Per il ritiro della legge sulla estradizione, per il suffragio universale e la democrazia
Non si placa la lotta di piazza delle masse di Hong Kong
I socialimperialisti di Pechino si tengono pronti per un eventuale intervento militare

 
Che la sospensione delle contestate modifiche della legge sulle estradizioni per renderle possibili verso la Cina e Taiwan annunciata a metà giugno e dichiarata morta dalla governatrice Carrie Lam lo scorso 9 luglio non avrebbe arrestato il movimento di protesta delle masse di Hong Kong era evidente; ritenendo che la questione della legge fosse solo uno dei tanti passaggi coi quali il governo di Pechino potrebbe accelerare il percorso di inglobamento della città governata in base a un protocollo che ne preserva l'autonomia politica, economica e giudiziaria fino al 2047, come definito nell'intesa negoziata nel 1997 tra la Cina e l'ex potenza coloniale inglese la protesta non aveva smobilitato e anzi aveva alzato il tiro chiedendo le dimissioni del capo dell’esecutivo Carrie Lam, un'inchiesta sulla brutalità della polizia durante le proteste, il rilascio degli arrestati e infine maggiori libertà democratiche a partire dall'elezione del governo da parte del parlamento e non attraverso la nomina di un comitato ristretto usato da Pechino per controllare la regione. Punti che ha tenuto fermi nella lotta di piazza che da tre mesi, e in particolare con una serie di grandi manifestazioni, scuote la regione amministrativa speciale cinese. La sempre più pesante repressione della polizia e gli arresti degli elementi più attivi non ha riportato la situazione sotto il controllo dell'amministrazione locale spingendo i socialimperialisti cinesi a minacciare un eventuale intervento militare.
Il pieno controllo di Hong Kong per il governo di Pechino significa il controllo di una zona che nel tempo è divenuta sede di uno dei centri finanziari internazionali più importanti del mondo, con una sviluppata economia capitalistica basata soprattutto sul settore terziario tanto che la moneta, il Dollaro di Hong Kong, è l'ottava valuta più scambiata al mondo. I sistemi giuridico, legislativo e scolastico erano modellati su quello inglese instaurati durante il periodo coloniale dal 1842 al 1997, quando Hong Kong è divenuta una regione amministrativa speciale cinese in base alla Dichiarazione congiunta sino-britannica firmata a Pechino nel 1984. La Cina si vedeva riconosciuta la sovranità sulla regione, sulla sua politica estera e sulla difesa, ma si impegnava a non modificare il sistema economico e politico della città almeno fino al 2047, secondo il principio “un paese, due sistemi”. Quello stesso meccanismo che Pechino pensa di poter replicare per rimettere la mani su Taiwan. Se fallisce a Hong Kong, salta il progetto.
Il primo tentativo di Pechino di accelerare i tempi dell'annessione è del luglio 2014 con l'annuncio del governo di una riforma del sistema elettorale per nominare l'esecutivo, ben lontana da libere elezioni. Un forte movimento di protesta con manifestazioni e occupazioni spinto da organizzazioni studentesche e sociali, conosciuto come la “Rivoluzione degli ombrelli” coi quali i manifestanti si difendevano dai gas lacrimogeni e urticanti della polizia, spinse il parlamento a bocciare la modifica alla legge elettorale. Restava comunque il controllo di Pechino sulla elezione del governatore, sulla Carrie Lam scelta nel 2017 con l'opposizione alle ingerenze dei socialimperialisti cinesi che non era morta e pronta a riesplodere alla prima occasione. Quella creata dalla governatrice con la proposta di modifica della legge sulle estradizioni presentata ai primi del 2019 e ritenuta dal movimento di protesta un cavallo di Troia della Cina per proporre altre modifiche legislative.
Dalle prime proteste nel mese di aprile si passava alle manifestazioni di massa, la prima del 9 giugno, agli scontri con la polizia alle centinaia di arresti. E le proteste sono passate dall'opposizione alle modifiche legislative all'aperta ribellione contro l'ingerenza di Pechino e alle richieste di libertà e autonomia, di suffragio universale e la democrazia, con blocchi provvisori del traffico stradale, aereo e ferroviario e l'organizzazione di uno sciopero generale, il primo in 50 anni. Dal 9 giugno sarebbero state arrestati oltre 420 manifestanti, alcune decine dei quali fermati con false accuse di crimini che prevedono fino a 10 anni di carcere.
A metà agosto, tramite il Global Times, tabloid dell'organo ufficiale del Partito comunista cinese, Pechino avvertiva e minacciava che “non aveva ancora deciso se intervenire con la forza per sedare la rivolta di Hong Kong ma questa opzione è chiaramente a disposizione”. Al consigliere di Trump sulla sicurezza nazionale John Bolton, che aveva intimato alla Cina di non ripetere i massacri di una “nuova piazza Tiananmen”, il governo di Pechino rilanciava le sue accuse verso “forze straniere” che fomentavano la protesta mentre un editoriale del Quotidiano del Popolo ammoniva fin dal titolo, “Inutile per Washington giocare la carta Hong Kong” e accusava gli Usa di voler “distruggere la città”.
I socialimperialisti di Pechino non vogliono intromissioni da parte dei concorrenti imperialisti di Washington e tengono sotto pressione la situazione di Hong Kong nella cui area, dalla quale passa già una quota significativa delle sue importazioni, stanno investendo per costruire una grande zona economica e finanziaria in grado di rivaleggiare con quelle di San Francisco e Tokyo. Una prospettiva che richiede una maggiore integrazione di Hong Kong nella Cina continentale senza attendere le scadenze del 2047.

4 settembre 2019