Triplicati in 10 anni gli italiani emigrati
Cresce la sottoccupazione

 
Secondo il rapporto sul mercato del lavoro pubblicato dall'Istat, Inps, Inail, Anpal e Ministero del lavoro, relativo al decennio 2008/2018, in Italia crescono a dismisura i rapporti brevi, sale l’emigrazione italiana all’estero così come i lavoratori stranieri e la sotto-occupazione.
 

La fuga degli italiani all’estero
Dall’inizio della crisi del capitalismo mondiale, sono tre volte tanti i lavoratori italiani che sono emigrati all’estero in cerca di migliori condizioni di lavoro e di vita; nel 2008 erano quarantamila, mentre a fine 2017 il loro numero era salito a centoquindicimila.
Di questi, 33mila sono i diplomati e 28 mila i laureati, il che mostra come i possessori di un titolo di studio medio-alto siano circa la metà del totale dei lavoratori emigrati; inoltre, se si considera che quasi il 20% dei dottori di ricerca vive all’estero, appare evidente la difficoltà del cosiddetto “lavoro culturale” nel nostro paese che però non esaurisce il tema emigrazione dal momento in cui altrettanti connazionali non in possesso di titoli di studio medio alti hanno deciso di espatriare.
Le cause che spingono gli italiani a emigrare, al pari di quelle di coloro che da altri paesi finiscono nel nostro provenendo da situazioni generali ancor peggiori, va riconosciuta anche nelle condizioni sempre più insostenibili che si trovano in “patria”: aumento verticale della precarietà, l’assenza di misure di stato sociale universali e il peggioramento di quelle presenti a causa dei colossali tagli alla spesa pubblica perpetrati senza sosta dai governi anche nell’ultimo decennio.
In questo quadro, le condizioni di lavoro rivestono un ruolo di primo piano, dal quale spesso dipende la percezione diretta di tutto il resto.
 

La sotto-occupazione e l’aumento dei lavoratori stranieri
Secondo il rapporto, la domanda di lavoro è così bassa da risultare inadeguata rispetto alle potenzialità di lavoratori che in generale risultano altamente istruiti; una spirale che assieme alla sovra-istruzione danneggia in prevalenza i lavoratori precari e a termine nei settori alberghiero, ristorativo e dei servizi alle famiglie. I dati del rapporto parlano di un fenomeno che coinvolgerebbe ben 5 milioni e 569 mila persone, il 24% della forza lavoro attiva, il 35% dei quali sarebbe appunto composto da diplomati e laureati.
Abbiamo detto che gli italiani emigranti in un altro Paese siano in cerca di salario e garanzie occupazionali quantomeno migliori rispetto a quelle che trovano in Italia; lo stesso accade per gli stranieri immigrati in Italia. Entrambi soffrono inoltre di un peggioramento generale delle condizioni di inserimento nel nuovo contesto sociale, frutto della deriva destrorsa e razzista che sta emergendo anche in Europa con i nuovi venti populisti delle destre di governo. Il razzismo purtroppo aumenta ovunque, sia in Italia nei confronti degli immigrati, sia negli altri paesi nei confronti degli italiani là emigrati.
Relativamente alle tipologie di lavoro, il dato che più salta agli occhi è quello dei servizi alle famiglie coperti in Italia al 70% da lavoratori stranieri.
La conferma è anche nel rapporto nel quale si legge che: “L’aumento della quota di occupazione meno qualificata, accompagnata dalla marcata segmentazione etnica del mercato del lavoro italiano, ha favorito la presenza di lavoratori immigrati più disposti ad accettare lavori disagiati e a bassa specializzazione (…) Tra il 2008 e il 2018 gli stranieri sono passati dal 7,1% al 10,6% degli occupati”.
 

Nessuna crescita occupazionale all’orizzonte
Il decennio analizzato dal rapporto conferma e rilancia le scarse prospettive del “mercato” del lavoro a partire dal dato più importante, quello del tasso di occupazione del 58,5%, penultimo in Europa.
L’Europa si attesta su un tasso di occupazione medio di circa il 70% che il nostro Paese raggiungerebbe se occupasse altri 3,8 milioni di lavoratori; una prospettiva quasi miracolistica considerate le prime avvisaglie di recessione “tecnica” emerse a fine 2018.
Nonostante le strumentali quanto opportunistiche dichiarazioni di crescita espresse prima dal PD e adesso dal governo nero Lega-M5S, il quadro che emerge in tutta evidenza riguarda una crescita occupazionale definita “a bassa intensità lavorativa” che nella sostanza significa più precari occupati, ma per meno ore lavorate, pagati sempre peggio e sempre con minori diritti.
I dati sono questi: + 375mila rapporti di lavoro non oltre i sei mesi ai quali si aggiungono tantissimi part-time involontari, per un totale insieme alle altre tipologie di 3,1 milioni di lavoratori precari.
È solo per questa ragione che il numero delle persone occupate nel 2018 supera di 125 mila unità il 2008; ma nel contempo, servirebbero 1,8 milioni di ore lavorate in più e oltre un milione di unità di lavoro a tempo pieno per recuperare il livello occupazionale di dieci anni fa.
Il lavoro dunque manca, ed è latitante soprattutto sono nella sanità, nell’istruzione e nella pubblica amministrazione, settori colpiti in maniera massiccia dai tagli governativi, dal blocco dei contratti e del turn-over, con una particolare penalizzazione per il Sud che rappresenta ancora una volta ed alla faccia degli impegni presi dai governi per risolvere, o quanto meno mitigare, la questione meridionale, dal momento in cui proprio il sud perde altri 262mila occupati.
 

L’evidenza della truffa Jobs Act e delle altre misure “pro-occupazione”
Nelle righe del rapporto un altro messaggio è certo, e riguarda l’inefficacia per l’incremento occupazionale – che era l’obiettivo dichiarato – del Jobs Act e delle sue agevolazioni fiscali in promessa di assunzione “stabile”; al momento l’unica cosa certa son state l’inserimento delle tutele crescenti, la fine delle proiezioni dell’art.18 dello Statuto dei Lavoratori, ed i benefici economici alle imprese in termini di sgravi fiscali e contributi.
Infatti, l’impatto dei bonus “Garanzia giovani” (2014), “Giovannini” (2013) e quelli collegati al Jobs Act (2015), hanno inciso appena il 28% sull’occupazione totale (19% al Sud dove si sono concentrati i contributi) nonostante la misura sia costata allo Stato miliardi di euro ed alle lavoratrici ed ai lavoratori un arretramento senza precedenti in termini di stabilità occupazionale.
Nonostante questi risultati deludenti, il principio degli sgravi è stato confermato anche nel sussidio chiamato “reddito di cittadinanza”, nello stesso modo in cui il decreto “Dignità” di Di Maio e Salvini non è andato minimamente a toccare la precarizzazione derivante dalla riforma Renzi, ma al contrario ad inasprirne alcuni aspetti accorciando la durata generale dei tempi determinati senza nessun impegno all’assunzione.
È qui che emerge il reale interesse di queste misure, nessuna esclusa, che è stato principalmente quello di dirottare soldi pubblici ai privati e precarizzare ancora le condizioni di lavoro ed i diritti dei lavoratori rendendoli più ricattabili.
Per noi non è corretto dire, come sostengono alcuni imbroglioni opportunisti e trotzkisti che si definiscono “comunisti”, che la crisi ha cambiato anche la natura del lavoro, a partire da quello dipendente; è vero invece che in seguito alla crisi le aziende della borghesia ed i suoi governi che si stanno succedendo alla guida del nostro Paese, hanno pestato sull’acceleratore della precarizzazione, della riduzione dei costi e dei diritti.
Quello che si configura oggi infatti non è l’evoluzione logica del mondo del lavoro come ripete sistematicamente la borghesia attraverso i suoi agenti, ma il risultato della lotta di classe in questi termini.
Il lavoro non cambia da sé, per natura, come una pianticella che nasce, cresce e muore, ma si attesta nel punto in cui le parti si accordano; in sostanza a fronte di attacchi sempre più forti da parte di coloro che detengono i mezzi di produzione e hanno in pugno il sistema economico e l’organizzazione del lavoro, i partiti di origine operaia e i sindacati collaborazionisti non hanno saputo né voluto rispondere con iniziative di pari portata che li potessero contrastare efficacemente, spesso rendendosi promotori essi stessi di tali misure. E questo è il risultato.
La soluzione per le lavoratrici e per i lavoratori, così come per i giovani ed i pensionati non può che essere quindi la ripresa viva e determinata della lotta di classe, l’unica via per riconquistare diritti, lavoro stabile a salario pieno e sindacalmente tutelato per tutti.
 

3 luglio 2019