Al vertice di Hanoi entrambi i leader esaltano il loro incontro e si scambiano espressioni di amicizia e stima
Trump e Kim non trovano un accordo
La contraddizione è nell'abolizione delle sanzioni Usa e sulla completa denuclearizzazione nordcoreana

 
Il Pentagono annunciava il 3 marzo di aver deciso di concerto con il ministero della Difesa di Seul di annullare la consueta esercitazione primaverile “Foal Eagle”, una delle prove di guerra più grandi del mondo col coinvolgimento di 500mila soldati sudcoreani e 30mila americani, bombardieri e sottomarini e considerate dal governo di Pyongyang come una provocazione, e di sostituirle con altre in forma ridotta. E meno costoso, sottolineava Trump dalla Casa Bianca, pur non nascondendo il significato politico della decisione, preannunciata lo scorso anno dopo l'incontro del 12 giugno a Singapore col presidente nordcoreano Kim Jong-un e che al momento resta l'unico atto concreto di distensione fra i due paesi visto che il secondo vertice bilaterale presidenziale a Hanoi del 27 e 28 febbraio si è chiuso in anticipo e senza nessun accordo.
Nonostante il vertice fosse stato preparato con molta cura da tempo e preceduto da un campagna propagandistica da Washington quasi fosse stato l'evento del secolo pare che le due diplomazie non si siano intese alla perfezione sui due temi cruciali dell'incontro, la richiesta Usa della completa denuclearizzazione nordcoreana e la richiesta di Pyongyang della completa abolizione delle sanzioni americane.
Il capo negoziatore americano Stephen Biegun scaricava la colpa sugli interlocutori sostenendo che si erano impegnati per il completo smantellamento delle loro istallazioni nucleari contro la promessa della sospensione di cinque delle 11 sanzioni applicate dal Consiglio di Sicurezza su richiesta americana; il ministro degli Esteri di Pyongyang Ri Yong-ho, ribaltava l'accusa sostenendo che il prenegoziato aveva discusso della completa rimozione delle sanzioni internazionali e non di rimozioni parziali in cambio della disattivazione completa del centro di ricerca nucleare di Yongbyon, dove si lavorano uranio e plutonio, sotto la supervisione di osservatori statunitensi. Per gli Usa tale disponibilità non sarebbe stata sufficiente a fronte del mantenimento di altri siti nucleari a loro noti.
Resta il fatto che a poche ore dalla programmata firma della dichiarazione congiunta i lavori terminavano con una anticipata e frettolosa conferenza stampa di Trump, che si limitava a frasi di circostanza, e del segretario di Stato Mike Pompeo.
“Volevano l’eliminazione completa delle sanzioni ma sulla denuclearizzazione non erano pronti a darci quello che volevamo”, sosteneva Trump, “non era appropriato firmare, voglio un accordo giusto piuttosto che veloce” e si accontentava del fatto che il presidente Kim “mi ha assicurato che non riprenderà i test nucleari e missilistici”. E sosteneva che non avevano parlato di quando tenere il prossimo incontro, forse lontano nel tempo. Quantomeno fino a che non matureranno le condizioni che soddisfino le esigenze dell'imperialismo americano per disinnescare a proprio vantaggio la mina coreana; una crisi sulla porta di casa della prima superpotenza rivale, il socialimperialismo cinese, e non a caso l'incontro è stato messo in programma a Hanoi, una delle nuove concorrenti regionali imperialiste di Pechino. La Casa Bianca vorrebbe “normalizzare” la penisola coreana anche senza scontentare i due alleati regionali, Giappone e Corea del Sud “protetti” dalla forte presenza delle forze militari americane, una presenza non più giustificabile a fronte di normali rapporti con Pyongyang.
Eppure il vertice di Hanoi era iniziato il 27 febbraio in pompa magna e tutto sembrava filare liscio, con entrambi i leader che come a Singapore esaltavano il loro incontro e si scambiavano espressioni di amicizia e stima. Trump considerava un “onore essere con Kim” e si diceva sicuro che il vertice sarà un successo. Il summit è stata una “decisione coraggiosa” di Trump rispondeva Kim che sottolineava come i due Paesi “hanno superato la sfiducia” e assicurava il “massimo impegno” per la riuscita. Il progresso “più grande” nelle relazioni Usa-Corea del Nord è stata la “nostra relazione”, “una relazione speciale” sosteneva Trump che non negava neppure la possibilità di arrivare a un trattato di pace della guerra di Corea del 1950-53, la guerra di aggressione dell'imperialismo americano chiusa solo dall'armistizio firmato a Panmunjom che sancì la divisione della penisola, quantunque il “vedremo” alla domanda non lasciasse molte speranze. Il clima restava ottimista financo nella conferenza stampa della mattina del 28 febbraio quando per la prima volta anche il presidente Kim si era presentato a rispondere alle domande dei giornalisti e a quella più scontata sul disarmo nucleare aveva risposto che “se non volessi la denuclearizzazione, non sarei qui”. Commentata da Trump come “la miglior risposta che abbiate mai sentito”; a dire il vero l'avevamo già sentita al vertice di Singapore e da allora la situazione è rimasta congelata. I due leader si dichiaravano anche favorevoli all’apertura di un ufficio di collegamento americano a Pyongyang. Poche ore dopo la mancanza di accordo su aspetti che non sono certo dei particolari di poco conto portava alla chiusura anticipata e senza una accordo del vertice.
La portavoce presidenziale, Sarah Sanders sosteneva che comunque che i colloqui tra i due leader sono stati “molto buoni e costruttivi” e dove hanno discusso “dei vari modi per far avanzare la denuclearizzazione e i concetti basati sull'economia”. Pompeo sosteneva che Kim non era preparato a concedere quello che gli Usa volevano, l'agenzia nordcoreana Kcna si limitava a registrare che i due presidenti avevano “concordato di rimanere in stretto contatto tra loro per la denuclearizzazione della penisola coreana e lo sviluppo epocale delle relazioni tra gli Usa e la Repubblica Democratica di Corea, e per continuare il dialogo produttivo col fine di risolvere le questioni discusse al Vertice di Hanoi”.

6 marzo 2019