Presentata in Consiglio dei ministri la bozza per l'“autonomia differenziata”
Avanza la “secessione dei ricchi” anche in Emilia-Romagna
Insieme la Lombardia e il Veneto guidati dalla Lega e l'Emilia-Romagna a guida Pd

Dal nostro Corrispondente dell'Emilia-Romagna
Il 14 febbraio scorso ha fatto un nuovo passo in avanti il progetto secessionista delle 3 regioni più ricche del Paese Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna con la presentazione in Consiglio dei ministri delle bozze d’intesa tra lo Stato e le 3 regioni per l’ottenimento della cosiddetta “autonomia differenziata”.
Rifacendosi all’articolo 116 comma III della Costituzione, che permette alla regioni a statuto ordinario di stipulare con il governo accordi per acquisire particolari condizioni di autonomia, articolo introdotto dalla “riforma” del titolo V della Costituzione varata dall’allora governo di “centro-sinistra” per ingraziarsi i fascio-secessionisti della lega, chiedono allo Stato autonomia decisionale su 23 competenze la Lombardia e il Veneto dei leghisti Attilio Fontana e Gianluca Zaia, e 15 l’Emilia-Romagna del Pd Bonaccini.
Quella che le 3 regioni più ricche chiamano “autonomia differenziata” in realtà è una secessione mascherata perché le competenze di cui si vogliono appropriare riguardano temi fondamentali per il governo “omogeneo” del Paese e quindi la sua unità normativa, culturale e ovviamente anche economica, unità che a dir la verità non vi è mai stata in particolare per il Sud lasciato deliberatamente e colpevolmente in una situazione di arretratezza, ma che andrà a peggiorare ulteriormente perché Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna non chiedono “solo” autonomia decisionale ma anche il potere di gestire direttamente le proprie risorse finanziarie, o perlomeno gran parte di esse, togliendo inevitabilmente risorse, checché ne dicano loro, alla redistribuzione nazionale della ricchezza (cosa già oggi, come detto, del tutto insufficiente a garantire al Sud un minimo di sviluppo economico e industriale).
Questa nuova, importante tappa, fa parte di un percorso avviato già nel 2014 da Lombardia e Veneto ma che negli ultimi anni ha subìto una decisiva accelerata con l’inserimento dell’Emilia-Romagna che ha voluto dimostrare sia al crescente elettorato leghista di non essere da meno della Lega su questo suo cavallo di battaglia, ma anche alla borghesia regionale di saper gestire “bene” i suoi interessi economici a discapito della masse e dei territori del Sud, già sfruttati e depredati a sufficienza.
Mentre la Lombardia e il Veneto hanno sottoposto il loro progetto autonomista a un referendum consultivo (sostenuto anche dalla maggioranza del Pd delle 2 regioni) svoltosi il 22 ottobre 2017 e che è stato disertato rispettivamente dal 61,75% e dal 42,7% dell’elettorato, la giunta regionale dell’Emilia-Romagna ha percorso un iter legislativo approvando il 28 agosto del 2017 un “Documento di indirizzo per l’avvio del percorso finalizzato all’acquisizione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” e dando poi, il 3 ottobre, il mandato di avviare il negoziato con il governo al presidente della Regione Bonaccini che il 18 ottobre dello stesso anno ha firmato la Dichiarazione di intenti per l’avvio del negoziato con l’allora presidente del Consiglio Paolo Gentiloni.
Dopo vari altri passaggi il 28 febbraio 2018 Bonaccini, Maroni (allora presidente della Lombardia) e Zaia firmano col sottosegretario agli Affari regionali, Gianclaudio Bressa, delegato dal presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, gli accordi preliminari tra il governo e le rispettive regioni sulla cosiddetta “autonomia rinforzata”, mentre il 19 giugno Bonaccini incontra Erika Stefani, ministra per gli Affari regionali del governo nero fascista e razzista Salvini-Di Maio, alla quale comunica che le competenze rivendicate salgono da 12 a 15.
Passaggio importante anche il 18 settembre quando l’Assemblea legislativa approva il progetto definitivo con la richiesta di autonomia decisionale su 15 competenze in aree strategiche: tutela e sicurezza del lavoro, istruzione, norme generali sull’istruzione, commercio con l’estero, ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi, governo del territorio, protezione civile, tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali, tutela della salute, coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni, organizzazione della giustizia di pace, agricoltura, protezione della fauna, esercizio dell’attività venatoria e acquacoltura, valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali, ordinamento sportivo.
Nessun voto contrario, a favore la maggioranza Pd, Si e Misto-Mdp, astenute le opposizioni: Lega, M5S, Fi, Fdi, Mns, AltraER.
La bozza presentata in Consiglio dei ministri il 14 febbraio dovrà prima diventare una intesa vera e propria per poi passare al vaglio del parlamento che, essendo gli accordi Stato-Regioni trattati alla stregua di accordi con Stati esteri, non potrà neanche emendarla, ma solo accettarla o respingerla così com'è, e come un accordo tra Stati non potrà essere sottoposta a referendum abrogativo e non potrà essere modificata per almeno dieci anni.
Nonostante questo e il clima bipartisan favorevole, la strada non è del tutto in discesa in quanto, come ha sottolineato Bonaccini “l’intesa va ancora trovata”, diverse proposte fatte dalla Regione “non hanno ancora trovato risposta o sono addirittura arrivati dei no che non ci paiono motivati”.
Bonaccini rivendica il “percorso comune e condiviso” compiuto “fin dall’inizio con le forze sociali, sindacati e imprese, i territori, le università e le associazioni del Terzo settore, tutti soggetti riuniti nel Patto per il Lavoro” sottoscritto nel luglio 2015 e la proposta “discussa a ogni passo in Assemblea legislativa, dove mai c’è stato un voto contrario da parte delle forze politiche, con anzi correzioni accolte e presentate dalle opposizioni. Una proposta che premia una Regione virtuosa e con i conti in ordine, che vuole continuare a crescere facendo crescere il Paese, non certo spaccarlo”. Ma le voci contrarie non mancano, anzi crescono di volta in volta, anche dentro lo stesso Pd con le voci opportunistiche, tra le altre, dei governatori di Piemonte, Toscana e Campania, interessati anche loro a forme di autonomia, oppure dal sindaco di Napoli De Magistris che però rivendica un'“autonomia totale” della città e addirittura di tutto il Meridione, mentre è arrivato il via libera di Nicola Zingaretti, presidente del Lazio e divenuto poi segretario nazionale del Pd con le primarie del 3 marzo scorso: “Esistono differenze sostanziali tra le diverse proposte” e quella dell’Emilia-Romagna non creerebbe “disparità tra i diversi territori”.
Contraria la Cgil nazionale che in una nota del 14 febbraio scrive: “Non possiamo che ribadire la nostra contrarietà a un provvedimento che, in assenza di norme generali nazionali come la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni, aumenterà le disuguaglianze... Rifiutiamo con forza qualsiasi provvedimento che dà risposte locali a bisogni comuni a tutto il Paese; che demanda a un singolo territorio la facoltà di garantire un diritto e che concede l’arbitrarietà di decidere come garantirlo, soprattutto per l’istruzione”, concludendo: “Qualsiasi provvedimento che alimenterà i divari territoriali e condannerà l’Italia ad avere inevitabilmente cittadini di serie A e di serie B, invece di concentrare gli sforzi nel rimuovere gli ostacoli, che già oggi, impediscono la piena esigibilità dei diritti costituzionali fondamentali in ogni Regione, sarà duramente contrastato dalla Cgil”.
Anche il neo segretario generale della Cgil Maurizio Landini ha espresso la sua contrarietà: “Ribadiamo con forza la nostra contrarietà ad un’idea di autonomia differenziata che per come si sta delineando è in contrasto con i principi fondamentali sanciti dalla nostra Costituzione: i cittadini devono avere tutti gli stessi diritti fondamentali, sanità, istruzione, lavoro, mobilità, a prescindere da dove nascono, altrimenti si rischia di mettere in discussione il concetto stesso di unità del Paese. Tenere unito il Paese significa ridurre le diseguaglianze e le ingiustizie sociali, che in questi ultimi anni si sono ampliate. Questo disegno va nella direzione contraria”.
Ma l’opposizione della Cgil si rivela essere più di forma che di sostanza perché nel contempo dichiara: “Non siamo contrari a un riconoscimento di maggiori forme di autonomia volto a realizzare un federalismo cooperativo e solidale”, che nel quadro della situazione politica ed economica del nostro Paese non può che portare alla divisione dell’Italia in 20 staterelli che decidono autonomamente su questioni fondamentali e che procedono in modo del tutto differente l’uno dall’altro in base alle proprie condizioni economiche, industriali, culturali.
Contrari i sindacati della scuola e il mondo dell’associazionismo che hanno lanciato un appello nel quale esprimono il loro più netto dissenso “all’autonomia differenziata” il cui “obiettivo è quello di regionalizzare la scuola e l’intero sistema formativo tramite una vera e propria ‘secessione’ delle Regioni più ricche, che porterà a un sistema scolastico con investimenti e qualità legati alla ricchezza del territorio... Regionalizzare la scuola e il sistema educativo e formativo significa prefigurare istituti e studenti di serie A e di serie B a seconda delle risorse del territorio; ignorare il principio delle pari opportunità culturali e sociali e sostituirlo con quello delle impari opportunità economiche; disarticolare il CCNL attraverso sperequazioni inaccettabili negli stipendi e negli orari dei lavoratori della scuola che operano nella stessa tipologia di istituzione scolastica, nelle condizioni di formazione e reclutamento dei docenti, nei sistemi di valutazione, trasformati in sistemi di controllo; subordinare l’organizzazione scolastica alle scelte politiche - prima ancora che economiche - di ogni singolo Consiglio regionale; condizionare localmente gli organi collegiali. Significa in sostanza frantumare il sistema educativo e formativo nazionale e la cultura stessa del Paese. Questa frammentazione sarà foriera di una disgregazione culturale e sociale che il nostro Paese non potrebbe assolutamente tollerare, pena la disarticolazione di un tessuto già fragile, fin troppo segnato da storie ed esperienze non di rado contrastanti e divisive... Contrastare la regionalizzazione dell’istruzione in difesa del principio supremo dell’uguaglianza e dell’unità della Repubblica è un compito primario di tutte le forze politiche, sindacali e associative che rendono vivo e vitale il tessuto democratico del Paese”.
Anche il Sindacato dei medici italiani (SMI) ha promosso una petizione indirizzata al presidente del Consiglio Giuseppe Conte, alla ministra per gli Affari regionali e le autonomie Erika Stefani e alla ministra della Salute Giulia Grillo, e lancia un preoccupato allarme sulla sorte del Servizio sanitario nazionale se dovesse passare il cosiddetto "regionalismo differenziato", che non farebbe altro che aumentare il divario del sistema sanitario tra le varie regioni, già in parte regionalizzato, e che già vede ogni anno oltre 750.000 malati “emigrare” in altre regioni per cercare un livello di cura migliore, con il rischio concreto di distruggere definitivamente il SSN.
La “smania” autonomista rischia però di contagiare pericolosamente anche le altre regioni, infatti anche Campania, Liguria, Lazio, Marche, Umbria, Toscana e Piemonte hanno formalmente dato mandato ai loro governatori di intraprendere l’iter istituzionale previsto dall’art. 116 della Costituzione, mentre Basilicata, Calabria e Puglia hanno espresso il loro interesse a farlo nel prossimo futuro.
E non vi è dubbio che il processo di spezzettamento dell’Italia in 20 “staterelli” andrà avanti spedito visto lo scontato appoggio della Lega fascista e razzista di Salvini, ma anche il beneplacito del M5S nonostante qualche malumore, dettato anche dal suo elettorato al Sud, visto che sembra esser parte del “contratto di governo” con la Lega e accettabile merce di scambio per il varo del “reddito di cittadinanza” sbandierato ai 4 venti da Di Maio come la risoluzione di tutti i mali.
Tra l’altro il M5S chiede tutt’alpiù che la concessione di competenze alle regioni avvenga nel quadro di un livello minimo di servizi da garantire a livello nazionale (la stessa posizione della Cgil e di Landini...), un livello “minimo”, bassissimo, insufficiente, per andare oltre al quale sarà necessario sborsare di tasca propria (chi se lo potrà permettere, perché tale maggiore autonomia non potrà che sottrarre risorse alle redistribuzione nazionale della ricchezza).
Infatti quella che le 3 regioni più ricche del Paese, che da sole fanno il 40% del Pil nazionale, chiamano “autonomia differenziata” si prefigura più come una “secessione dei ricchi” con l’intento malcelato di trattenere in casa l'intero o quasi gettito fiscale e anche se la legge sul federalismo del 2009 stabilisce che ciò non potrebbe avvenire a scapito delle altre regioni più svantaggiate, come tutte quelle del Sud, e nonostante che a parole Zaia, Fontana e Bonaccini spergiurino che non vi sarà nessuna penalizzazione per esse, non c'è nessuna garanzia che impedisca tale inevitabile conseguenza.
Inoltre se andasse in porto aprirebbe la strada a una disarticolazione dell'unità del Paese, a un aumento delle disparità economiche, sociali e culturali tra un Nord ancor più ricco, con una scuola, una sanità, dei servizi e una cultura più sviluppate e un Sud ancor più povero, dequalificato e abbandonato di adesso; e alla divisioni della popolazione in cittadini di serie A e di serie B, questi ultimi con meno diritti, salute e istruzione degli altri.
Un progetto che va respinto in modo compatto e unitario da tutte le forze politiche, sociali, sindacali, culturali e religiose che vogliono difendere l’unità del Paese.

27 marzo 2019