I sindacati confederali bocciano il salario minimo per legge. Giusto!
“Dare valore erga omnes ai contratti”

Nel mese di marzo ci sono stati diversi incontri al Ministero dello Sviluppo Economico (Mise) tra Di Maio e i sindacati. Tra i vari temi trattati la previdenza, le politiche attive, la rappresentanza nelle aziende, il salario minimo. Su quest'ultimo  punto negli ultimi tempi si è sviluppato un dibattito che, in vista dell'avvicinarsi delle elezioni europee e amministrative, si sta facendo via via più serrato.
La relazione tra le prossime tornate elettorali e l'approvazione di un salario minimo stabilito per legge sono evidenti. In particolare il Movimento 5 Stelle punta molto su questo per recuperare consensi e cercare di fermare l'emorragia di voti che ha subito in tutte le ultime consultazioni. Un provvedimento che viene spacciato come una misura imprescindibile per salvaguardare molti lavoratori che prendono una paga da fame.
Come avvenuto per il “reddito di cittadinanza” anche in questo caso si rimarca come il salario minimo sia presente nella maggior parte dei Paesi europei, oltre che in America e Australia. Stavolta però non si citano le nazioni che ci fanno compagnia forse perché nel primo caso era la Grecia, e quindi l'Italia veniva accostata alla parte più povera dell'Europa, il redditto minimo invece oltre che da noi non c'è in Svezia, Danimarca, Finlandia, Austria, ovvero nazioni che sono ai primi posti per tenore di vita medio e salari.
Crediamo non servi a nulla contare quanti Paesi adottino certi sistemi per trarne delle conclusioni positive o negative. Non è che i salari siano più o meno alti a seconda che vi sia oppure no un minimo stabilito per legge; ci sono meccanismi diversi. Possiamo dire che, in linea generale, dove i sindacati storicamente hanno una forza maggiore prevale la contrattazione, dove la loro  presenza è debole, o ha tradizioni aziendali, entra in scena la legge, come ad esempio in Francia e negli Usa.
In Italia, dove pure i contratti nazionali non hanno un’efficacia legale diretta, i livelli di copertura sono ovunque stimati oltre il 90%. Detto ciò, che in Italia esista una questione salariale è fuori discussione, ma questo non implica che la causa sia la mancanza di un salario minimo per legge.
Le attività industriali e le aziende in generale in Italia hanno sempre usato il sistema dei bassi salari per fare concorrenza agli altri Paesi, contando anche sul fatto di avere una moneta debole come la lira che permetteva di esportare merci a prezzi concorrenziali rispetto a nazioni come Germania o Francia. Con l'avvento dell'euro e venendo a mancare la svalutazione monetaria questo sistema di bassi salari si è fatto ancora più aggressivo.
Il problema non è stato avere o non avere un salario minimo, ma assecondare le esigenze padronali come hanno fatto i maggiori sindacati italiani, che da decenni hanno sposato la linea della collaborazione, della concertazione e dei sacrifici (per i lavoratori) che inevitabilmente ha portato i salari italiani agli ultimi posti in Europa.
Nel 2017 i salari sono scesi dello 0,9% mentre la produttività è cresciuta dello 0,4%, in controtendenza con gli altri paesi dove i due dati vanno di pari passo. Se guardiamo il più lungo periodo tra il 2010 e il 2017 in Italia i salari sono addirittura diminuiti in termini reali del 4,3%.
Cgil, Cisl e Uil si sono dichiarati contrari a un salario minimo stabilito per legge, preferendo l'estensione dei Contratti Nazionali esistenti “ erga omnes”, cioè validi per tutti, con una copertura anche per chi oggi non ce l'ha. Per il segretario della Cgil Landini “in questo modo, oltre al salario, anche altri aspetti come le ferie diventerebbero per legge i minimi sotto cui non si può andare, minimi non fatti dal Parlamento, ma dalla contrattazione tra le parti”.
Più variegate le posizioni tra i sindacati non confederali. La Confederazione Unitaria di Base (CUB) propende per il no, mentre l'Unione Sindacale di Base (USB) si schiera apertamente per il sì, sostenendo che una sua introduzione porterebbe a un aumento generalizzato dei salari. Per sostenere la sua tesi ci ricorda come anche Confindustria sia contraria.
Potremmo però rispondere che fu Renzi nel 2014 a riproporre in Italia dopo tanto tempo il salario minimo per legge a corredo del Jobs Act, e che in parlamento sono state presentate  proposte di legge sul tema a firma 5 Stelle, PD e Fratelli d'Italia; non propriamente degli strenui difensori degli interessi dei lavoratori.
In una situazione come quella attuale, con un'offensiva padronale e governativa generalizzata contro i lavoratori è più facile prevedere che il salario minimo per legge tenda ad appiattire su quella cifra (9 euro lordi l'ora) le retribuzioni, indirizzando al ribasso anche il salario mediano che in Italia è largamente inferiore agli altri paesi.
Semmai dovremmo domandarci perché ora tutti vogliono il salario minimo per legge. Secondo noi va nella direzione dell'abolizione del Contratto Nazionale di Lavoro. Toglierlo gradualmente di torno sostituendolo con i 9 euro per tutti e lasciare tutto il resto, salari e diritti, alla contrattazione aziendale o, peggio ancora a quella personale dove il lavoratore si troverà da solo in posizione subordinata davanti al padrone.

3 aprile 2019