La rivolta del popolo algerino piega Bouteflika
Il presidente algerino rinuncia al quinto mandato e accetta di rinviare le elezioni

 
La rivolta del popolo algerino contro la ricandidatura per il quinto mandato consecutivo del presidente Abdelaziz Bouteflika, esplosa con le grandi manifestazioni del 22 febbraio nella capitale e nelle principali città del paese replicate nelle settimane successive, ha costretto il clan dei militari e della borghesia che guida di fatto l'esecutivo a fare marcia indietro: Bouteflika ritirava la candidatura alle elezioni del 18 aprile, le elezioni erano rinviate almeno a fine anno, fino al termine dei lavori di una conferenza nazionale convocata per scrivere la nuova costituzione da approvare con referendum. Intanto il presidente cambiava il primo ministro, Ahmed Ouyahia, ufficialmente malato e ricoverato in un ospedale militare di Algeri, sostituito dall'ex ministro degli Interni Noureddine Bedoui.
Neanche un mese fa il partito che guida il paese da quasi 60 anni, dalla vittoria nella guerra d’indipendenza contro i colonialisti francesi, il Fronte di Liberazione Nazionale annunciava la scelta di candidare per la quinta volta l'ottantunenne presidente in carica dal 1999, una candidatura di bandiera “perché abbiamo bisogno di stabilità e continuità”, spiegava il leader del Fln. Che di fatto guida il paese dopo l'ictus che ha colpito Boteflika nel 2013. Una continuità che interessa anche i paesi imperialisti europei, i principali utilizzatori del petrolio e del gas algerino che garantiscono la ricchezza ai vertici militari e alla borghesia che guidano il paese e non certo alle masse popolari. Masse popolari che hanno colto l'occasione della scadenza elettorale presidenziale per protestare anche per le loro condizioni di vita e lavoro che alimentano un flusso migratorio verso la ricca Europa. La rivolta popolare scavalcava le opposizioni parlamentari, dal Fronte delle Forze Socialiste al Partito dei lavoratori, al Movimento per la Società e la Pace che si limitavano a ritirare le candidature presidenziali o ad annunciare il boicottaggio del voto.
Bouteflika ha guidato il paese dal 1999 portando a compimento il cosiddetto “processo di riconciliazione nazionale” dopo gli anni della guerra civile iniziata dopo che la vittoria elettorale del Fronte di salute islamica del dicembre 1991 era stata annullata dal golpe del gennaio successivo. Un golpe “benedetto” nelle capitali imperialiste perché avrebbe fermato la crescita di partiti e di un movimento islamici che avrebbero potuto ribaltare in Algeria e negli altri paesi arabi i governi amici. La questione della cosiddetta “primavera araba” si ripresenterà lo stesso ma nel 2010, dopo quasi venti anni.
Il 24 febbraio Bouteflika partiva per la Svizzera per dei controlli di routine, il popolo algerino in piazza gridava un forte “No” al quinto mandato presidenziale e replicava le proteste nei giorni successivi fino al 10 marzo, al suo ritorno a Algeri. Quando il capo di Stato maggiore e vice-ministro della Difesa, il generale Ahmed Ghaid Salah, che a fine febbraio aveva attaccato le manifestazioni definendole un tentativo di tornare agli anni della guerra civile e minacciando un nuovo golpe, annunciava il passo indietro. Successivamente il presidente precisava i termini del passo indietro con la convocazione di una conferenza nazionale, guidata da una “figura indipendente, consensuale e d’esperienza”, che entro la fine del 2019 dovrà scrivere una nuova costituzione, da approvare con un referendum popolare, e fisserà la data per le elezioni presidenziali.
 
 

13 marzo 2019