Lo conferma la falsa deposizione in Corte di assise del generale Tomasone
I vertici dell'Arma dei carabinieri sono coinvolti nel depistaggio sull'omicidio di Cucchi
L'Arma, nell'ottobre del 2009, indusse l'allora ministro della giustizia Alfano a mentire al parlamento
Salvini non ha niente da dire? E Di Maio e Conte?

Il muro di omertà dietro cui per nove lunghi anni si sono nascosti gli assassini di Stefano Cucchi e i vertici dell'Arma dei carabinieri comincia finalmente a sgretolarsi.
Alla scioccante confessione resa il 9 luglio scorso dal carabiniere Francesco Tedesco che contribuì a riaprire le indagini, si aggiunge ora la falsa deposizione del generale di Corpo d’Armata Vittorio Tomasone, all’epoca comandante provinciale di Roma, chiamato a testimoniare il 27 febbraio davanti alla Corte di assise nel processo Cucchi bis nel quale lo stesso Francesco Tedesco insieme ai suoi colleghi Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo devono rispondere di omicidio preterintenzionale per aver picchiato a morte il giovane geometra romano provocandone la morte avvenuta una settimana dopo il suo arresto, il 22 ottobre 2009; mentre il maresciallo Roberto Mandolini e il carabiniere Vincenzo Nicolardi sono accusati rispettivamente di falsità ideologica e calunnia.
A confermarlo è lo stesso Pubblico ministero (Pm) Giovanni Musarò il quale nel corso dell'udienza di Tomasone nel confutare i tanti “non ricordo” del generale ad un certo punto è sbottato: “Arrivati qui non è più una questione di ricerca doverosa delle responsabilità per la morte di un ragazzo. A questo punto è in ballo la credibilità dell’intero sistema... Il testimone - ha chiosato ancora Musarò - sta dichiarando il falso”.
A sbugiardare Tomasone infatti ci sono una sequela di false informative e verbali falsificati ad arte dai suoi uomini e da lui controfirmati col chiaro obiettivo di depistare le indagini sulla morte del giovane geometra romano.
Dagli atti risulta evidente come Tomasone e i suoi uomini abbiano mentito su tutto: sulle condizioni di salute di Cucchi al momento dell'arresto, sulle cause del suo decesso, sulle perizie medico-legali disposte ad hoc per fugare qualsiasi nesso tra la morte di Stefano e il violento pestaggio subito in caserma, fino a indurre l'allora ministro della Giustizia Angelino Alfano a prendere le difese dell'Arma e mentire in parlamento proprio sulla base delle false informative redatte dal colonnello Alessandro Casarsa, uomo di fiducia di Tommasone, all'epoca comandante del gruppo Roma, oggi promosso a generale di brigata e comandante dei corazzieri del Quirinale.
Tutto il carteggio inerente la cinica e oltraggiosa macchinazione messa in campo dai massimi vertici dell'Arma ai danni della famiglia Cucchi è stato acquisito agli atti del processo grazie all'isolata lealtà del tenente colonnello Lorenzo D’Aloia, comandante del Nucleo investigativo di Roma, il quale con le sue dichiarazioni ha indirizzato le indagini della Procura verso gli archivi del Comando provinciale di Roma dove, a tutto il 2016, l’allora comandante, il generale Salvatore Luongo (oggi capo ufficio legislativo del ministro della Difesa), aveva sepolto gli atti ufficiali inerenti la morte di Stefano guardandosi molto bene dal trasmetterli agli organi investigativi competenti.
Si tratta di carte, ha spiegato il Pm Musarò, “di straordinaria importanza sia per quanto riguarda il depistaggio del 2015 sia per quello del 2009 oggetto del procedimento” in corso .
Le informative fanno piena luce almeno su due aspetti della vicenda: quello della ricostruzione dell’arresto e della morte di Stefano Cucchi e quello degli esami medico legali, i cui esiti furono anticipati dall’Arma quando ancora non erano stati nominati i periti. È la dimostrazione, dice ancora l’accusa, “che si è giocata una partita truccata sulle spalle di una famiglia mettendo in gioco la credibilità dell’intero sistema”.
I depistaggi investigativi da parte dell'Arma infatti non iniziano subito. Anche perché per qualche giorno la morte di Stefano Cucchi passa quasi inosservata e viene quasi completamente ignorata dai mass media. Tomasone e i suoi uomini si mettono all'opera a partire dalle 15,38 del 26 ottobre 2009 quando l’Ansa batte una notizia in cui il presidente di "Antigone" Patrizio Gonnella e quello di "A buon diritto" Luigi Manconi ricostruiscono la vera storia dell'assassinio di Cucchi esattamente così come appare oggi a dieci anni (e due processi) di distanza e asseriscono che il giovane stava bene al momento dell’arresto mentre il giorno dopo all’udienza di convalida aveva il volto tumefatto.
Appena un’ora dopo, alle 16.46 il comando legione dei carabinieri chiede “urgentissime spiegazioni” in vista dell’audizione del Guardasigilli Alfano alla Camera. Tommasone fa di tutto per allontanare i sospetti dai suoi uomini e arriva a chiamare in causa perfino gli agenti della polizia penitenziaria accampando “spiegazioni” a dir poco fasulle, farcite di annotazioni scritte e corrette, registri sbianchettati, false testimonianze e relazioni bugiarde tanto da indurre Alfano a dichiare il falso il 3 novembre 2009 a Palazzo Madama parlando di “un arrestato collaborativo” ai danni di Cucchi “già in condizioni fisiche debilitate al momento del fermo”.
Tutte false dichiarazioni, ha spiegato ancora il Pm Musarò “che sottintendevano un’implicita ma chiarissima accusa agli agenti della penitenziaria, col paradosso che il primo a puntare il dito contro di loro sia stato proprio il loro ministro. Parliamo di un momento in cui il fascicolo era ancora contro ignoti”.
Agli atti, oltre al grottesco fax in cui viene espresso apprezzamento ai militari che hanno operato l’arresto di Cucchi, c’è anche una nota inviata dal comando provinciale a quello generale del primo di novembre in cui si anticipano già i risultati dell’autopsia. Si fa riferimento alle cause della morte che “sembrerebbero non attribuibili a traumi, non essendo state rilevate emorragie interne né segni macroscopici di percosse”, alla frattura di una vertebra e del coccige “che sembrerebbe riferita a un periodo significativamente antecedente all’arresto” e alle tracce di sangue nello stomaco e nella vescica “verosimilmente riconducibili secondo specialisti a una patologia epatica o renale di cui il soggetto era già sofferente”.
“Sono dati - ha aggiunto il Pm Musarò - che devono essere registrati con inquietudine: tra la fine d’ottobre e l’inizio di novembre negli atti ufficiali interni erano già scritte le conclusioni degli esami tecnici che sarebbero arrivate solo sei mesi dopo. All’epoca, i consulenti ancora non erano stati nominati”.
Di fronte a tutto ciò è a dir poco assordante il silenzio del governo a cominciare dal premier Conte e dai ducetti Salvini e Di Maio. Possibile che il caporione fascio-leghista, ormai diventato una sorta di testimonial della divisa delle “forze dell'ordine” non abbia nulla da dire?
Evidentemente la storiella di “qualche mela marcia” in divisa che ammazza di botte un detenuto all'insaputa del proprio comando generale non regge più di fronte alle schiaccianti prove acquisite in sede processuale.
In ogni caso nessuno può più dire che il processo e l’inchiesta sul caso Cucchi “sono un’ingenerosa e irresponsabile chiamata di correo per le decine di migliaia di militari, donne e uomini, che ogni giorno servono lealmente il Paese”.
Anzi. È vero esattamente il contrario.
Nell'omicidio di Cucchi è coinvolta tutta la catena di comando dei carabinieri a cominciare dal generale di brigata, Vittorio Tomasone, all'epoca comandante provinciale di Roma e oggi promosso a generale di corpo d'armata e comandante interregionale a Napoli. Tomasone gestì le indagine interne, convocò tra gli altri il maresciallo Mandolini avallando di fatto le sue falsità; il colonnello Alessandro Casarsa, all'epoca comandante del gruppo Roma, oggi promosso a generale di brigata e comandante dei corazzieri del Quirinale, il quale nega di aver svolto qualsiasi ruolo negli accertamenti sulla morte di Cucchi; il maggiore Paolo Unari, all'epoca comandante della compagnia Casilina e della caserma Appia dove fu picchiato Cucchi, e oggi tenente colonnello distaccato al ministero degli Esteri, il quale escluse anomalie dopo l'indagine interna e dichiarò “Le camere di sicurezza non sono hotel a cinque stelle”; Luciano Soligo, all'epoca maggiore e comandante della compagnia Montesascro da cui dipende la caserma di Tor Sapienza (dove Stefano dopo il pestaggio fu trasferito per trascorrere la notte in attesa del processo per direttissima), oggi promosso a tenente colonnello, prese parte alla indagine interna (dal 22 ottobre anche lui risulta indagato nel processo bis per falso ideologico); Emilio Buccieri, maresciallo, all’epoca dei fatti vicecomandante della stazione Appia, oggi comandante della medesima stazione, i cui uomini arrestarono Cucchi, anche se in quei giorni non era in servizio; Roberto Mandolini, all'epoca maresciallo e comandante della caserma Appia, oggi maresciallo capo, il quale sapeva della relazione sul pestaggio poi scomparsa; Massimiliano Colombo, maresciallo, comandante della caserma di Tor Sapienza, indagato per falso per aver attestato “le buone condizioni di salute di Cucchi”; e infine i carabinieri Vincenzo Nicolardi, accusato di calunnia contro la polizia penitenziaria, Francesco Di Sano imputato di falso per aver modificato il verbale sulle condizioni di Cucchi “in seguito a un ordine gerarchico”, come lui stesso ha ammesso, e infine i carabinieri Di Bernardo D'Alessandro e Tedesco accusati di omicidio preterintenzionale.

13 marzo 2019