Con i due accordi fotocopia della Turchia con Usa e con Russia
Le forze curde costrette a ritirarsi di 32 chilometri
Il dittatore fascista Erdogan ha usato napalm e bombe al fosforo
Pence: “Stati Uniti e Turchia si sono reciprocamente impegnati a sconfiggere le attività dell'ISIS nel nord-est della Siria”

 
“Oggi con Putin abbiamo raggiunto un accordo storico per la lotta contro il terrorismo, l'integrità territoriale e l'unità politica della Siria, e per il ritorno dei rifugiati”, ossia per la spartizione della Siria, commentava il fascista Recep Tayyip Erdogan al termine dell'incontro del 22 ottobre a Sochi col presidente russo Vladimir Putin. Che a sua volta appoggiava l'invasione turca del nord della Siria: “il presidente turco mi ha spiegato le ragioni dell'offensiva. Io sono convinto che i sentimenti separatisti nel Nord-Est della Siria, siano stati fomentati dall'esterno. La regione va liberata dalla presenza illegale straniera”. L'accordo prevede il pattugliamento congiunto nella fascia fino a 10 chilometri in territorio siriano dalla quale le forze delle milizie curde delle Ypg erano costretta a ritirarsi secondo l'accordo fotocopia firmato una settimana prima dalla Turchia con gli Usa e prevede l'estensione della tregua lì definita per altri sei giorni.
Il primo accordo che costringeva le forze curde a ritirarsi entro cinque giorni di 32 chilometri dalla frontiera pena la continuazione dell'invasione era quello firmato da Erdogan nella capitale turca il 17 ottobre con la delegazione di alto livello degli Usa guidata dal vice presidente Mike Pence e dal segretario di Stato Mike Pompeo. Un accordo che in realtà era un ultimatum alle forze curde di non resistere alla costituzione della cosiddetta fascia di sicurezza sotto il controllo delle truppe di Ankara o delle milizie islamiche alleate lungo la linea di confine tra i due paesi nella Siria nord-orientale.
L'interposizione delle forze russe in alcune zone di guerra, come Manbij, dove sono presenti soldati turchi, curdi e siriani, e l'invito a Mosca del presidente Vladimir Putin al collega imperialista turco del 15 ottobre sottolineavano la posizione dell'imperialismo russo di principale gestore della crisi e della spartizione della Siria. Ma Erdogan non è Assad, cui è andata di lusso se ha mantenuto la poltrona a Damasco grazie all'intervento del Cremlino, ha ambizioni imperialiste regionali e ha attuato la politica dei due forni, cogliendo al momento le opportunità che gli rilanciava l'imperialismo americano per un patto che lo coprisse nell'invasione della Rojava in Siria. E poi è andato a battere cassa a Mosca, dove ha trovato le porte spalancate. Anche l'imperialismo americano, pur con la posizione di Trump di togliersi di mezzo da crisi e guerre considerate non utili, non può lasciare campo libero al principale concorrente militare e regalargli la Turchia e un pezzo della regione mediorientale dove assieme all'alleato imperialista sionista di Tel Aviv tiene aperta a contesa con l'Iran.
Il documento reso noto dalla Casa Bianca, sfrondato delle parti che lo “abbelliscono” come quello di essere un accordo storico che pone fine alle ostilità e che invece sono continuate nei giorni seguenti e con l'uso delle proibite armi chimiche da parte degli invasori turchi, ribadiva anzitutto il rafforzamento delle relazioni bilaterali tra gli Usa e “la vecchia alleata della NATO”, relazioni recentemente raffreddate col passaggio della Turchia all'altra alleanza imperialista guidata dalla Russia, e la stretta cooperazione dei due paesi contro lo Stato islamico, che e stato cancellato come entità territoriale ma non è stato affatto liquidato come pomposamente annunciato anche di recente dal presidente americano Donald Trump, quantomeno da zone tra il nord-est della Siria e l'Iraq.
Il vice presidente Pence e l'accordo di tregua sottolineavano che “la Turchia e gli Stati Uniti sono impegnati nelle attività contro D-ISIS / DAESH nel nord-est della Siria”, e poi annunciava che la Turchia aveva accettato di sospendere l'Operazione Peace Spring per consentire il ritiro e la consegna delle armi pesanti delle formazioni militari curde YPG dalla zona di sicurezza entro 120 ore. Solo al completamento di questo ritiro sarebbe cessata l'operazione Peace Spring.
Affermava Pence che “gli Stati Uniti saranno sempre grati alle SDF per la loro collaborazione nella sconfitta dell'ISIS”, ma erano palesemente scaricati nel momento in cui prevaleva l'interesse imperialista dell'appoggio alla Turchia e al suo progetto di occupazione della fascia di sicurezza in Siria, che punta intanto a liquidare le forze curde. Abbiamo avuto “ripetute assicurazioni” sul loro ritiro dal confine, assicurava Pence che dava per già avviato il ritiro delle YPG curde dall'area della zona di sicurezza, accettato dalle Forze democratiche siriane, di cui le YPG costituiscono la parte preponderante, che ne indicava l'inizio alle ore 22 del 17 ottobre. Ma tanto non bastava al dittatore fascista Erdogan che usava napalm e bombe al fosforo contro la popolazione civile delle città di frontiera prese d'impatto dalla prima ondata dell'invasione. Crimini denunciati e documentati con foto dalla resistenza curda che non scuotevano più di tanto i governi imperialisti europei, silenziosi e quindi complici dell'invasione.
Alla vigilia della scadenza dell'ultimatum, la sera del 22 ottobre, registriamo l'evacuazione delle forze curde dalla città di confine di Ras al-Ayn, seguite dalla popolazione che teme rappresaglie come accaduto nel cantone di Afrin. Così Ankara effettua una pulizia etnica nella zona di confine dove ha dichiarato di voler trasferire i profughi siriani rifugiati in Turchia.
Il capo delle Forze democratiche siriane, Mazlum Abdi, in una lettera al vicepresidente Pence ha confermato “il ritiro di tutte le forze YPG” dalla zona di sicurezza.
Se le forze turche avanzano da nord, quelle governative siriane entrano da sud, dopo l'intesa tra il governo di Damasco e l'Amministrazione Autonoma della Siria del Nord e dell’Est, e puntano a recuperare il controllo delle zone siriane “liberate” dall'IS dove si trovano importanti pozzi petroliferi. E dove non a caso sembra resteranno alcune centinaia di marines americani che non seguiranno il resto del contingente che ha traslocato in Iraq, nella base americana di Ayn ul Esad subito dopo il confine. Secondo quanto anticipato dal New York Times il Pentagono avrebbe chiesto a Trump di mantenere il contingente in zona per vigilare contro il ritorno dello Stato Islamico e ostacolare il governo siriano nel sostituire le forze curde a guardia dei pozzi petroliferi. Una conferma viene dal messaggino lanciato il 20 ottobre dal presidente americano: “i soldati Usa non sono più nelle zone di combattimento o del cessate il fuoco, abbiamo messo in sicurezza il petrolio, stiamo portando i soldati a casa”. In realtà restano in zona, che potrebbero tornare utile in funzione antiiraniana.
Il vertice tra Erdogan e Putin confermava la posizione russa ribadita anche alla vigilia dell'incontro dal ministro degli Esteri Sergei Lavrov di sostanziale copertura dell'invasione turca contro i curdi “alleati” degli Usa e da ricondurre sotto il controllo di Damasco. La Russia “mira a incorporare solidamente ogni struttura curda presente nel territorio siriano nella sfera legale siriana e nella Costituzione siriana in modo che non rimangano unità armate illegali in Siria e che la sicurezza della Turchia e di altri Stati non sia messa in pericolo”, sosteneva Lavrov. Con tanti saluti ai diritti del popolo curdo. L'autonomia di Rojava, comunque, ne esce compromessa, anche perché le truppe di Damasco sono entrate, su richiesta delle forze curde, nel suo territorio, che Assad considera parte integrante della Siria.

23 ottobre 2019