Rapporto annuale dell'Inps
Salari fermi da 25 anni. Volano solo i superstipendi

Ogni volta che istituti come l'Istat o l'Inps ci forniscono dei dati, questi evidenziano che l'Italia è un Paese dove le disuguaglianze sono in costante crescita. Ulteriore conferma arriva dall'Istituto Nazionale di Previdenza Sociale che avendo accesso ai dati delle retribuzioni da lavoro dipendente privato è in grado di fotografare l'andamento dei salari nel corso dei decenni.
Nel suo rapporto annuale presentato lo scorso luglio, oltre alla congiuntura attuale, sono riportati numerosi dati che partono dal 1970. Balza subito agli occhi come le buste paghe non crescono più da moltissimo tempo. “Salari fermi al palo da 25 anni, volano solo i superstipendi” gridava il Fatto Quotidiano nella sua edizione del 31 luglio, rivelando in realtà quello che milioni di lavoratori italiani sanno già perché lo hanno sperimentato sulla propria pelle.
Quando parliamo di disuguaglianze e di compressione salariali fra dipendenti del settore privato, è luogo comune attribuire la colpa dell’aumento della povertà assoluta alla crisi economica iniziata nel 2008. In realtà i dati mostrano che il fenomeno è in atto almeno da quarant’anni, semmai negli ultimi anni è cresciuta la forbice tra i salari più bassi e quelli più alti.
Dati che sconfessano anche tutti quei politici, e molti sindacalisti, che propugnano continuamente la collaborazione tra proletari e borghesi, tra sfruttati e sfruttatori, ripetendo la storiella che se i lavoratori si sacrificano e aiutano il padrone, l'azienda andrà meglio e ne gioveranno anche loro.
Una favoletta che già Marx 150 anni fa con il saggio “Salario, prezzo e profitto” aveva smascherato, dimostrando che la domanda e l'offerta incidono solo parzialmente su prezzi e salari, e come il capitalista spreme al massimo il lavoratore in qualsiasi condizione, di crisi o di sviluppo, e tende sempre a comprimere il salario per mantenere il suo profitto il più alto possibile.
Ritornando ai dati dell'Inps questi dimostrano come il valore dei salari sia cresciuto dal '70 fino ai primi anni '90, per poi subire una drastica discesa. A livello generale i redditi da lavoro sono diminuiti di 10 punti, una percentuale che ovviamente è andata a ingrassare i redditi da capitale. Una situazione comune a tutta l'Europa, dove il lavoro dipendente è passato dal 70% del totale del 1975 al 60% attuale, solo che in Italia il divario salariale è notevolmente più alto della media.
I motivi di questa salita e repentina discesa che in concreto ha portato a bloccare i salari reali negli ultimi 25 anni sono molteplici. Senza dubbio uno di questi è la cancellazione nel 1985, voluta da Craxi e avvallata da Cisl, Uil e una parte della Cgil, del meccanismo del punto unico di contingenza (la scala mobile), in base al quale l’aumento salariale veniva fissato in valore assoluto e non in termini percentuali, il che favoriva gli stipendi più bassi.
A questo importante tassello dobbiamo aggiungere l'atteggiamento dei sindacati Confederali che proprio in quegli anni sposarono la “politica dei redditi” e della “compatibilità economica”, subordinando i salari alle esigenze dei capitalisti. “Gli esperti di Inps attribuiscono la responsabilità alla stipula di nuovi accordi fra le parti sociali. Uno degli obiettivi era proprio quello di limitare la forte crescita salariale degli anni precedenti”. A dirlo è lo stesso Sole 24 ore , il quotidiano della Confindustria.
I freddi dati statistici sono comunque parziali, la situazione è ancora più grave perché il divario tra la media e il livello più alto è cresciuto tantissimo negli ultimi anni e ciò falsa il salario mediano. Percentili e indice di Gini sono termini tecnici che misurano le diseguaglianze. Semplificando possiamo dire che dividendo i salari in sei fasce in base al reddito abbiamo un quadro più chiaro.
Fino al '91 i salari più bassi crescono più velocemente di tutti gli altri. Dopo di che i redditi di ultima e penultima fascia calano vistosamente, in maniera drammatica a partire dal 2008. Contemporaneamente gli altri salari salgono leggermente, mentre quelli della fascia più alta subiscono un'impennata negli anni più recenti. Tradotto significa che operai e impiegati hanno perso importanti quote di reddito, mentre dirigenti e super manager hanno visto rivalutare e di molto le loro buste paga.
Contemporaneamente, soprattutto a partire dagli anni '80, il rapporto dell'Inps evidenzia come “l'andamento della quota dei redditi da lavoro è speculare alla crescita del saggio di rendimento netto del capitale”. Confermato da un altro dato dove si evidenzia come dal 1970 al 2000 “il valore aggiunto per addetto del settore privato è cresciuto dell'89%, mentre i redditi da lavoro sono aumentati tra il 71% e il 75%”.
Il divario tra la ricchezza prodotta e quella distribuita sotto forma di reddito è quindi di almeno il 15%. Che in parole povere significa che una fetta di ricchezza è stata sottratta al lavoro salariato per essere distribuita al capitale industriale e finanziario.
A beneficiarne sono soprattutto i cosiddetti Top earners, cioè coloro i cui salari si trovano oltre il novantesimo percentile della distribuzione dei redditi di lavoro. Le soglie per l’ingresso nel top 10% e top 5% dei salari sono cresciute in modo costante nel tempo: “Per entrare nel top 10% occorreva avere un reddito di 31.000 euro nel 1978, salito a 39.000 nel 2017; l’accesso al top 5% richiedeva un reddito di 38.000 nel 1978 contro i 51.000 nel 2017”. Ma è salendo nella graduatoria, al top 1%, 0,5% e 0,1% che le disuguaglianze aumento in modo esponenziale. La soglia del top 0,1% passa da 122.000 a 217.000 euro mentre la soglia per entrare nel top 0,01% è passata da 220.000 euro nel 1978 a 533.000 euro nel 2017 (+242%).
La disuguaglianza sociale ed economica descritta da questi dati si coglie ancora meglio se si considera che dal 1970 al 2000, “il valore aggiunto per addetto del settore privato è cresciuto dell’89%, mentre i redditi da lavoro sono aumentati del 71% in termini di potere d’acquisto e del 75% in termini del deflatore settoriale”. Il divario tra la ricchezza prodotta e quella percepita in termini di reddito è quindi di almeno il 15%. Tra il 2000 e il 2018, “nell’insieme del settore privato, i redditi da lavoro in termini di potere d’acquisto crescono solo del 4%, e nel 2018 tornano allo stesso livello del 2007; mentre la produttività rimane sostanzialmente invariata”.
 

4 settembre 2019