Crisi del Golfo Oman
L'Iran abbatte un drone spia Usa. Fallita la rappresaglia cibernetica di Trump
Gli Usa impongono nuove sanzioni economiche all'Iran

 
Siamo arrivati davvero a 10 minuti dalla guerra come mostrato dall'arrogante sceneggiata allestita dalla Casa Bianca o stiamo assistendo alle prove generali di una non ancora imminente ma possibile aggressione dell'imperialismo americano nella regione mediorientale e nel Golfo Persico? L'abbattimento del drone spia da parte iraniana e la fallita, secondo Teheran, rappresaglia cibernetica di Trump sono gli ultimi due episodi che fanno fare alla crisi del Golfo di Oman un ulteriore passo verso una guerra che serve agli Usa per tentare di riconquistare il primato indiscusso sul mondo. I criminali di Washington, da Trump a Bolton, a Pompeo, ai quali si aggiunge dal 20 giugno il nuovo Segretario alla Difesa Mark Esper, ex dirigente di una delle maggiori aziende di armamenti americane e con una significativa esperienza di pianificatore di guerra nello staff del ministero, hanno aperto di fatto la campagna elettorale delle presidenziali Usa dell'anno prossimo giocando a appiccare il fuoco alternativamente in Sudamerica, contro il Venezuela del presidente Nicolas Maduro, e nel Golfo Persico contro la Repubblica islamica dell'Iran. Un gioco pericoloso fra due blocchi imperialisti, come quello precedente la prima guerra mondiale, che intanto alimenta i pericoli di una nuova guerra che non è detto resti come tutte quelle degli ultimi decenni confinata a livello locale: nelle due aree interessate i veri bersagli degli Usa sono le rivali imperialiste Cina e Russia, alleate di Caracas e Teheran, che al momento temporeggiano e reagiscono esortando alla moderazione. Una moderazione che non abita alla Casa Bianca e presso i sui alleati sudamericani, dalla Colombia al Brasile, e mediorientali, dai sionisti di Tel Aviv all'Arabia Saudita. Ma anche Putin, cui compete nel tandem imperialista russo-cinese la parte militare, rispondeva organizzando in due balletti delle megaesercitazioni militari in Asia centrale con le truppe di stanza nelle basi in Tagikistan e in Kirghizistan.
La prima visita all'estero da presidente di Donald Trump nel maggio 2017 aveva avuto quali prime tappe proprio a Riad e Tel Aviv, quelli che diventeranno i suoi due pilastri nella regione, e aveva come tema dominante in agenda la “lotta al terrorismo”; quella da portare a termine contro lo Stato islamico non ancora territorialmente sconfitto e quella da preparare contro l'Iran e i suoi alleati sciiti in Siria e Libano, le componenti locali del blocco imperialista concorrente guidato dalla Russia e al quale si stava avvicinando la Turchia di Erdogan. L'attacco indiretto all'Iran degli Usa iniziava col via libera agli imperialisti sionisti di Tel Aviv di bombardare in Siria le basi delle milizie filoiraniane e dei libanesi di Hezbollah inviate in aiuto al regime di Assad; quello diretto con il ritiro unilaterale di Washington l'8 maggio 2018 dall'accordo sul controllo dello sviluppo del nucleare iraniano, il Piano d'azione congiunto globale (Joint Comprehensive Plan of Action, acronimo JCPOA) firmato a Vienna il 14 luglio 2015 tra l'Iran, i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e l'Unione europea. Un accordo che Trump aveva subito messo nel mirino e definito un cedimento del predecessore Obama all'Iran. Il ritiro degli Usa dal trattato era seguito dal ripristino delle precedenti sanzioni economiche, a partire dall'embargo sulle esportazioni di greggio e altre merci, e dalla minaccia di Trump di allungare la lista delle sanzioni e di includervi anche i paesi alleati, come la Ue, che non lo avessero seguito; una minaccia che finora sembra sia riuscita a creare difficoltà all'economia iraniana, soccorsa dall'intervento di Cina e Russia. La Ue è rimasta sostanzialmente a guardare, pur affermando di voler continuare a rispettare il trattato. Trump ha alzato il tiro contro l'Iran e a questo punto la Ue dovrà prendere una decisione, sempre ammesso che lo voglia e che riesca a uscire in tempi brevi dallo stallo del rinnovo delle sue istituzioni.
Il 13 giugno due petroliere, una giapponese e una norvegese, erano colpite nel Golfo dell’Oman, all'uscita dello stretto di Hormuz dove passa circa il 40% del petrolio commerciato via mare. Come nel caso delle quattro petroliere sabotate a maggio a Fujairah negli Emirati arabi, gli Usa accusavano l'Iran e in particolare le milizie dei Guardiani della rivoluzione, Teheran respingeva ogni acusa e denunciava il fatto come una provocazione costruita per giustificare un attacco. L'imperialismo americano ha una lunga esperienza di false prove per tentare di giustificare le sue aggressioni, dall'incidente del golfo del Tonchino per dare il via alla guerra al Vietnam all'esistenza delle armi di distruzione di massa in Iraq per invadere il paese e porre fine alla dittatura di Saddam: non è quindi credibile. In ogni caso mentre sembrava finire nel nulla la vicenda ancora affatto chiarita degli attacchi alle navi nel Golfo di Oman scattava la nuova e ancor più pesante provocazione Usa in seguito all'abbattimento di un drone spia sullo stretto di Hormuz, nello spazio aereo iraniano il 19 giugno.
L'abbattimento, denunciava il comandante dei Guardiani della Rivoluzione, il generale Hossein Salam, era stato necessario dopo che l'equipaggio dell'aereo che lo teleguidava in una chiara operazione di spionaggio aveva ignorato gli avvertimenti radio di non entrare nello spazio aereo di Teheran.
“L’Iran ha commesso un grande errore” proclamava Trump e la tv saudita Al Arabiya lo traduceva come se la Casa Bianca stesse decidendo la rappresaglia contro l’Iran sotto forma di raid contro basi dei Guardiani della rivoluzione o magari con “un attacco massiccio contro l’Iran con la collaborazione degli alleati nella regione e con la partecipazione della Gran Bretagna”. Il premier sionista Netanyahu era il più lesto a dare il suo pieno sostegno agli Usa in caso di risposta militare. Che era prevista ma non ci sarà, l'ho fermata dieci minuti prima che partisse, annunciava Trump il 21 giugno. Come se non fosse stato lui a ordinarla, o a fingere di averla ordinata che è lo stesso, e a portare il mondo a un passo dal baratro.
Nelle oramai agghiaccianti pantomime inscenate alla Casa Bianca o via Twitter il presidente americano si toglieva l'elmetto e indossava l'abito da cerimonia per “offrire” all'Iran di affrontare un nuovo negoziato sul nucleare, ovviamente meglio per gli Usa di quello definito da Obama, l'Onu e gli alleati europei, sulla scia di quanto ha realizzato con quelli commerciali. Alla falsa apertura univa la minaccia di nuove “pesanti” sanzioni, contro il leader supremo iraniano Ali Khamenei e i suoi collaboratori cui venivano bloccato l'accesso a non ben specificate risorse finanziarie. E comunque, l'opzione militare restava sul tavolo e se l'Iran voleva la guerra sarebbe stata “una distruzione come non l’avete mai vista prima”. Ovvio che la risposta di Teheran era picche: “il canale della diplomazia con gli Stati Uniti è chiuso per sempre”.
Il presidente iraniano Hasan Rohani definiva le nuove sanzioni statunitensi contro l'Ayatollah Ali Khamenei e altri alti funzionari come “oltraggiose e idiote”, tanto più che il leader religioso non ha beni all'estero. Il generale Abolfazl Shekarchi, portavoce dello Stato maggiore delle forze armate iraniane dichiarava che “se il nemico, in particolare l’America e i suoi alleati nella regione, fa l’errore militare di dare fuoco alle polveri su cui giacciono gli interessi americani, la regione andrà a fuoco”. E mentre il ministro delle Tecnologie dell'informazione e della Comunicazione dell'Iran annunciava il 24 giugno che erano stati neutralizzati tutti i cyber attacchi lanciati dagli Usa contro i sistemi informatici iraniani per il controllo ed il lancio dei missili dei Guardiani della Rivoluzione islamica il vice ministro degli Esteri russo Sergei Ryabkov dichiarava da Mosca che la Russia è pronta ad aiutare l’Iran nelle esportazioni di petrolio e per aggirare le restrizioni sul suo sistema bancario se l’Europa non riuscisse a mettere in funzione INSTEX, il sistema di pagamento per gli scambi commerciali annunciato nel gennaio scorso per scavalcare i meccanismi dell'embargo americano.
 
 
 

26 giugno 2019