Due milioni di libanesi in piazza contro corruzione, carovita e governo
Contestati Hezbollah e Amal

 
Dal 17 ottobre è in corso in Libano un’ondata di proteste contro corruzione, carovita e governo senza precedenti nella storia moderna del paese. L’indignazione, la rabbia e la frustrazione di un intero popolo covata per quasi trent’anni, dalla fine della guerra civile del 1990, contro la casta confessionale alla guida del paese dei cedri, è esplosa portando in piazza nei primi dieci giorni 2 milioni di persone su una popolazione di 5 milioni. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato l’annuncio del piano governativo di inasprimento di alcune imposte, tra le quali quelle su tabacco e benzina con l’aggiunta di una nuova, ennesima, tassa, 20 centesimi di dollaro al giorno, su Whatsapp e altri applicativi che permettono di telefonare sfruttando la connessione a internet. Il ministro delle Telecomunicazioni l’ha sì ritirata, ma la popolazione era ormai scesa nelle strade di tutto il paese.
Dalla capitale Beirut e i suoi 150mila manifestanti in piazza dei Martiri, a Tripoli, Sidone e Tiro si sono succeduti i blocchi stradali, barricate con copertoni dati alle fiamme, proteste sotto le sedi governative. Nelle strade del paese cristiani, sunniti e sciiti protestano insieme contro il governo, la corruzione e i poteri economici forti. Alla loro testa tanti giovani. L’esercito libanese ha fatto più volte irruzione nelle strade teatro delle principali proteste, tanto che dopo le prime due giornate si contavano 2 vittime e decine di feriti. Il paese è praticamente fermo, le banche, come le scuole e gli uffici pubblici e privati sono chiusi stangati.
L’ondata di proteste in Libano ha innanzitutto una radice economica, di povertà. Beirut naviga da anni in acque difficili. Il suo debito pubblico di 86 miliardi di dollari supera il 150% del Pil attestandosi tra i più alti del mondo. I cittadini della capitale che non guadagnano nemmeno il salario minimo, 290 euro al mese, sono il 16%. Circa 1 milione e mezzo di libanesi vive con 108 euro mensili. Mentre l’1% della popolazione ha il controllo di un quarto della ricchezza di tutto lo Stato.
Tra questi ci sono anche il premier Saad Hariri e molti esponenti sciiti e cristiani maroniti del governo in carica accusati di corruzione. Dal ministro degli Esteri Gebran Bassil, al presidente della repubblica e suocero di Bassil, Michel Aoun. Nel mirino della contestazione delle masse popolari anche il governatore della Banca centrale libanese Riad Salameh. Al grido di “Abbasso il regime delle banche” e “Ladro, ladro, Riad Salameh è un ladro” i manifestanti hanno preso di mira le sedi di piazza Riad el Solh a Beirut davanti al palazzo governativo, e quelle di Hamra e Tripoli.
Il popolo libanese non può più accettare nuove tasse e che gli sia chiesto di fare altri sacrifici mentre lo Stato non fornisce i servizi di base, come elettricità, acqua, istruzione e sanità. Il pacchetto di riforme approvato frettolosamente il 21 ottobre dal governo del premier Hariri nel mezzo delle proteste non ha convinto le masse in lotta. L’obiettivo per il 2020 di una riduzione del deficit statale dello 0,6% del Pil e il taglio del 50% degli stipendi di parlamentari e ministri insieme ad una riduzione dei benefici garantiti ai funzionali statali, sono stati visti come fumo negli occhi. Ha persuaso invece l’imperialismo mondiale, ispiratore del “Gruppo di Supporto internazionale per il Libano”, composto da ONU, USA, Cina, Russia, Regno Unito, Germania, Francia e Italia, insieme a Unione europea e Lega araba, che lo hanno giudicato sfrontatamente e vergognosamente “in linea con le aspirazioni dei libanesi”.
Mentre dalle piazze in rivolta si alza anche il grido di “Thoura, thoura” (Rivoluzione, rivoluzione), assieme a “Il popolo vuole la caduta del regime”, l’opposizione ha sottoscritto un documento comune che chiede le dimissioni del governo e un esecutivo tecnico che transiti il paese a elezioni anticipate, esortando i manifestanti a continuare la protesta fino a quando queste richieste non saranno esaudite.
La protesta libanese non risparmia nessuno, neppure Hezbollah e l’alleato Amal, come è avvenuto a Beirut il 21 ottobre dove sono stati contestati folti gruppi di loro militanti dichiaratisi contro le proteste popolari. Lo speaker del parlamento, Nabih Berri, leader di Amal, “si deve fare da parte”, grida la piazza. Mentre al leader sciita di Hezbollah, Nasrallah, che si è espresso a favore del governo pur rimarcando l’importanza delle ragioni della protesta, viene mossa l’accusa di essersi fatto garante del sistema confessionale, settario e corrotto che regge la repubblica libanese. Tant’è che il 24 ottobre manifestazioni imponenti contro corruzione e carovita si sono svolte anche in due roccaforti di Hezbollah e Amal, a Nabatiye, nel sud del Libano, e Baalbek nella valle orientale della Bekaa.
Il 27 ottobre, nell’undicesimo giorno di protesta a livello nazionale, centinaia di migliaia di libanesi hanno formato una catena umana di 170 chilometri lungo le autostrade e le zone costiere del paese, in una importante dimostrazione di solidarietà con le manifestazioni antigovernative.
 
 

30 ottobre 2019