invecchiamento della popolazione pone seri problemi ad una crescita continua sui livelli precedenti, specie in una fase di stagnazione mondiale come questa.
Che un allentamento della dittatura di tipo fascista del regime non sia affatto alle viste lo dimostra anche il riferimento di Xi all'importanza di "calmare le tempeste", che è stata interpretato come un segnale a prepararsi a stroncare possibili proteste di massa in occasione delle imminenti ricorrenze del trentennale della strage di piazza Tienan'men del 4 luglio 1989 e del centenario del movimento anticolonialista del 4 maggio 1919, a cui partecipò anche il giovane Mao. Non a caso Xi ha assegnato al capo della sicurezza della capitale, Qui Shuiping, anche il ruolo di segretario del partito presso l'università di Pechino, considerata un centro di incubazione dell'opposizione al regime e delle proteste.
La cricca socialimperialista di Pechino non si può permettere che il dissenso studentesco e giovanile si saldi con le proteste e le lotte operaie che cominciano a svilupparsi in varie parti del Paese, rischiando come diceva Mao che "una scintilla incendi tutta la prateria" in un momento in cui, come ha rimarcato con esultanza Xi, "il nostro mondo si sta avvicinando progressivamente al centro della scena, la comunità internazionale ci riconosce come costruttori di pace nel mondo, contributori dello sviluppo globale, difensori dell'ordine internazionale!".
In altre parole non può permettersi che cresca e si sviluppi all'interno la lotta di classe, mentre promette al popolo cinese un'era di maggior benessere e un posto di primo rilievo nel mondo, perché "un Paese grande come la Cina deve avere grandi aspirazioni". Formula retorica dietro la quale si maschera la volontà dell'oligarchia socialimperialista capeggiata da Xi Jinping di spremere i lavoratori e le masse popolari cinesi per fare della Cina una superpotenza economica e militare in grado di sfidare la superpotenza Usa per il ruolo guida della globalizzazione capitalista e per l'egemonia mondiale.
 

30 gennaio 2019