Ritirare la cassa integrazione per i 1.400 operai
Nazionalizzare l'Ilva e risanare lo stabilimento di Taranto
Intanto il governo e Di Maio facciano rispettare gli accordi a ArcelorMittal

 
 
La settimana scorsa, i dirigenti di ArcelorMittal Italia, hanno consegnato ai sindacati un documento di quattro pagine, nel quale si conferma la volontà della nuova proprietà dell’ILVA di avviare la cassa integrazione per millequattrocento lavoratori. Nel testo si legge:” Le sospensioni decorreranno a far data dal primo luglio 2019 per le successive 13 settimane. Allo stato è ipotizzabile una ripresa del mercato e della domanda a valle di detto periodo, fatta salva la verifica della necessità di proroga ai sensi della vigente normativa”.
Insomma, ad appena sei mesi dall’acquisto dell’ILVA, ecco la prima “crisi” che colpisce i livelli occupazionali, seguita ai tagli di personale apportati già in avvio dall’accordo.
Un provvedimento rotativo che colpirà quotidianamente 564 addetti dell’Area Primary, 707 dell’Area Finishing, 124 dell’Area Others per un totale, appunto, di 1.395 addetti nell’impianto tarantino, dopo che la multinazionale ha ridotto la produzione in altri stabilimenti nel continente giustificandola dalla crisi dell’acciaio europeo, causata in particolare dal calo della produzione di auto (-14%) e per i dazi americani e cinesi.
Nello specifico, già il 6 maggio scorso ArcelorMittal aveva manifestato l’intenzione di tagliare temporaneamente la produzione di acciaio in Europa con una riduzione di 3 milioni di tonnellate annue sospendendo la produzione degli stabilimenti di Cracovia in Polonia, la sua riduzione nelle Asturie in Spagna, a Dunkirk (Francia), Eisenhüttenstadt (Germania), per poi intervenire nel quarto trimestre 2019 a Brema.
Ora ecco anche il blocco dell’aumento della produzione dell’ex Ilva di Taranto che ArcelorMittal Italia aveva dichiarato di voler portare a 6 milioni di tonnellate nel 2020.
Il segretario genovese della Fiom Bruno Manganaro sottolinea come solo pochi giorni fa il gruppo avesse spiegato che la riduzione della produzione in Europa non avrebbe interessato l’Italia.
Oggi lo stabilimento pugliese occupa 8.250 dipendenti dei 10.351 lavoratori da cui è composto l’intero organico, così suddivisi: 45 dirigenti, 1675 impiegati e quadri, 870 intermedi, 5660 operai. La produzione ionica fornisce i semilavorati necessari alle attività degli altri stabilimenti di ArcelorMittal Italia spa (in primis Genova e Novi Ligure) che operano 'a valle' del ciclo produttivo di Taranto e che con tutta probabilità risentiranno anch’essi del taglio di produzione.
È bene ricordare infatti che l’azienda, in base all’accordo sindacale dell’8 settembre 2018, ha assunto 10.700 lavoratori dei quali 8.200 a Taranto, mentre altri 2.586 dichiarati in esubero sono rimasti in capo all’Ilva in amministrazione straordinaria in CIGS a zero ore; di questi ultimi circa in mille hanno accettato l’esodo incentivato.
In una breve nota congiunta, i metalmeccanici di Fim Cisl, Fiom Cgil e Uilm Uil hanno immediatamente respinto ogni ipotesi di cassa integrazione con queste parole:” Le organizzazioni sindacali, preso atto delle dichiarazioni dei responsabili di Arcelor Mittal, hanno con forza rigettato al mittente tale procedura non volendo entrare neanche nel merito. Invitiamo il Ministero dello Sviluppo Economico, garante dell’accordo siglato il 6 settembre 2018, da tutte le organizzazioni sindacali, a convocare urgentemente un apposito incontro per verificare la completa applicazione dello stesso”.
Alle categorie di settore, si è aggiunta anche la CGIL Puglia, che ha chiesto a sua volta l’intervento del governo:” Non è possibile chiedere alla città di Taranto ulteriori sacrifici lavorativi e sociali ma serve che la politica si assuma la responsabilità di far rispettare l’accordo sottoscritto dall’impresa. Occorre una strategia industriale nazionale per evitare di rincorrere l’emergenza continua, il ministro Di Maio dovrebbe dedicare più tempo e attenzione ai lavoratori che hanno pagato e stanno continuando a pagare la crisi e che scoprono della perdita del proprio lavoro con un messaggio via social o una telefonata”.
Nonostante ArcelorMittal la definisca “una misura temporanea”, è di tutta evidenza come questo passaggio non abbia nulla a che vedere con la strategia di lungo termine definita negli accordi presi al momento dell’acquisto, che prevedevano anche un progressivo reintegro della forza lavoro “scaricata” in avvio; è inaccettabile dunque il nuovo ricorso alla cassa integrazione per altri 1.400 lavoratori in una realtà che ne conta ad oggi già 1.700 in straordinaria.
La stessa multinazionale, se da un lato intende tagliare nei fatti altri lavoratori, allo stesso tempo conferma a parole il proprio impegno su tutti gli interventi previsti per rispettare il piano industriale e ambientale, al termine del quale, con un investimento da più di 2,4 miliardi di euro, Taranto dovrebbe diventare “il polo siderurgico integrato più avanzato e sostenibile d’Europa”.
Ma come credere a chi, dopo appena sei mesi, ha già pesantemente mancato di rispettare quell’accordo fatto praticamente su misura alle sue compatibilità economiche? Rimane aperto, tra l’altro, un ulteriore argomento di fondamentale importanza per i lavoratori e per tutta la popolazione tarantina; quel risanamento ambientale nei fatti mai avviato con decisione.
Di Maio, ministro dello Sviluppo Economico davanti al quale era stato firmato l’accordo tra azienda e sindacati per il reintegro di 10.700 dipendenti ex Ilva ha dichiarato: “Sono stufo di aziende che firmano gli accordi e poi non vi tengono fede.”, ma intanto, la responsabilità maggiore di aver affidato i lavoratori dell’ILVA nelle mani di ArcelorMittal è la sua. Al coro di opposizione al provvedimento della cosiddetta “sinistra radicale”, si aggiunge ora anche il Pd con un’interrogazione allo stesso Di Maio firmata da 9 deputati nella quale si chiede “il pieno rispetto degli impegni sottoscritti” dall’acquirente a settembre 2018 “a cominciare dalla salvaguardia dei livelli occupazionali”, sottolineando che, sebbene l’intesa siglata lo scorso settembre tra ArcelorMittal e governo preveda una verifica trimestrale sulle questioni ambientali e lavorative oggetto dell’accordo, nessun incontro, malgrado le molte sollecitazioni delle organizzazioni sindacali e associazioni ambientaliste, sia stato è stato finora tenuto”.
“Il Bolscevico”, all’indomani della firma tra ArcelorMittal e Di Maio, scriveva: “Questo accordo non tutela né l'occupazione né l'ambiente. (…) Ma la vicenda Taranto è tutt'altro che chiusa e il ritorno ai privati dell'Ilva in breve tempo riproporrà tutte le questioni sul tappeto. Servirà quell'unità nella lotta di lavoratori e popolazione che invocavamo prima per respingere al mittente i tentativi d'imporre una produzione industriale che in nome del profitto sacrifichi le condizioni di vita e la salute dei lavoratori e di tutti gli abitanti di Taranto.”
Dal momento in cui si lascia praticamente campo libero alle scelte aziendali e si affida ad una multinazionale che ha come suo unico scopo il profitto, come ci si può stupire se quest’ultima considera l’accordo sottoscritto come un semplice e futile pezzo di carta da poter ignorare qualora non ne faccia l’interesse? La storia industriale del nostro paese è costellata da episodi di questo genere, di accordi presi e mai rispettati (in ultimo Whirlpool), e più ancora questa dinamica l’evidenzia il capitalismo stesso nei suoi fondamenti generali.
Com’è possibile non aver imparato nulla quando, immediatamente dopo l’accordo, giunsero a 2.586 lavoratori le lettere per l’avvio della cassa integrazione straordinaria? atto che fu contestato anche dai sindacati poiché appariva evidente il fatto che ArcelorMittal avesse selezionato i lavoratori da mettere in cassa integrazione sulla base del comportamento che hanno avuto verso l'azienda, e non tenendo di conto di quanto stabilito dall'accordo governo-Arcelor Mittal-sindacati firmato a settembre e poi confermato attraverso un referendum farsa. Non ERA certo un bel biglietto da visita!
Tutto ciò nonostante Di Maio avesse confermato l’articolo due, comma sei, norma inserita già nell’accordo del gennaio 2015 dal governo Renzi che altro non è che un condono tombale su eventuali reati ambientali, che rallenterà senz’altro – se non annullerà – tutti i propositi di riconversione ambientale dell’impianto.
La misura annunciata qualche giorno fa, purtroppo, non fa che confermare l’atteggiamento ambiguo ed inaffidabile del nuovo padrone dell’ILVA che, con la fattuale complicità del governo, fa carta straccia dell’accordo; questa cassa integrazione non è stata la prima, ma non sarà neanche l’ultima misura contro i lavoratori poiché alla multinazionale basterà ostentare in futuro qualche motivazione “di mercato” più o meno plausibile per ricorrervi ancora, dichiarandola “indispensabile” per far continuare a lavorare gli altri.
Ecco perché l'Ilva andava nazionalizzata. Era quella l'unica strada per salvaguardare posti di lavoro e salute, obiettivi che possono e che devono stare insieme, così come devo stare uniti i lavoratori e la popolazione poichè chi lavora in fabbrica è il primo a subire l'inquinamento; analogamente chi sta fuori subirebbe l'impoverimento economico di tutta la città se l’ILVA chiudesse.
C’è bisogno di una grande mobilitazione unitaria dei lavoratori e di tutta la popolazione tarantina per scongiurare innanzitutto la nuova cassa integrazione, ed allo stesso tempo per chiedere con forza il ripristino dei livelli occupazionali e la riconversione ambientale di tutto lo stabilimento che garantisca la salute della popolazione e tuteli l'ambiente. Se ne facciano una ragione anche i sindacati confederali: la lotta di classe è l’unico strumento efficace di cui dispongono ancora i lavoratori.

19 giugno 2019