Elezioni regionali in Abruzzo 2019
Forte avanzata dell'astensionismo. Sale al 48,4%
La destra batte la “sinistra” borghese. Crolla il M5S. Continua il distacco delle masse dal PD. Salvini viola il silenzio stampa

L'astensionismo è il vero vincitore delle elezioni regionali in Abruzzo: domenica 10 febbraio, infatti, ben 586.653 elettori, poco meno della metà degli aventi diritto al voto, cioè il 48,4%, ha disertato i seggi, oppure ha annullato la scheda o l'ha deposta in bianco nell'urna. Un risultato impressionante, tale da stravolgere completamente la classifica dei candidati e delle liste borghesi in competizione, ridicolizzando le pretese "grandi vittorie" degli uni e trasformando in tracolli le sconfitte degli altri, anche se come sempre i partiti borghesi e la stampa di regime lo nascondono completamente e si ostinano a basare tutte le analisi esclusivamente sui voti validi, dando così una rappresentazione del tutto falsata della realtà.

La crescita dell'astensionismo
La cosa ancor più importante è che l'astensionismo è cresciuto, e non solo rispetto alle elezioni politiche dell'anno scorso, quando l'astensionismo era al 27,3% (con un aumento di ben il 21,1%), il che potrebbe anche essere considerato fisiologico visto che alle politiche si vota normalmente di più, ma perfino rispetto alle regionali di cinque anni fa, con una differenza di oltre 66 mila voti, pari ad un balzo del 5,5%. Non era un risultato scontato, mentre sono ancora molto forti le illusioni seminate dal governo Lega-M5S, e molto alte erano le aspettative politiche legate a questa consultazione elettorale considerata da tutti di valore nazionale: da quello che era stato definito il "laboratorio Abruzzo" si attendevano infatti indicazioni sulla "popolarità" del governo del "cambiamento", sui rapporti di forza tra Lega e M5S e la tenuta della maggioranza, sul futuro del "centro-destra" e su quello del PD.
Non a caso Di Maio, Di Battista, Salvini, Berlusconi, Meloni e Legnini avevano battuto la regione in lungo e in largo e ripetutamente, consapevoli dell'importanza della posta in gioco. Salvini è arrivato addirittura a rompere il silenzio elettorale perfino ad elezioni in corso, per incitare gli abruzzesi ad andare a votare e votare per il Carroccio.
Per tutto ciò l'avanzata dell'astensionismo in Abruzzo rappresenta una doppia vittoria, ancora più significativa se si va a vedere la sua distribuzione sul territorio, che presenta quasi dappertutto incrementi a due cifre. Solo a L'Aquila, infatti, l'astensionismo è calato, e soprattutto nella provincia (-30,1%) più che nel comune capoluogo (-3,5%). Nelle altre tre province e relativi comuni capoluogo, invece, l'astensionismo ha avuto incrementi netti e anche notevoli: a Pescara è aumentato del 7,1% in provincia e del 10,8% in città; a Chieti è aumentato del 4,1% nella provincia e di ben il 17% in città, e a Teramo aumenta del 9,7% in provincia e del 13,2% in città.

La "vittoria" del "centro-destra"
Per quanto riguarda i risultati dei candidati e delle liste, la coalizione di "centro-destra", formata da un insieme di cinque liste batte quella di "centro-sinistra" formata da ben otto liste, riuscendo a conquistare la Regione e insediare alla presidenza il senatore fascista di FdI, Marco Marsilio, romano, un passato nei giovani missini e una moglie chiacchierata per lo scandalo parentopoli all'Atac durante la giunta Alemanno. Con quasi 300 mila voti pari al 48% dei voti validi subentra al dimissionario PD Luciano D'Alfonso.
La Lega, che alle regionali di cinque anni fa non si era nemmeno presentata, raccoglie il dividendo della sua campagna fascista e razzista sulla sicurezza e grazie anche ai ben sette viaggi elettorali di Salvini nella regione fa il pieno di voti, risultando di gran lunga il primo partito della coalizione con 165 mila voti, pari al 27,5%. Ma se invece che ai voti validi ci si riferisce all'intero corpo elettorale, il suo "grande successo" si ridimensiona drasticamente ad un ben più modesto 13,6%, e la sua "travolgente avanzata" rispetto alle recenti politiche non è più del 13,7% bensì di un misero 3,5%. Così come, per lo stesso ragionamento, il nuovo governatore Marsilio è stato eletto appena dal 24,8% dell'elettorato, rappresenta cioè solo un abruzzese su quattro. A tanto arriva l'effetto di drogaggio dei risultati quando l'astensionismo è così alto.
Si afferma anche il partito della Meloni, trainato dal successo del suo candidato, raddoppiando i voti rispetto al 2014, mentre invece crolla il partito di Berlusconi, ormai prosciugato da quello di Salvini, che perde ben 58 mila voti dimezzando praticamente i suoi consensi. Ormai FI si è ridotta ad una forza del 9% (il 4,5% rispetto al corpo elettorale), anche se c'è da dire che il risultato delle regionali non fa che confermare quello già raggiunto con le politiche dell'anno scorso.

La sconfitta di Legnini e del PD
Giovanni Legnini, avvocato abruzzese, vicepresidente del Csm in quota Renzi dopo essere passato per le correnti di Finocchiaro, Violante e Napolitano, è arrivato secondo alla testa di una coalizione di ben otto liste di "centro-sinistra", tra le quali era opportunamente "mimetizzata" anche quella del PD. Ha ottenuto 195 mila voti e il 31,3% di voti validi, con una perdita del 15% rispetto ai voti presi da D'Alfonso nel 2014. Ma il fatto che rispetto alle politiche la coalizione nel suo complesso abbia registrato addirittura un aumento del 13%, frenando la caduta libera del 4 marzo 2018, ha fatto gridare al "miracolo" i potentati del PD che già vagheggiano la risalita della china ripartendo dal "modello Abruzzo".
In realtà hanno poco di che rallegrarsi, perché il PD perde invece, e consistentemente, sia rispetto alle regionali che alle politiche: rispetto a cinque anni fa ha perso quasi i due terzi dei suoi elettori, scendendo da 171 mila a 66 mila voti, e dal 25,5% al l'11,1% dei voti validi (dal 14,2% al 5,5% sul corpo elettorale). Ma anche rispetto all'anno scorso perde quasi 42 mila voti, pari al -3,1% sui voti validi e -4,9% sugli elettori. Esce insomma riconfermato in pieno anche in questa occasione il distacco delle masse dal PD, che ormai riesce a stare a malapena elettoralmente a galla solo se non si presenta da solo coi suoi simboli ma si nasconde in mezzo a improvvisate ammucchiate.

Il tracollo del M5S
Chi tra tutti ha subito un vero e proprio tracollo è il Movimento 5 Stelle e la sua candidata Sara Marcozzi, fedelissima di Di Maio (suo marito ne è stato nominato vicecapo di Gabinetto), che si ripresentava per la seconda volta senza nascondere le sue ambizioni di arrivare prima, mentre è arrivata solo terza con soli 126 mila voti e il 20,2% dei voti validi (10,4% sugli elettori).
Ambizioni incoraggiate dal fatto che l'anno scorso il M5S aveva stravinto in Abruzzo con il 39,9% dei voti, e sperava quindi in un risultato se non pieno almeno nettamente migliore. Non a caso il M5S aveva richiamato apposta il parolaio Di Battista dal Guatemala per contendere il terreno a Salvini nella campagna d'Abruzzo, e il ducetto Di Maio ci aveva fatto il viottolo a promettere "piani Marshall", fondi per il post-terremoto, miglioramenti nella sanità e via mirabolando. Tanto ci avevano puntato che ancora pochi giorni prima del voto la Marcozzi, guardando i sondaggi, si lasciava andare a questa incauta dichiarazione: " Siamo a un palmo dal centrodestra. Un punto percentuale ci divide e in questi giorni vedrete...".
E invece non solo lei è stata superata perfino dal candidato del moribondo PD, ma il M5S come lista ha preso molti meno voti di lei (circa 8 mila), e non solo è crollato dal 39,9% delle politiche al 19,7%, lasciando sul terreno quasi 185 mila voti, ma è calato pure rispetto alle regionali del 2014, perdendo quasi 23 mila voti pari all'1,3% in meno dei voti validi e l'1,9% sul corpo elettorale. Quantunque la Marcozzi si consoli sostenendo che il M5S "ha confermato il risultato di cinque anni fa. La sconfitta è del PD e di FI che hanno consegnato i loro voti alla Lega".
In realtà, secondo un sondaggio Swg sui flussi elettorali riportato da "Il fatto quotidiano", di quei 185 mila voti persi dal M5S il 46,3% sarebbe andato nell'astensionismo, mentre il 10,2% sarebbe andato proprio alla Lega e il 9,7% al "centro-sinistra". D'altronde il silenzio di tomba tenuto da Di Maio e Di Battista subito dopo il voto dimostra il panico in cui il vertice del M5S è piombato, con la fronda interna antileghista che ha ripreso ad agitarsi, in vista di una resa dei conti, per l'evidente fallimento della linea del ducetto di Pomigliano: "Purtroppo tradire la propria identità non paga", ha commentato la senatrice Elena Fattori, e il deputato Giorgio Trizzino, invitando il M5S "a riflettere" sulla sconfitta, ha accusato la Lega di aver "puntato scientificamente fin dal primo momento ad indebolire ideologicamente e politicamente il Movimento 5 stelle, con il chiaro obiettivo di usarlo fino in fondo prima di gettarlo via”.
Non per nulla Salvini ha evitato in tutti i modi i toni trionfalistici per non mettere ancor più in difficoltà il suo succube partner di governo, anche perché ad immediata scadenza c'è in ballo la delicatissima partita del voto sull'autorizzazione a procedere per il caso Diciotti.
 
 

13 febbraio 2019