I medici difendono il servizio sanitario nazionale contro il "regionalismo differenziato"

Il Sindacato dei medici italiani (SMI) ha promosso una petizione indirizzata al presidente del Consiglio Giuseppe Conte, alla ministra per gli Affari regionali e le autonomie Erika Stefani e alla ministra della Salute Giulia Grillo, per lanciare un preoccupato allarme sulla sorte del Servizio sanitario nazionale se dovesse passare il cosiddetto "regionalismo differenziato" che il governo Lega-M5S intende far approvare senza discutere al parlamento e all'insaputa della generalità dell'opinione pubblica.
Si tratta in sostanza di un progetto previsto nel famigerato "contratto" privato di governo e tradotto in una bozza di legge delega della ministra leghista Stefani che sancisce tre accordi separati con le Regioni Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna concedendo loro competenze aggiuntive su tutta una serie di materie attualmente riservate allo Stato: tra cui la sanità (che in parte è già regionalizzata, ma lo diventerebbe praticamente in toto), la scuola, i trasporti, le infrastrutture, come autostrade, porti e aeroporti, i beni culturali, l'ambiente e territorio, i fondi speciali, e così via.
Questa possibilità è prevista dal 3° comma dell'articolo 116 della Costituzione, grazie alla sciagurata controriforma del Titolo V varata nel 2001 dal "centro-sinistra" per ingraziarsi la Lega, che oggi passa all'incasso usandola come un grimaldello per scardinare lo Stato unitario e introdurre surrettiziamente il federalismo, che non ha mai veramente abbandonato, al di là della trasformazione in partito "sovranista" cioè nazionalista compiuta da Salvini. Il primo passo è stato quello di indire due referendum, in Veneto e Lombardia, per dare un crisma di "volontà popolare" al progetto (tra l'altro quello in Lombardia raggiunse appena il 30% di votanti), e il secondo è stato il negoziato col governo Gentiloni concluso il 28 febbraio 2018 con un accordo su 5 competenze aggiuntive, poi aumentate a ben 23 per la Lombardia del governatore di FI Fontana e il Veneto del leghista Zaia, e 15 per l'Emilia-Romagna del PD Bonaccini, nel frattempo unitosi al duetto di testa.

Autonomia o "secessione dei ricchi"?
Si tratta delle tre regioni più ricche del Paese, che da sole fanno il 40% del Pil nazionale, e il loro malcelato intento è quello di trattenere in casa l'intero o quasi gettito fiscale (almeno l'80%, secondo i piani della Lega), e anche se la legge sul federalismo del 2009 stabilisce che ciò non potrebbe avvenire a scapito delle altre regioni più svantaggiate, come tutte quelle del Sud, e nonostante che a parole Zaia, Fontana e Bonaccini assicurino che il "regionalismo differenziato" non comporterà nessuna penalizzazione per esse, non c'è niente nella bozza Stefani che garantisca nero su bianco un meccanismo di perequazione che impedisca tale automatica conseguenza.
Per di più il progetto di legge prevede assurdamente che tali accordi Stato-Regioni siano trattati alla stregua di accordi con Stati esteri, e quindi il parlamento non può neanche emendarlo, ma solo accettarlo o respingerlo così com'è. E come un accordo tra Stati non può essere sottoposto a referendum abrogativo e non può essere modificato per almeno dieci anni. Tra l'altro la sua accettazione in parlamento appare scontata in partenza, non solo per il "contratto" di ferro Lega-M5S, ma anche perché il PD è in gran parte d'accordo, essendo parte in causa con l'Emilia-Romagna, anche se ora comincia ad emergere qualche tardivo pentimento.
Passato finora sotto una compiacente cappa di silenzio, adesso che sta per andare davvero in porto grazie alla sporca complicità del M5S che lo considera merce di scambio accettabile col reddito di cittadinanza, il progetto federalista della Lega sta suscitando un giustificato allarme perché è evidente che aprirebbe la strada ad una disarticolazione dell'unità del Paese, a un aumento delle disparità economiche, sociali e culturali tra un Nord ancor più ricco, con una scuola, una sanità, dei servizi e una cultura più sviluppate e un Sud ancor più povero, dequalificato e abbandonato di adesso; e alla divisioni della popolazione in cittadini di serie A e di serie B, questi ultimi con meno diritti, salute e istruzione degli altri.
Non è dunque esagerata la definizione di "secessione dei ricchi" che è stata giustamente affibbiata al "regionalismo differenziato", perché di questo si tratta in soldoni. La petizione lanciata dai medici italiani, che qui pubblichiamo, è esemplare in tal senso. In essa sono contenuti in forma sintetica tutti i pericoli di distruzione del SSN. Tali pericoli si annidano nelle varie richieste di autonomie in materia di salute che le tre Regioni avanzano e che sono illustrate in maniera comparata nella tavola sinottica, anch'essa qui pubblicata, redatta dalla Fondazione Gimbe, il Gruppo italiano per la medicina basata sulle evidenze, che si sta spendendo insieme al SMI per salvaguardare il servizio sanitario pubblico universale.

Conseguenze "al momento non immaginabili"
Da questa tavola, tra l'altro, si può notare come la pretesa "autonomia dolce" spacciata da Bonaccini non sia poi affatto diversa da quella "dura" di Zaia e Fontana, visto che le richieste sono identiche per quasi tutte le voci: maggiore autonomia di spesa nel personale e nelle scuole di specializzazione, possibilità di stipulare contratti a tempo determinato per i medici e accordi con le università, determinazione dei ticket, autonomia di gestione delle Asl, possibilità di decidere in materia di farmaci equivalenti (nel caso l'Agenzia del farmaco non dia parere entro 180 giorni), autonomia nella gestione del patrimonio edilizio e tecnologico e nella gestione di accordi con assicurazioni sanitarie private.
L'Emilia-Romagna da sola chiede anzi autonomia in tema di distribuzione ed erogazione dei farmaci. La Lombardia e il Veneto, anche in maniera leggermente differenziata tra di loro, chiedono un surplus di autonomia sugli accordi con l'università, mentre il Veneto da solo chiede maggiore autonomia nella gestione del personale inclusa la libera professione, e sugli incentivi per i dipendenti del SSN in sede di contrattazione integrativa collettiva e per il personale delle sedi montane disagiate: è evidente in ciò il tentativo di scardinare la contrattazione collettiva per arrivare a un diverso trattamento sindacale del personale sanitario nelle regioni più ricche.
Secondo il presidente della Gimbe, Nino Cartabellotta, intervistato da "Il Sole 24 ore", in queste richieste "c’è un evidente contrasto con il Patto della salute, che dovrebbe puntare a un unico sistema di compartecipazione nazionale, mentre le Regioni chiedono autonomia nella gestione dei ticket. Su sistema tariffario, rimborso e remunerazione, rischiamo di avere dei nomenclatori tariffari diversi da Regione a Regione. Questi sono elementi che preoccupano in termini di governance complessiva. Più in generale, i risvolti delle proposte autonomistiche al momento non sono immaginabili e anche per questo abbiamo lanciato la survey (sondaggio, ndr), in seguito alla quale la Fondazione Gimbe pubblicherà uno studio".
"Considerato che sono in gioco i diritti civili delle persone – ha concluso Cartabellotta – è inaccettabile per un Paese democratico l'assenza di un dibattito politico e civile sul tema. Ecco perché abbiamo elaborato una sintesi delle autonomie richieste dalle Regioni in sanità e invitato tutti gli stakeholder (cittadini inclusi) a partecipare alla consultazione pubblica per far luce sui potenziali rischi del regionalismo differenziato sulla tutela della salute".
 

20 febbraio 2019