La “crescita” non può essere basata su incentivi alle imprese, condono, privatizzazioni, vendita del patrimonio culturale
Al centro va messo lo sviluppo del Mezzogiorno

Il 4 aprile, dopo diversi rinvii e tre ore di discussione piuttosto tese, il Consiglio dei ministri ha varato il tanto annunciato "decreto crescita", un provvedimento urgente per rilanciare gli investimenti pubblici e privati e dare una scossa all'economia, che ormai è in fase di stagnazione, se non di vera e propria recessione. Ma è stato varato con la formula del "salvo intese", un eufemismo che nasconde forti disaccordi all'interno della maggioranza di governo su una serie di aspetti, per cui il documento per ora è solo una bozza suscettibile di cambiamenti e aggiustamenti in corsa.
La stessa formula usata anche per il decreto "sblocca cantieri" varato a marzo, ma il cui testo, al momento in cui scriviamo, non è stato ancora pubblicato sulla Gazzetta ufficiale. E c'è un motivo, perché anch'esso è strettamente collegato all'altro, avendo le medesime finalità dichiarate di stimolare la ripresa economica, e tutt'e due sono collegati al Def, il Documento di economia e finanza, da presentare alla Commissione europea entro il 12 aprile, che dovrà fissare le linee generali di programmazione della finanza statale per impostare la prossima legge di Bilancio in autunno. Ovvio che a seconda di quello che c'è o non c'è scritto nei due decreti, il loro impatto calcolato sull'economia può modificare le cifre del Def e determinare se sarà accolto o respinto dalle autorità europee.
Premesso quindi che la situazione è al momento ancora alquanto incerta, e che per ora ci si può basare solo su quanto è stato riportato nei comunicati e sulla stampa, prima di esaminare il provvedimento, allargato necessariamente anche allo "sblocca cantieri", è utile fare una premessa sulla situazione dei conti dello Stato e sulle partite politiche che si giocano intorno al tema della "crescita" e al Def.
Ad inizio aprile a rinfocolare le discussioni intorno al provvedimento sono state le valutazioni negative sull'andamento economico da parte di diverse fonti convergenti, tra cui Confindustria, Bankitalia, Bce e Ocse. Secondo dati Unimpresa il debito pubblico nel 2018 (per la metà sotto il governo Lega-M5S) è cresciuto di 71 miliardi, pari al +3,1%, il doppio dell'anno precedente, e ha raggiunto il totale di 2.358 miliardi. Il centro studi di Confindustria ha lanciato un allarme sulla crescita, che nel 2019 sarà pari a zero. Da parte sua il governatore della Banca d'Italia, Visco, ha parlato di un 2019 prossimo alla stagnazione, dopo che le previsioni di un 1,2% di crescita per l'anno precedente si sono ridimensionate ad uno 0,9%. Mentre la spesa per gli interessi sul debito è cresciuta di 2,5 miliardi, per effetto dell'aumento dello spread. Anche Draghi, parlando della sfavorevole congiuntura internazionale, col calo del Pil della Germania e dell'intera eurozona, la guerra dei Dazi, la Brexit ecc., ha espresso preoccupazione per i supplementari "fattori di incertezza" creati da Italia e Francia.

Guerra per bande elettorale sui conti pubblici
In queste condizioni il rapporto deficit/Pil concordato con la Ue, che avrebbe dovuto essere del 2,04%, salirà invece attorno al 2,4-2,6%. Nella prossima legge di Bilancio, per rispettare i patti con la Ue, mancherebbero in sostanza sui 13-14 miliardi, che in aggiunta ai 23 miliardi da trovare per disinnescare l'aumento dell'Iva, porterebbero ad una manovra da 36-37 miliardi. Anzi, la Commissione europea ha fatto pressioni su Tria e Conte affinché una manovra di aggiustamento dei conti venga fatta ancor prima delle elezioni europee, o al massimo subito dopo. Ma da quest'orecchio il governo non ci vuole sentire, giura che non ci sarà bisogno di nessuna manovra bis e che nel Def saranno riportate le stesse cifre già stabilite a fine 2018 con la Ue, perché i due decreti "crescita" e "sblocca cantieri" faranno ripartire l'economia e produrranno un aumento del Pil almeno dello 0,3-0,4%, pari a 4 miliardi. Quanto basta secondo i suoi calcoli, invocando anche le difficoltà dovute alla congiuntura internazionale, per tacitare una Commissione europea in scadenza e perciò azzoppata.
Salvini ha anzi trattato sprezzantemente da "gufi" i tecnici di Confindustria, mentre Di Maio ha fatto altrettanto con quelli dell'Ocse, che si erano permessi di pubblicare tutta una serie di previsioni negative sull'economia italiana nel 2019, tra cui stagnazione allo 0,2%, incremento di due punti della disoccupazione, reddito pro capite tornato ai livelli del 2000, aumento della povertà tra i giovani, aumento del divario Nord-Sud e aumento dell'emigrazione giovanile: "L'austerity la facessero a casa loro", aveva risposto piccato il ducetto di Pomigliano D'arco.
Il fatto è che nessuno dei due boss vuole intestarsi la recessione e la nuova stangata antipopolare che si addensa all'orizzonte, e anzi ognuno di loro alza la posta sui propri temi in vista delle europee di maggio. Di Maio lo fa battendo cassa sugli 1,5 miliardi di rimborsi che aveva promesso ai correntisti truffati dalle banche, e Salvini tornando a bomba sulla Flat tax, che ha promesso di nuovo agli elettori di approvare "entro la primavera", o quantomeno di far inserire nel Def. E tutti e due se la rifanno col ministro Tria, già minacciato di licenziamento subito dopo le europee, perché d'accordo con Mattarella cerca invece di tenere la barra sulla sostenibilità dei conti e sugli impegni presi con la Commissione europea, mentre Conte cerca di fare da mediatore tra lui e i due ducetti. Che nel frattempo, essendo ormai in piena competizione elettorale, si lanciano frecciate e si fanno sgambetti sui più svariati temi del giorno.
Ad un certo punto ha fatto capolino anche l'immancabile guerra dei dossier, minacciata per piegare Tria tirando in ballo un suo conflitto di interessi familiare con la sua consigliera economica Claudia Bugno, proprio da coloro - il M5S - che l'avevano sempre bollata come un vizio immondo dei vecchi partiti. Il risultato di questa guerra per bande è stata appunto l'approvazione "salvo intese" del decreto "crescita" e il rinvio della decisione sul rimborso ai truffati delle banche, che avrebbe dovuto essere approvato contestualmente. Mentre a un soffio dalla scadenza è ancora buio fitto sui numeri del Def.

"Decreto crescita", ma dei profitti
Cosa c'è e cosa non c'è in questo decreto per la "crescita"? Fondamentalmente è rivolto quasi per intero alle imprese, c'è qualcosa per il Comuni e non c'è nulla, se non una briciola, per il Sud. Per le imprese c'è infatti un sostanzioso pacchetto che comprende: la cancellazione della mini Ires al 15% per gli utili reinvestiti e la sua sostituzione con la riduzione dell'Ires per tutte le imprese dal 24 al 22,5%, che scenderà ulteriormente nei prossimi anni fino a raggiungere il 20% nel 2022 (meno 2,5 miliardi a regime); l'aumento dal 40 al 50% (che diventerà il 60% nel 2020) della deducibilità dell'Imu sugli immobili di impresa; la reintroduzione dell'iperammortamento al 130% sui beni strumentali; un bonus fiscale per agevolare le aggregazioni societarie; la tutela dei marchi storici con un registro speciale, e del made in Itlay, con incentivazione del 50% delle spese per i consorzi di tutela dei prodotti italiani dalle imitazioni; incentivi per stimolare l'edilizia privata (sismabonus fino all'85% della spesa) e l'efficienza energetica delle abitazioni (ecobonus fino al 50%).
Spunta anche l'immancabile condono fiscale (il dodicesimo con quelli già varati col decreto fiscale e la legge di Bilancio), con la facoltà anche per i comuni che non si avvalgono di Equitalia di rottamare cartelle arretrate tra il 2000 e il 2017 di multe, Imu, Tasi, tassa sui rifiuti, Tosap, Consap ecc. Lega e M5S sono riusciti ad imporre a Tria anche l'entrata del ministero dell'Economia nel capitale della futura nuova Alitalia, convertendo una parte del prestito di 900 milioni fatti alla vecchia società in titoli equity.
C'è un contentino di 500 milioni per i Comuni, dopo i tagli dei precedenti governi, da spendere per l'illuminazione pubblica, risparmio energetico, adeguamento e messa in sicurezza di scuole e patrimonio comunale, abbattimento di barriere architettoniche, ecc. Con contributi che vanno dai 50 mila euro per i Comuni fino a 5 mila abitanti, fino a 250 mila per quelli oltre i 250 mila abitanti, a condizione che gli interventi siano avviati entro il 15 ottobre e siano aggiuntivi a quelli già stanziati.
Nel decreto è compresa anche la norma che abbassa da 120 a 90 (o a 60, ancora non è chiaro) giorni il tempo per le soprintendenze ai beni culturali per dare il parere su interventi edilizi, dopodiché scatta la micidiale tagliola del "silenzio-assenso" che dà via libera allo scempio.
Ci dovrebbero essere anche le norme per l'estensione agli enti territoriali della vendita del patrimonio edilizio pubblico (il governo si è impegnato con la Ue per dismissioni del valore complessivo di 18 miliardi), visto che l'80% di questo patrimonio è di loro competenza. E per il Sud c'è solo un piano di 300 milioni per le zone economiche speciali (ma che non sono solo nel Sud, c'è anche il Veneto, per esempio) e per lo sblocco dei finanziamenti per la rete idrica nel Meridione.

Il decreto "sblocca porcate"
Quanto al decreto "sblocca cantieri", che è strettamente collegato, non per nulla i sindacati lo hanno ribattezzato "sblocca porcate". Riguarda 28 grandi opere, per un totale di 33 miliardi e circa 550 opere medie e piccole per una spesa di 3 miliardi. Già da questo si vede la netta sproporzione tra quanto investito nelle grandi opere rispetto a tutte le altre. Se poi si va a vedere come sono distribuiti questi miliardi, si vede che la parte del leone la fa il Nord, che ne assorbe 25, mentre al Centro-Sud tocca meno della metà, 11 miliardi. Anche il grosso delle opere (380 su 580) è concentrato nel Nord.
Quanto al decreto, di porcate ne contiene più d'una. A cominciare dai commissari straordinari, coordinati da Palazzo Chigi, che avranno poteri prevalenti (salvo, bontà loro, in merito a beni culturali e paesaggistici) per lo sblocco e l'esecuzione delle grandi opere. Salvini avrebbe voluto addirittura un commissario unico, sul famigerato modello Bertolaso ideato da Berlusconi, ma non è passato. C'è poi l'aumento della possibilità di subappaltare fino al 50% dei lavori (che già era stata portata al 30% attuale). E nel caso di affidamento a propri consorzi, non viene considerato subappalto.
Inoltre, per gli appalti fino a 40 mila euro vige il regime di assegnazione diretta senza bando. E da 40 mila a 200 mila euro si può assegnare l'appalto con procedura negoziata e invito limitato a 3 operatori. Oltre i 200 mila si deve procedere con gara, ma viene ripristinato il meccanismo dell'aggiudicazione al massimo ribasso, che notoriamente porta - oltre che ad abbassare la qualità dei lavori - a tagliare i salari, i diritti e la sicurezza dei lavoratori. E tutto questo proprio mentre le cronache riportano altri morti sul lavoro, che stanno ormai aumentando di anno in anno. Lo stesso presidente dell'Autorità anticorruzione, Raffaele Cantone, ha criticato il provvedimento, citando in particolare tra gli "aspetti oggettivamente preoccupanti" la semplificazione a tre offerte, definita "oggettivamente pericolosa", e l'aumento dei subappalti fino al 50%, che può mascherare "tangenti pagate alle organizzazioni locali".
Riassumendo, per il governo la "crescita" è basata su incentivi alle imprese, condono, privatizzazioni, vendita del patrimonio culturale, grandi opere e prevalentemente concentrate al Nord, e liberalizzazione degli appalti, con più lavoro nero, più mafia e meno sicurezza sui cantieri. Occorrerebbe viceversa ribaltare questa logica perversa, come chiedono anche le organizzazioni sindacali, e mettere al centro dell'intervento pubblico gli investimenti al Sud, sia per le infrastrutture che per lo sviluppo delle attività produttive, e varare un grande piano edilizio fatto di piccole e medie opere capillarmente diffuse per la messa in sicurezza del territorio dal dissesto idrogeologico e per la manutenzione e riqualificazione del patrimonio edilizio pubblico e privato.
 
 
 
 
 

10 aprile 2019